Logo 24GLO24 Global Local Online
24GLO . com

All books 24glo.com/book/

Read online, download free ebook     PDF,     ePUB,     MOBI,     docx,     original PDF

Swift, Jonathan. Viaggj del Capitano Lemuel Gulliver in diversi Paesi lontani.

Originally published: 1749
Translator: F. Zannino Marsecco

Swift, Jonathan. Viaggj del Capitano Lemuel Gulliver in diversi Paesi lontani. Read online, download free ebook PDFSwift, Jonathan. Viaggj del Capitano Lemuel Gulliver in diversi Paesi lontani. page 2

Traduzione dal Franzese.

DI F. ZANNINO MARSECCO.

Tomo Primo:

PARTE PRIMA.

Contenente il Viaggio di LILLIPUT

IN VENEZIA, MDCCXLIX.

Appresso Giovanni Tevernin.

All’Insegna della Providenza

Con Licenza de’Superiori, c Privilegio.

LO

STAMPATORE

A chi Legge.

SE mai con vostro gradimento vi ho servito colle mie Stampe; di servirvi con vostro piacere pel mezzo delle presenti non poco presumo. L’Inglese Aurore di quest’immaginarj Viaggj, comechè sotto il finto nome di Capitan LEMUEL GULLIVER, scontento (al suo dire,) non già della prediletta sua Patria, e neppure del generale della sua stimata Nazione; di certi difetti bensì notati da lui in taluni de’suoi Campatrioti, meditó di assalire i difetti stessi non affatto alla scoperta, ma si bene per imboscata. Anzi dunque (se siete Leggitore erudito) che vi rincresca il tornio ond’egli si è prevaluto, ammiratene l’industria, e la graziosità: rendendovi persuaso che non sono puramente inezie quelle che a prima vista per tali vi compariranno. Vivete felice.

TAVOLA

DE’CAPITOLI

Del Viaggio di Lilliput.

CAPITOLO I. CHI sia, e di qual Famiglia, l’Autore di questo Viaggio: primarj motivi che lo indussero a viaggiare. Fa egli naufragio, e si salva a nuoto sulla spiaggia di Lilliput; vi è fatto prigioniero, e più a dentro nel Paese resta condotto.

Cap. II. L’Imperadore di Lilliput, scortato da molte persone riguardevoli, va a vedere l’Autore. Descrizione della Persona, e delle vestimenta dell’Imperadore. Alcuni Letterati del primo ordine sono incaricati d’instruire l’Autore del linguaggio del Paese. Ei si fa amare per la sua affabilità. Formasi l’Inventario di quanto si rinviene nelle tasche di lui, e se gli tolgono le pistole, e la spada.

Cap. III. Strana maniera dell’Autore per tener ricreata Sua Maeftà Imperiale, e la Nobiltà tutta dell’uno, e dell’altro sesso della Corte di Lilliput, Altri divertimenti di questa Corte. Sotto certe condizioni è l’Autore rimesso in libertà.

Cap. IV. Descrizione della Città Capitale di Lilliput, nomata Mildendo, e del Palagio dell’Imperadore. Conversazione dell’Autore con uno de’primi Segretarj degli affari dell’Imperio. Offresi l’Autore di servir al Monarca contro agl’inimici di Lui.

Cap. V. Con uno stratagemma inudito l’Autore previene una incursione, Titolo d’onore che viengli conferito. L’Imperadore de Blefuscu spedisce Ambasciadori per chieder la pace. Appicciasi il fuoco all’Apartamento dell’Imperadrice; ma col soccorso dell’Autore resta estinto.

Cap. VI. Scienze, Leggi, e Costumanze degli Abitanti di Lilliput. Maniera di allevare i loro Figliuoli. In qual modo vivesse in quel Paese l’Autore. Giustificazione d’una delle principali Dame della Corte. 

Cap. VII. L’Autore, essendo informato che i suoi nemici intentavano d’accusarlo d’Alto-Tradimento, rifugge a Blefuscu. Maniera ond’egli vi è ricevuto.

Cap. VIII. Per una singolar buona sorte, presentasi all’Autore il modo di lasciare Blefuscu; e dopo di aver superare alcune difficoltà, sano e salvo alla sua Patria ei ritorna.

DEL VIAGGIO DI BROBDINGNAG.

Cap. I. DEscrizione d’una suriosa tempesta. E’inviato a terra lo Schifo per provvedersi d’acqua: vi s’imbarca l’Autore per iscoprir il Paese, Egli è lasciato sulla spiaggia; vien preso da uno degli Abitanti, ed è condotto in Casa d’un Fattor di Campagna. Modo ond’egli vi fu ricevuto. Descrizione degli Abitanti.

Cap. II. Descrizione della figliuola del Fattor di Campagna. L’Autore è condotto a una vicina Città , e di poi alla Capitale. Particolarità di questo Viaggio.

Cap. III. L’Autore è condotto alla Corte. La Regina il compra dal Fattor di Campagna, e il regala al Re. Ei disputa co’Professori di Sua Maeftà; e alloggiato in Corte, ed è assai ben veduto dalla Regina. Difende l’onore della sua Patria, e con un Nano della Regina contrasta.

Cap. IV. Descrizione del Paese. Progetto per la correzione delle Carte Geografiche. Cosa fosse il Palagio del Re, e la Capitale. Maniera con cui l’Autore viaggiava. Descrizione d’uno de’principali Templi di Lorbrulgrud.

Cap. V. Differenti Avventure ch’ebbe l’Autore. Sentenza d’un criminoso eseguita. L’Autore dà saggio della propia abilità nell’Arte Nautica.

Cap. VI. L’Autore, con ogni sorta di mezzi procura di guadagnarsi la benevolenza del Re, e della Regina. Dà saggio della propia abilità nella Musica. Informasi il Re dello stato dell’Europa, e l’Autore soddisfa ampiamente alla curiosità di lui. Riflessioni del Re sopra quanto gli ha narrato l’Autore.

Cap. VII. Amor dell’Autore per la sua Patria. Ei fa al Re un’assai vantaggiosa obblazione, la quale tuttavia è rigettata. Ingnoranza del Re in fatto di Politica. Angusti limiti onde ristringosi le Scienze di quel Paese. Leggi, e Militari affari di quel Regno. Quali turbolenze l’agitarono.

Cap. VIII. Il Re e la Regina fanno un giro verso le Frontiere, e l’Autore ha l’onore d’accompagnargli. In qual modo ei ritirossi da quel Regno. Ritorna in Inghilterra.

DEL VIAGGIO DI LAPUTA BALNIB. ec.

Cap. I. IMprende l’Autore un terzo Viaggio; vien preso da Corsali. Ribalderia d’un Fiamingo L’Autore approda ad un’Isola, ed è ricevuto nella Città di Laputa.

Cap. II. Descrizione de’Lapuziani. Quali scienze presso loro sieno più in voga. Compendiata idea del Re, e della sua Corte. Maniera con cui evvi ricevuto l’Autore. Timori ed inquietudini a quali quegli Abitanti sono suggetti. Descrizione delle Donne.

Cap. III. Fenomeno spiegato col soccorso della Filosofia, e dell’Astronomia Moderna. Abilità de’Lapuziani nell’ultima di queste due Scienze. Metodo del Re per reprimere le sedizioni.

Cap. IV. L’Autore parte da Laputa, è condotto a Balnibarbi, e arriva alla Capitale. Descrizione di questa Città, e del suo Distretto. Ospitalità con cui egli è ricevuto da un Gran Signore. Sua conversazione con esse lui.

Cap. V. L’Autore ha la permissione di vedere la Grande Accademia di Lagado. Ampia descrizione di quest’Accademia. Arti nelle quali vi c’impiegano i Professori.

Cap. VI. Continuazione del medesimo Argomento. Propone l’Autore alcuni nuovi Ritrovamenti, che con grandi applausi sono ricevuti.

Cap. VII. L’Autore lascia Lagado, e arriva a Maldonada. Non essendovi pronto alla vela verun Vascello, fa un giro a Glubbdubdribb. Accoglimento che gli fa il Governatore.

Cap. VIII. Curioso specificato racconto sopra la Città di Glubbdubdribb. Alcune correzioni dell’Antica e della Moderna Storia.

Cap. IX. Ritorna l’Autore a Maldonada, e fa vela pel Regno di Luggnagg. Vi è posto prigione, ed è poscia spedito alla Corte. Maniera con cui egli vi è ricevuto. Clemenza estrema del Re verso i suoi Sudditi.

Cap. X. Elogio de’Luggnaggiani. Particolar descrizione degli Strulbdruggs, con molte conversazioni fra l’Autore ed alcune persone del primo carattere, su questo Suggetto.

Cap. XI. L’Autore lascia Luggnagg, e va al Giapone: donde sopra un Vascello Ollandese si restituisce ad Amsterdam, e d’Amsterdam in Inghilterra.

DEL VIAGGIO AL PAESE DEGLI HOUYHNHNMS.

Cap. I. IN qualità di Capitano d’un Vascello imprendesi dall’Autore un Viaggio. La sua Ciurma cospira contra di lui; per qualche spazio di tempo il tiene sequestrato uella di lui Camera, e il mette a terra in un Paese incognito. Ei s’interna nel Paese medesimo. Descrizione d’un strano animale nominato Yahoo. Due Houyhnhnms sono riscontrati dall’Autore.

Cap. II. Un Houyhnhnms guida l’Autore alla sua Casa. Descrizione di questa Casa. Maniera con cui vi è ricevuto l’Autore. Nutritura degli Houyhnhnms. E’Ll’Autore proveduto d’alimenti dopa d’aver temuto di mancarne. Suo modo di nutricarsi in quel Paese.

Cap. III. Applicasi l’Autore ad apprendere la favella del Paese, e il suo Padrone, l’Houyhnhnms, gliene dà delle lezioni. Descrizione di questa favella. Molti Houyhnhnms di qualità vanno a visitare l’Autore. Fa egli al suo Padrone un compendiato racconto del suo Viaggio.

Cap. IV. Intelligenza degli Houyhnhnms in proposito del vero e del falso. Discorso dell’Autore disapprovato dal suo Padrone. Introducesi l’Autore in un racconto più specificato di se medesimo, e degli avvenimenti del suo Viaggio.

Cap. V. Per ubbidire agli ordini del suo Padrone,lo informa l’Autore dello Stato dell’Inghilterra, ed altresì de’motivi della Guerra fra alcuni Potentati dell’Europa, e ad inspirargli qualche idea della Natura del Governo Inglese incomincia.

Cap. VI. Continuazione del discorso dell’Autore, sopra la stato del suo Paese, sì ben governato da una Regina, che vi si può far di meno d’un Primo Ministro. Ritratto d’un tal Ministro.

Cap. VII. Amor dell’Autore per la sua Patria. Riflessioni del Padrone di lui sopra il Governo dell’Inghilterra, tale che avealo descritto l’Autore; con alcune comparazioni e con alcuni paralelli sopra il medesimo Argomento. Osservazioni dell’Houyhnhnm sopra la Natura umana.

Cap. VIlI. Particolarità concernenti gli Yahoos. Eccellenti qualità degli Houyhnhnms. Qual sia la loro educazione, e in quali esercizj nella lor giovinezza s’impiegino. Loro Assemblèa generale.

Cap. IX. Gran dibattimento nell’Assemblea generale degli Houyhnhnms, e in qual modo terminò. Scienze che anno corso fra loro. Loro Edifizj, Maniera con la quale essi seppelliscono i loro Morti. Imperfezione del loro Linguaggio.

Cap. X. Qual beata vita menasse l’Autore fra gli Houyhnhnms. Progressi ch’egli fa nella Virtù conversando con esso loro. L’Autore è avvertito dal suo Padrone di dover abbandonar il Paese. Egli sviene per lo dolore, e dopo di aver ricuperati i suoi sensi, promette d’ubbidire. Riesce gli di costruire una barchetta, e all’avventura in mare ei si mette.

Cap. XI. Quali pericoli asciugò l’Autore.Approda alla Nuova Ollanda, sperando di fissarvi il suo soggiorno. E’ferito con un colpo di freccia da un Naturale del Paese, ed è trasportato sopra un Vascello di Portogallo. Gli usa gran cortesie il Capitano, e arriva in Inghilterra l’Autore .

Cap. XII. Veracità dell’Autore. Disegno ch’ei si è proposto in pubblicar quest’Opera. Ei censura que’Viaggiatori che non anno un inviolabile rispetto per la verità. Confuta l’Autore l’accusa che forse potrebbesi addossargli di aver avuto qualche sinistro oggetto nello scrivere. Risposta a un’obbiezione. Metodo di piantar Colonie. Elogio del suo Paese, Ei pruova che l’Inghilterra possiede giusti titoli sopra que’Paesi ond’egli ne ha fatta la descrizione. Difficoltà che si opporrebbe all’impadronirsene. L’Autore si licenzia da chi legge; dichiara in qual modo ei pretende di passare i rimanenti suoi giorni; dà un buon consìglio, e finisce.

Noi Refformatori dello Studio di Padoa.

COncedemo Licenza à Zuanne Tavernìn Stam pator di Venezia di poter ristampare il Libro intitolato Viaggi del Capitanio Lemuel Gulliver in diversi paesi lontani. Traduzione del Francese in Italiano già stampato in Venezia: osservando gl’ordini soliti in materia di Stampe, e presentando le Copie alle Pubbliche Librarie di Venezia, e di Padoa.

Dat. li 2. Agosto 1748.

Gio, Emo Proc. Rif.

Barbon Morosini Cav, Proc. Rif.

Registrato in Libro a Carte 30. al Num. 239.

Mihiel Angelo Marino Seg.

Licenziato dal Mag. Eccell. contro la Bestemia

Gio; Gadaldin Seg.

VIAGGIO

DI

LILLIPUT.

PARTE PRIMA.

CAPITOLO I.

Chi sia, e di qual Famiglia, l’Autore di questo Viaggio: primarj motivi che lo indussero a viaggiare. Fa egli naufragio, e si salva a nuoto sulla spiaggia di Lilliput: vi è fatto prigioniero, e più a dentro nel Paese resta condotto.

POchi erano i beni di fortuna di mio Padre, situati nella Contea di Nottingham: ma in ricompensa egli era ricco di cinque figliuoli, onde io sono il Terzogenito. In età di quattordici anni inviommi al Colleggio di Cambridge, ove per lo spazio d’anni dodici m’applicai con serietà agli studj: ma perchè i paterni sussidj, per supplire a’dispendj del mio mantenimento, (che, per dir vero, troppo lunge non istendevansi,) un po troppo erano mediocri, allogato fui in allievo del Signor Jacopo Bates, uno de’migliori Chirurghi di Londra, presso cui quattr’anni me ne rimasi. Di tempo in tempo riceveva io da mio Padre qualche danajo, che restava da me impiegato nel farmi rendere instruito di quella parte delle Matematiche che ha rapporto colla Navigazione, e la cui conoscenza è necessaria agl’intenzionati di viaggiare; divisamento, onde l’esecuzione, in qualche modo, a me destinata mi sembrava.

In lasciando il Padrone, fui di ritorno alla Casa di mio Padre; il quale con l’ajuto di Giovanni mio Zio, e di diversi altri parenti, providemi di quaranta lire Sterline, con promissione di annualmente somministrarmene trenta, per mantenermi a Leide; ove per due anni, e lette mesi, mi appigliai allo studio della Medicina; essendo ne’Viaggj di lunga tratta utilissima questa Scienza.

Poco dopo il mio ritorno di Leide, il mio buon Padrone Signor Bates raccomandommi in Chirurgo della Nave nomata la Rondine, e governata da Abramo Panell suo Capitano. Due Viaggi pe Levante, e per altre parti effettuai con essolui nel termine di due anni e mezzo; e dopo ciò, determinai di stabilirmi a Londrai. Approvò il Signor Bates il mio disegno, e diverse pratiche mi piocurò. Presi un meschino allegio; e saltatomi in capo di ammogliarmi, sposai la figliuola d’un buon Borghese, che quattrocento lire Sterline mi portò in dote. Ma la morte del mio Padrone accaduta due anni dopo, o circa; e la scarsezza degli Amici miei, furono la cagione che ben presto io non avessi ad operare gran cose. D’altra parte, non volea la mia coscienza che io imitassi certuni de’miei Confratelli, i quali trattano in un modo i loro pazienti, che poco temer non deggiono di restarsene inoffiziosi. Consultati, per tanto, la moglie, ed alcuni amici, risolvetti di darmi di nuovo al Mare. Successivamente fui Chirurgo di due Vascelli; e pel corso d’anni sei, compiei diversi Viaggi all’Indie Orientali, e dell’Occidente, che qualche cosa mi profittarono. Le mie ore di ricreazione erano impiegate nella lettura degli antichi, e moderni migliori Autori, standone io sempre ben provveduto; e quando io poneva piede a terra, m’applicava ad istudiare il genio, e la maniera de’Popoli, co’quali io conversava, ed altresì ad apprendere i lor linguaggj, il che sempre mi fu agevolissimo, essendo assistito da una memoria felice.

Poco ben riuscitomi l’ultimo Viaggio, m’infastidj del Mare, e formai il disegno di restarmene colla Moglie, e co’miei figliuoli. Cambiai per due volte d’abitazione, lusingandomi di cambiar fortuna, ma era sempre a un di presso la stessa cosa, e vale a dire, nulla. Dopo tre anni d’inutili tentativi, aderj ad un offerta assai vantaggiosa fattami dal Capitano Guglielmo Prichard, comandante un Vascello nomato la Gazella, e che disegnava di mettersi alla vela pe’Mari d’Ostro. A’quattro di Maggio 1699. levammo l’ancora da Bristol, e da principio fu prosperissimo il nostro cammino. 

Con qualche ragione io penso non essere necessario di stancare il Leggitore con la recitazione delle Avventure che in que’Mari ci accadettero: basterà l’avvertirlo, che scorrendo alla volta dell’Indie Orientali, fummo assaliti da una violenta tempesta, che al Ponente Maestro del Paese di Diemen ci sospinse. Osservatasi la meridionale latitudine, ci trovammo a trenta gradi, e due minuti. Gli eccessivi patimenti, e la pessima nodritura ci avean fatti perdere dodici Marinaj; e in assai cattivo stato trovavansi i rimanenti.

Nel giorno quinto di Novembre, tempo, in cui la State in que’Paesi comincia, annebbiatasi straordinariamente l’aria, scoprirono i Marinaj una Roccia in distanza dal Vascello di circa la metà d’una gomena; ma era sì furioso il vento, che la Nave gettatavi a traverso, poco dopo restovvi infranta. Cinque uomini ed io, procurammo di salvarci nello Schifo, e di staccarci dalla Rupe, e dal Vascello. A forza di remi ottennemmo l’intento; e, se non m’inganno, ci allontanammo per nove miglia: ma allora sì che a mal partito ci ritrovammo; nercè che intieramente fummo abbandonati dalle nostre forze, di già estenuate dall’operar nella Nave. Lasciammo dunque alla discrezion de flutti il nostro schifo, che mezz’ora dopo restò ingojato. Emmi ignoto il destino de’cinque miei, compagni, e degli altri che io lasciati avea sul Bastimento; ma è probabilissimo che sieno periti tutti. Quanto a me; sospinto dal vento, e dalla marea, nuotai alla ventura; e più d’una volta, comechè inutilmente, procurai di sentir fondo: alla fine, per rara felicissima sorte, sul punto che io stava di già mancando, ne sentj; e quasi nel tempo stesso la burrasca si mitigò. Pria di guadagnare la terra asciuta, faticai per quasi un miglio; essendo poco men impercettibile il pendio di quel lido; e non fu che alle ore otto della sera che vi pervenni. Camminai presso poco un mezzo miglio senza scuoprire nè Case, nè Abitatori: gli estremi sofferti stenti, il caldo che regnava; oltraccio, una mezza boccia d’acquavite che io aveva tracannata innanzi di lasciar il Vascello, m’oppressero di sonno. Era morbida l’erba; mi vi corcai, e dormj più di nove ore così profondo, che nol feci mai per tutta la mia vita; poichè sullo spuntar dell’alba solamente mi risvegliai. Volli levarmi; ma mi riuscì impossibile, per aver da due lati le mie braccia, e le mie gambe strettamente attaccate al terreno: e gli stessi miei capelli, ch’erano lungi, e folti, talmente annessi vi si rinvennero, che alzar il capo non potei; e pure avrei sommamente desiderato di farlo, giacchè cominciava ad incomodarvi il calore del Sole. Sentiva io qualche confuso strepito d’intorno a me; ma null’altro che il Cielo scorgere io poteva, a cagion dell’attitudine nella quale me ne stava. Poco tempo dopo, qualche cosa sentj che muovevasi sopra la mia manca gamba, e che piano piano avanzandosi sopra il mio petto, arrivò sino al mento. Procurando, per quanto potea permettermi la situazione onde mi trovava, di saper ciò che fosse, ravvisai una creatura umana, di altezza non più che di sei grosse dita, con in mano un arco, e una freccia, e in sulle spalle un carcasso, di saette ripieno. M’accorsi nell’instante stesso, per via di conghietture, d’una quarantina di piccoli’uomini del medesimo taglio, che seguivano il primo. Nell’enorme stordimento in cui men giaceva, gettai un sì forte grido, che tutti spaventati si diedero alla fuga; e per quanto seppi da poi, alcuni d’essi saltando dalle mie coste a terra, non si fecero poco male. Con tutto questo, poco tardarono a ritornarsene; ed uno di loro che tanto si avanzò per potere guatarmi in faccia, levando tutto maraviglia le mani, e gli occhj al Cielo, esclamò con piccola, ma distinta voce: Hekinach Degul: per più volte ripeterono gli altri le parole medesime, ma per allora ciò che spiegassero io non sapeva. Malagevolmente non concepisce il Leggitore, che in tutto quel frattempo me la dovessi passar poco bene. Finalmente, tentati tutti i possibili sforzi per istaccarmi dal terreno, ebbi la buona sorte di spezzare i legaccioli del sinistro braccio, e in levandolo, mi avvidi della maniera da coloro tenuta per imprigionarmi, che fu con piccole caviglie confitte in terra, a cui i legacioli stessi stavano raccomandati. Tanto nel tempo medesimo mi dimenai; benchè non senza un tal qual dolore, che i legami, che a sinistra attaccavano i miei capelli, avendo ceduto di due dita, mi permisero di girare, ma molto poco, la testa fuggirono allora per una seconda volta quelle piccole creature, senza che io potessi afferarne veruna, e saltando a terra, gettarono un orribile grido, (già intendesi a proporzione del loro taglio) che fu seguito da queste due parole Tolgo phonac, che uno d’essi con alto suono pronunziò. Già detto appena; sentj cento, e più frecce scoccate contrala mia sinistra mano, che mi ferirono dal pià a meno come tante aguglie; e oltracciò, lanciarono nell’aria un’altra sorta di saette a somiglianza delle nostre bombe; molte di cui (comecchè sentite io non l’abbia) certamente sul corpo mi son cadute, ed alcune altre sulla faccia, che io stava con la mano mia mancina cuoprendo. Cessato che fu cotale tempestoso saettame, con gran crepacuore mi misi a gemere; e tentando di bel nuovo di disbrigarmi, asciugar dovetti un’altra scarica, maggiore della prima. Alcuni di loro, tutto fecero per traforarmi colle loro picche; ma per buona mia ventura non vi riuscirono, stando io guarnito d’una camiciuola di bufalo. Credetti miglior partito il restarmene cheto cheto per fin alla notte nella positura medesima; assicurato, che potendo prevalermi della mano manca interamente allora mi sarei sciolto: essendo che io pensava con molta ragione, che a riguardo di quegli Abitanti, anche che un compiuto esercito se ne assembiasse contra di me, potessi tenere lor fronte, quando tutti della statura di que’che io vedeva esser dovessero. Ma svanirono tutti i miei progetti. Scortasi da’Paesani la mia tranquilità, cessaron eglino dal tirare, ma dallo strepito che io sentiva, conobbi che aumentava il lor numero; e in distanza di circa quattro verghe (misura del braccio d’Inghilterra,) rimpetto alla mia destra orecchia, intesi, per più d’un’ora, una sorta di sussurro, somigliante a quello che si fa quando si fabbrica. Al meglio che potei, girai la testa a quella parte, e vidi una spezie di Teatro, elevato da terra d’un piede e mezzo; e due, o tre scale per salirvi. Potea il Teatro esser capevole di quattro Abitatori. Un di coloro che vi erano, e che mi sembrava un uomo di distinzione, m’indirizzo un lungo discorso, onde una sola parola neppur capj. Non mi sovveniva di dire, che prima di dar principio alla sua aringa, gridato egli avea per tre volte Langro Dehulsan: (cotali termini e gli altri di cui parlai, mi furono poscia spiegati:) e appena pronunziati gli ebbe, che cinquanta Paesani, e più, si accostarono, e recisero i legaccioli, a’quali stava attaccata la sinistra parte della mia testa; cosicchè rivolgerla potei alla destra, e considerare attentamente colui che mi perorava. Ei mi pareva di mezza na eta, e di maggiore statura che veruno degli altri tre che tenevanlo accompagnato; uno de’quali era un Paggio che gli sosteneva la coda, e che a’miei occhj non più grande comparve del mio dito medio; e gli altri due stavano a’suoi lati per fiancheggiarlo.

Bastevolmente son persuaso ch’egli fosse molto eloquente; mercè che, non ostante il non intendersi da me la sua favella, m’accorsi della somma di lui pratica ne’patetici muovimenti, e che a vicenda metteva egli in uso le promesse, e le minacce, per persuadermi. Risposigli con la più sommessa rassegnazione, alzando la mano manca, e gli occhj verso del Sole, come chiamandolo in testimonio. Mi suggerì la fame una parte della mia risposta, non avendo mangiata la menoma cosa da venti quattr’ore addietro, cosicchè non potei di meno di far conoscere che io avea bisogno di nodrimento, sovente mettendo un dito nella ma bocca: cosa che, per dir vero, non suonava di buona creanza. Mi comprese molto bene l’Hurgo; (questi si è il nome con cui essi onorano un gran Signore, come susseguentemente ne fui informato,) calò dal suo Teatro, e comandò che a’miei fianchi si applicassero molte scale furono montate da più di cento Abitatori, recando perfino al margine della mia bocca de’cofanetti ripieni d’alimenti, che il Re, immediate che intese il mio arrivo nel suo Paese, diede ordine mi si spedissero. Osservai fra le altre cose che mi si offerivano, la carne di animali diversi, ma mi riusciva impossibile di distinguere le parti col solo tatto. Aveavi spalletti, lacchette, ed altre membra, formate come quelle d’un Castrato, e a perfezione imbandite, ma più picciole che l’ale d’un’Allodola. Due o tre d’esse non mi valevano che una boccata; giuntandovi altrettanti pani grossi, ciascuno, come una palla da moschetto.

Non può esprimersi lo stordimento che la mia voracità in coloro produsse. Satollo che quasi fui, feci un altro segno per dimandar a bere, e sembrò loro che se la sete fosse proporzionata al mio appetito, poca bevanda non mi basterebbe; e perciò quegl’ingegnognissimi Popoli rotolarono sopra la mia mano un de’loro più gran barili, che sfondarono un momento dopo, e che in un sol tratto io rendei voto, cosa che non fummi disagevole, non contenendo neppure una mezza boccia, ed avendo il sapore del vinetto di Borgogna, ma delizioso assai più. Mi recarono un secondo barile, che votai nella guisa stessa, facendo segni che di più ne desiderava; ma in tal genere mancò loro la provvisione. Compiute ch’ebbi tali maraviglie, lanciaron eglino mille giocondi gridi, e danzarono sopra il mio stomaco, ripetendo, come prima, frequentemente questi termini: HtKinach Degul. Mi accennarono di gettar a terra i due barili, con l’antivedimento tuttavia di rendere avvertiti que’che stavan di sotto, di levarsi dal mezzo, cautela ch’essi espressero con queste due parole: Borach Mivola. L’eseguj; e scortisi da loro capienti sì prodigiosi nell’aria, rinnovarono gli schiamazzi di allegrezza, e di stupore. Confessar deggio, che più d’una volta patj la tentazione, in tempo che stavano passeggiando d’ogni parte sul mio corpo, di prenderne una quarantina oppur cinquanta de’più portati alla mia mano, e di schiacciarli a terra: ma non dimentico di quanto intesi a dire, che secondo tutte le apparenze non era il peggio che far potessero; e d’altra parte, la parola d’onore che io impegnata loro avea di non far loro male di sorta, (che in questo senso intesi di prendere l’aria di sommessione allor quando addrizzai loro la mia aringa,) tolsemi ben presto qualunque vaghezza di simil fatta. Aggiugnete, se vi piace, che sarebbe ciò stato un violare le Leggi sacre dell’ospitalità, verso un Popolo che testè sì prodigamente, e con tanta magnificenza regalato mi avea.

Con tutto questo, io non poteva a sufficienza ammirare l’intrepidezza di cotali diminutivi d’uomini; che in tempo che se ne stava libera una delle mie mani, ardissero di rampicarsi, e di trastullarsi, senza timore, sul ventre d’una creatura sì portentosa, che io doveva loro parere. Qualche tempo dopo, quando videro che io a mangiare più non chiedeva, un Inviato di sua Imperial Maestà, montato al fondo della diritta mia gamba, avanzossi con una dozzina di persone di suo seguito perfino sulla mia faccia. Mostrommi le sue credenziali improntate coll’Imperiale suggello, le accostò ben vicino a’miei occhj, e tenne un discorso di circa dieci minuti senza colleroso verun contrassegno; bensì con un tuono di risoluzione, ed intrepido, rivolgendo ben sovente i suoi atteggiamenti verso un certo luogo, che di poi compresi essere la Capitale, lontana un mezzo miglio; ove l’Imperadore, dopo di aver esatti i pareri del suo Consiglio, comandato aveva il mio trasporto. Fu brieve, ma inutile, la mia risposta. Feci cenno con la mano mia libera, che io desiderava sciormi da’legami, procurando di ciò esprimere col riporla sull’altra mano, sopra il mio capo, e sopra il mio corpo. Parve per altro ch’egli mi capisse; perchè crollò in un certo modo la sua testa, che bastevolmente diede a conoscere la disapprovazione della mia supplica; e con certe gesta saper mi fece, che io doveva essere condotto come prigione: aggiugnendo, non ostante, non sò quali altri contrassegni, per rendermi accertato che non sarebbe per mancarmi un alimento sufficiente, e che non mi verrebbe praticato il menomo maltrattamento. L’idea d’essere trasportato alla Dominante in figura di schiavo, m’instigò a tentare nuovi sforzi per ispezzare le mie legature; ma per disgrazia non valsero tali sforzi che per tirarmi addosso una nuova grandine di saette, che alle mani, e a la faccia, un sensibile dolore mi cagionarono. Vedendo per tanto impossibile l’eseguimento del mio disegno, e che altronde ad ogni instante aumentava il numero de’miei nemici, diedi segno ch’essi potean trattarmi a loro voglia. L’Hurgo allora, ed il suo seguito, licenziaronsi da me in un modo il più civile del mondo. Pochi momenti dopo intesi gridar più fiate. Peplom Selam, e senti un gran numero d’Abitatori, che talmente allentarono le funi che mi tenevano attaccato a sinistra, che mi era agevole il rivolgermi a dritta, e nel tempo stesso l’ajutarmi a far una pisciata da per me solo, il che in gran copia effettuai, ma con orrido stupore del Popolo; il quale conghietturando da’miei movimenti ciò che far io voleva, si allargò al più presto dal torrente che il minacciava. Prima però di questo, mi avevan eglino strofinato il volto e le mani con una sorta d’unguento, la cui fragranza era gratissima, e che in pochi minuti mi tolse il sentimento di dolore, che le frecce loro mi avean prodotto. Un tal rimedio, e la lautezza del banchetto, mi conciliarono il sonno, che, come seppi nel progresso, ott’ore in circa durò; cosa, che recar non dee stupore veruno, se riflettasi, che per ordine dell’Imperadore, i Medici riposte aveano nel barile di vino alcuno droghe sonnifere.

E’probabile, che immediate che fui scoperto dormiente sull’erba, ne fosse stato informato l’Imperadore; il quale, avutone il raguaglio, dopo di aver presi i pareri del suo Consiglio, ordinato avesse che io fossi legato nel modo che ho sopra espresso; (il che praticossi in tempo del mio dormire,) che mi fosse somministrato il mangiare, ed il bere; e che una macchina per trasferirmi alla sua Capitale, si construisse.

Parerà forse ardita, ed arrischiata, una somigliante risoluzione; e ben persuadomi che in tal congiuntura verun Principe dell’Europa non prenderebbe ad imitarla; comechè, secondo il mio credere, non siavi cosa nè più prudente, nè più generosa. Mercechè, supposto che in tempo del mio sonno, procurato avessero i Paesani d’uccidermi colle loro picche, e colle loro frecce; certamente immediate mi sarei svegliato, e forse il dolore che risentito avessi, mi avrebbe impartita la forza di rompere i miei legami; dopo di che, incapaci eglino di risistermi, non avrebbono potuto sperare grazia veruna. Gli Abitanti di quel Paese sono valorosi Matematici, e soprattutto eccellentissimi nelle Meccaniche, incoraggiti a cotali studj dal loro Imperadore, il qual è un gran Patrocinante delle Scienze. Possiede questo Principe diverse macchine movibili sopra ruote, e che vagliono al trasporto degli Alberi, e d’altre some. Presiede egli medesimo alla struttura de’maggiori suoi Vascelli di guerra; alcuni de’quali, nove piedi son lunghi, e dall’Arsenale per fino al mare, che tal volta n’è discosto tre, o quattrocento verghe, trasportar gli fa sopra queste macchine. Cinquecento Falegnami, ed altri Operaj ricevettero l’ordine d’allestire sul punto stesso la massima delle loro vetture. Quest’era un ordigno di legno, sette piedi lungo, e largo quattro, che sopra venti e due ruote aveva il suo movimento. Al gettarsi l’occhio sopra una macchina così enorme, scoppiarono que’gridi che io aveva intesi. Fu ella adattata in linea paralella col mio corpo: ma la maggiore difficoltà cadeva sul modo di ripormivi. Ottanta pertiche, cadauna d’un piede d’altezza, furono inalberate a quest’effetto; e fortissime funi, della grossezza d’uno spaghetto, attaccate furono a delle legature, onde il mio collo, le mie braccia, e tutte le restanti mie membra stavano inviluppate. Novecento de’più vigorosi di loro furono impiegati a levarmi di terra; e in minore spazio di tre ore, coll’ajuto di molte girelle, riuscì loro il caricarmi sulla vettura, ed ebbero l’attenzione di ben legarmivi. Tutto ciò mi venne riferitto dopo il fatto; conciossiacosachè io nulla vidi, nè sentj, standomi profondamente assonnato pel soporifero che io traccannato avea. Mille e cinquecento de’più forzuti Imperiali cavalli, alto ognuno a un di presso di quattro grosse dita e mezzo, servirono per istrascinarmi alla Dominante, che, come penso di averlo detto, era discosta d’un mezzo miglio. Avevamo già camminato per tre, o quattr’ore; allor quando per un assai ridicolo avvenimento mi risvegliai. Arrestatasi la carriuola pel bisogno ch’essa aveva di qualche cosa, due o tre giovinastri degli Abitanti, ebbero la curiosità di vedere con qual aria me ne stessi dormendo; e perciò salirono sulla macchina, avanzandosi cheto cheto perfino alla mia faccia. Uno d’essi, ch’era Uffiziale di Guardie, cacciommi nella sinistra delle nari una gran parte della sua mezza-picca, la quale dileticò il mio naso, presso poco come avrebbe potuto farlo una pagliuzza; cosicchè mi promosse un violentissimo starnuto. Senza avvedermene batterono que’Signori la ritirata; e solamente tre settimane dopo restai instruito della cagione d’un sì improvviso risvegliamento. Praticammo una lunga marcia nel rimanente del giorno, e passai la notte fra cinquecento guardie; la cui metà teneva alla mano accese torcie; e l’altra, degli archi, e delle saette per iscoccarle contra di me, per poco che io dessi indizj di voler distaccarmi. Il giorno dietro, al levar del Sole, continuammo il nostro cammino; e sul mezzo dì arrivammo a un certo luogo, lontano dalla Città dugento verghe, o circa. Scortato da tutta la sua Corte venne a rincontrarci l’Imperadore: ma i primarj Ufficiali di lui, non vollero mai permettere che egli, montando sul mio corpo, la sagrata sua persona mettesse a risico.

Nel sito, ove la macchina si arrestò, aveavi un antico Tempio, riputato pel maggiore del Regno; che essendo stato da alcuni anni addietro profanato da un omicidio che fa orrore alla Natura, se gli erano tolti tutti i suoi ornamenti, e più non serviva ad usi sacri. Si trattò che quegli fosse l’alloggio mio. La porta maggiore che riguardava a Tramontana, era alta da quattro piedi, e al più de’più, due ne aveva di larghezza; di modo che agiatamente io poteva introdurmivi. Da cadaun lato della porta era costrutta una piccola finestra alta da terra sei grosse dita; e a quella del lato sinistro vi erano novanta ed una catena, somiglianti a quelle che pendono dagli oriuoli delle Dame in Europa, e quasi così larghe, che furono attaccate alla sinistra mia gamba con trenta e sei catenacci. Rimpetto di questo Tempio, e in distanza di venti piedi, aveavi una Torre, alta di cinque piedi per lo meno; ove l’Imperadore erasi trasferito con un gran numero de’principali Signori di sua Corte, per contemplarmi a suo bell’agio. Secondo il calcolo che ne fu fatto, più di cento mila abitatori, pel suggetto medesimo uscirono della Capitale; ed io scommetterei, che al dispetto de’miei custodi, col benefizio di molte scale, più di dieci mila successivamente me ne son montati sul corpo. Ma una tale sfrontatezza ben presto restò repressa da un Editto, che sotto pena di morte la proibiva. Vistasi dagli Operaj l’impossibilità del mio scampo, recisero essi tutti i leggacciuoli che servivano ad attaccarmi. Mi levai con un’aria la più svogliata, e la più malinconica, che in mia vita non ebbi mai. Non può esaggerarsi abbastanza lo stordimento del Popolo nel vedermi in piedi, e che un momento dopo me ne stessi spasseggiando. Le catene onde era la mia gamba avvinta, aveano due verghe, o circa di lunghezza, e mi lasciavano, non solo la libertà di muovermi avanti, e indietro in semicircolo, ma raccomandate in distanza di quattro grosse dita dalla porta, permettevano eziandio che tutto disteso nel Tempio mi coricassi.

CAPITOLO II.

L’Imperadore di Lilliput, scortato da molte persone ragguardevoli, va a vedere l’Autore. Descrizione della persona, e delle vestimenta dell’Imperadore. Alcuni Letterati del primo ordine sono incaricati d’instruire l’Autore dei linguaggio del Paese. Ei si fa amare per la sua affabilita. Formasi l’inventario di quanto si rinviene nelle tasche di lui, e se gli tolgono le pistole, e la spada.

RIto in piedi che fui, risguardai d’intorno a me, e negar non posso che in verun tempo non mi si affacciò prospettiva più vaga. Mi sembrava tutto il Distretto un sol giardino; ed ogni campo, d’un fiorito letto portava l’aria. Eran que’campi, il cui maggior numero stendevasi a quaranta piedi in quadrato, framescolati di boschi; e gli alberi più minuti, per quanto io poteva giudicarne, erano dell’altezza di sette piedi. Vidi alla mia sinistra la Città Capitale, la quale, da quel lato ond’io la ravvisava, non malamente appariva che una di quelle Città, che si ambiranno delle Teatrali rappresentazioni. Erano già molte ore che estremamente mi trovava incomodato da non so quali necessità; il che poi non è gran maraviglia; essendo che per quasi due interi giorni non vi aveva io soddisfatto. Fieramente dunque contrastavano insieme la necessità, ed il rossori. Miglior espediente non potei immaginarmi, quanto ritirarmi carpone nella mia Casuccia; e di fatto l’eseguj. Chiusi la porta dietro di me; e allontanandomi per quanto potea accordarmelo la mia catena, mi scaricai d’un peso molto importuno. Ma l’unica volta questa si è, che per tutta la mia vita rimprocciar mi deggio una somigliante impulitezza; di cui tuttavia ne spero il perdono da chiunque ragionevole Leggitore, che senza parzialità di sorta bilancerà le circostanze che mi strignevano. Da quel tempo in poi, immediate che mi era levato, fu mio costume di fare la cosa medesima a Cielo scoperto, il più lungi dal mio domicilio che m’era possibile; e ogni mattina, pria che sopravvenisse compagnia, due servidori, di cui una tal incombenza era peculiare, non mancavano mai di togliere tutto ciò che offendere poteva l’odorato di chi mi onorava delle sue visite. Si a lungo non averei insistito sopra un particolare, che forse a primo aspetto non sembrerà di molta conseguenza, se creduta non avessi cosa indispensabile di formar l’apologia della mia pulitezza, che alcuni de’miei invidiosi, cogliendo l’opportunità dell’accidente or or narrato, ebbero l’audacia di rivocare in dubbio.

Sbrigatomi da una tal avventura, uscj della mia casa per prender l’aria. Era già calata dalla torre Sua Imperial Maestà, e a Cavallo portavasi alla mia volta; cosa che stette per costarle caro; atteso che l’animale montato da lei, ancorchè, per altro, ben disciplinato, non avvezzo a vedere una creatura di mia fatta, che parer gli doveva un mobile monte, s’inalberò. Ma il Principe, perfettissimo Cavaliere, non perdè staffa, e vi si mantenne finchè il suo seguito mettesse mano sulla briglia della bestia, e ch’ei poscia ne discendesse. Posto piede a terra, mi contemplò da tutti i lati; sempre però fuori di mia portata. Comandò a’Cucinieri, e a’Bottiglieri, ivi già lesti, di recarmi a mangiare, e a bere; il che essi effettuarono, col ripporre l’imbandigione, ed i liquori, sopra una spezie di macchine a ruote, ch’eglino spignevano fin al segno che vi giugnessero le mie mani. Diedi l’assalto a queste macchine, e in un batter d’occhio le lasciai nette. Venti n’erano riempiute di vivande, e dieci di pozioni: cadauna delle prime mi valeva due o tre boccate; e riguardo alla bevanda, n’era molto ben osservata la proporzione. Sopra seggj d’appoggio, e in certa distanza, stavano assisi l’Imperadrice, i Principi, e le Principesse del sangue: ma veduto l’accidente che minacciò l’Imperadore a cagione del Cavallo di lui, levaronsi, e se gli accostarono. Ecco com’è fatto questo Monarca. Egli supera in Matura chiunque della sua Corte, una buona grossezza d’una delle mie unghie; il che solo, è sufficiente per inspirar rispetto in chi lo risguarda. Sono maschili i suoi delineamenti; le labbra grosse, ed olivastra la sua carnagione; si tiene molto diritto, ha le sue membra assai ben proporzionate, abbonda di graziosità, ed è maestisissimo in tutte le sue azioni. Lasciavasi egli allora addietro la primavera della sua età, avendo ventott’anni, e alcuni mesi, onde sette ne avea regnato compiutamente felice. Affin di ravvisarlo a mio piacere, mi corcai sull’uno de’miei fianchi, lungi da lui lo spazio di tre Verghe; attitudine tale, che precisamente costituì il mio capo, paralello a tutto il di lui corpo. Non può darsi, per altro, che non sia esatta la descrixion che quì faccio: giacchè da quel tempo avanti, più d’una fiata l’ebbi nelle mie mani. Èra positiva la sua vestitura; e per quanto può spettare alla moda, ei ritenea una spezie di mezzanità fra gli Asiatici, e gli Europei Abitatori; in sulla testa pero portava egli una celata d’oro leggerissimo, ornata di giojelli, e guarnita d’una piuma. Teneva in mano una sorta di spada nuda, che dovea servirgli di difesa in caso che da’legami mi fossi sciolto: ella era lunga tre pollici al più, e l’impugnatura, e la guaina n’erano d’oro, arricchito di diamanti. Era sottile, ma molto chiara la sua voce; cosicché distintamente poteva io intenderla tutto che me ne stessi in piedi. Con tanta magnificenza comparivano abbigliate le Dame, ed i Cortigiani, che il luogo da essi occupato avea la mina d’una sottana distesa a terra, e di diverse figure d’argento e di oro ricamata. Sua Maestà Imperiale non di rado m’impartì l’onore di parlar meco; e dal mio canto non si mancò di renderla appuntino soddisfatta con le risposte; ma ella nè pur parola potè capire di quanto io le diceva; come altresì, per parte mia, potestar posso, che del discorso di lei non ho compresa silliba. Stavan presenti (per quanto fummi lecito di conghietturare dalle vestimenta) alcuni Sacerdoti, ed uomini di Legge, cui fu ingiunto di attaccar meco conversazione. Parlai loro tutti i linguaggj che mi erano noti; ed eziandio quegli, ond’io ne aveva una tintura men che superficiale; voglio dire il Tedesco, il Fiamengo, il Latino, il Franzese, lo Spagnolo, e l’Italiano: Tutto vi rimescolai, perfino alla lingua Franca, ma senza riuscimento. Due ore dopo, la Corte si ritiro, e mi lasciò sotto una huona guardia, con l’oggetto di prevenire l’impertinenza, e verisimilmente la malizia della canaglia, che moriva di voglia d’avvicinarmisi; avendo alcuni, in tempo che me ne stava sedendo sull’uscio della mia casa, avuta l’insolenza di lanciarmi molte saette, una delle quali poco vi volle che non mi cavasse un occhio. Ma il Colonello comandò che si arrestassero sei de’principali complici dell’attentato, e che in pena del loro delitto fossero rimessi in mio potere; il che fu eseguito dalla milizia, che gl’incalzò colle sue picche, finchè fossero alla mia portata. Tutti gli presi colla destra mano; e cinque d’essi ne riposi nella tasca del mio giubbone, facendo sembiante per lo stesso, di volermelo assorbere vivo vivo. Il meschino misesi a gridare orribilmente; e del pari al Colonnello, da terribili dolori di ventre furono sopraffatti gli altri Ufficiali, spezialmente quando mi videro a dar di mano al mio temperino. Poco tuttavia tardai a togliere lor l’affanno, conciosiachè prendendo io un’aria di piacevolezza, e tagliando di là a un instante le funi che il teneva no legato, il rimisi pianamente a terra, ed egli in un subito si dileguò. Dopo di aver tratti ad uno ad uno dalla tasca gli altri miei prigionieri, mi contenni con esso loro nella guisa medesima: ed osservai che i Soldati, ed il popolo, furono incantati da un sì clemente procedimento, che in un modo, al segno maggiore vantaggioso per me, fu riferito alla Corte.

Sull’imbrunir del giorno m’introdussi, strisciando, nella mia abitazione, ed a terra mi vi corricai: altro letto non ebbi pel corso di quindici giorni; ma dopo questo tempo, uno ne ottenni per ordine dell’Imperadore. Secento materasse d’una misura comune, furono trasferite, ed adagiate nel mio Palazzo. La lunghezza, e la larghezza del mio letto eran composte di cinquanta de’loro ricuciti insieme, e l’altezza di quattro; e pure ciò non impediva che io male non me ne trovassi, perchè il pavimento era di pietra. Lo stesso calcolo si osservò riguardò alle lenzuola, e alle coperte. Per dir vero, non n’era io per niente pago; ma accostumato di lunga mano a’patimenti, dovetti mettermi in pace. Sparsa che fu pel Regno la nuova del mio arrivo; affin di vedermi, portossi alla Capitale un infinito numero di scimuniti; e sì prodigiosa funne la quantità, che i più de’villaggj rimasero senza campajuoli, non ostante il sommo pregiudizio de’domestici loro affari, e altresì dell’agricoltura. Ma diversi editti di Sua Imperial Maestà provvidero a un tal disordine; comandato avendo, che quei, che mi avessero di gia veduto, tornassero alle loro case, e non si accostassero per cinquanta verghe alla mia, senza una permissione della Corte: ristrignimento, che a Segretarj di Stato profittò riguardevoli somme.

Furono frequenti le Consulte tenutesi dall’Imperadore per deliberare della mia persona: e seppi da poi da uno de’migliori amici che io abbia avuto in quel paese, uomo di primaria qualità, e che senz’altro potea aver mano negli affari: seppi, dico, che la Corte stavasene enormemente imbarazzata a mio riguardo. Vi si temeva che mi riuscisse spezzare una volta le mie catene; o che la mia voracità cagionasse una orribile carestia. Tal fiata vi si risolveva di lasciarmi morire di fame; ed altre, di ferirmi le mani, e la faccia con frecce vennate; il che, ben presto, tratto mi avrebbe di briga. Nessuno pero di tali divisamenti fu postò in esecuzione: riflettutosi che il puzzo d’un cadavero sì smisurato come il mio, avrebbe, senza alcun dubbio, infettata l’aria, e prodotta nella Dominante qualche contagiosa malattia che seguitamente si sarebbe dilatata per tutto il Regno. Nel forte di queste deliberazioni, furono alla porta della Sala del Consiglio molti Uffiziali delle Soldatesche, ed ottenutone l’ingresso due di loro, fecero il riferto del modo che io avea tenuto in proposito a’sei criminosi, di cui, non e guari che si è parlato. Non solo nell’animo del Monarca, ma eziandio di tutto il suo Senato produsse sì fatte impressioni il rapporto degli Uffiziali, che tutti i Villaggi fin alla distanza di novecento Verghe dalla Città, ebber ordine di somministrare cadaun giorno, sei buoi, quaranta castrati, ed alcune altre vittuaglie pel mio nutrimento; con pane, vino, ed altri liquori a proporzione. Il pagamento di tutto questo, era loro assegnato sull’Erario di Sua Maestà; essendo che questo Principe sussiste colle rendite de’suoi Dominj, non esigendo che molto di rado, e in congiunture eccessivamente strignenti, sussidj da’suoi Suggetti, quali, dal canto loro, sono obbligati a servire nelle guerre di lui, a proprie loro spese. Cogli stipendi Imperiali eran pagate secento persone scelte in miei domestici, e furon loro piantate delle tende a cadaun lato della mia porta. Comandossi pure che trecento Sarti travagliassero per mio servigio un compiuto assortimento di vestimenta alla foggia del Paese: Che sei de’primarj Letterati del Imperio avessero la cura d’ammaestrarmi nel loro idioma: e finalmente, che le Guardie dell’Imperadore; e stessamente i suoi Cavalli, e que’della Nobiltà, frequentemente mi passassero d’avanti, perchè si avvezzassero della mia vista. Furono eseguiti tutti questi ordini con la più esatta precisione; e nello spazio di tre settimane feci gran progressi nella lingua del Paese. Nel frattempo, parecchie volte mi onorò il Monarca di sue visite; e insino mi giuntò la grazia di mescolar sovente le sue instruzioni con quelle de miei Precettori. Cominciavamo già a strignere insieme una spezie di conversazione; e co’primi termini da me appresi, mi sforzai d’esprimere la brama che m’incalzava di conseguire la libertà, e ginocchione gliene ripeteva ogni giorno la supplica. Per quanto pote comprendere, ei rispondeva: che la mia dimanda esigeva tempo; e che senza il parere del suo Consiglio non era cosa neppur da badarvi: che prima di tutto, io doveva, Lumos Kelmin pesso desmar lon Emposo; cioè a dire, giurarli, che io vivrei in pace con esso lui, e con tutti i suoi sudditi: che frattanto, ben trattato io sarei. Consigliommi, per altro, a procurar di guadagnarmi la sua benevolenza, e quella de’suoi Suggetti, col mio sofferimento, e con la mia discretezza. Mi pregò non perdere in mala parte, se egli ingiugnesse ad alcuni de’suoi Uffiziali di far revisione alle mie tasche; poichè era verisile che io avessi sopra di me qualche arme, che al certo dovea straordinariamente pericolosa, se ella corrispondeva all’immensità della mia corporatura. Io replicai che Sua Maestà sarebbe ubbidita, e che io stava pronto ad ispogliarmi, e a rovesciare le mie saccocce; il che espressi a forza di contrassegni, mancandomi per allora i termini. Soggiunse l’Imperadore: che per le leggi del Regno, due Uffiziali dovevano visitarmi: che egli non ignorava che era impossibile il potersi ciò effettuare senza la mia cooperazione: che vantaggiosamente egli era prevenuto della mia generosità, e della mia giustizia, perchè affidar potesse nelle mie mani le persone loro: che tutto mi fosse stato tolto, mi sarebbe renduto al mio staccarmi dal Paese, oppur pagato secondo il prezzo che io medesimo tassato avessi. Presi dunque i due Ufficiali nelle mie mani, e a prima giunta gli messi nelle tasche del mio giubbone, e poscia in tutte l’altre; eccettuatine i due borsellini, e un’altra tasca ancora contenente alcune bagattelluzze, che solo valevano per lo speziale mio uso. In uno de’miei taschetti aveavi un oriuolo d’argento; e nell’altro alcune monete d’oro in una borsa. Que’Signorini che tenevano con esso loro carta, penna, ed inchiostro, formarono, di tutto ciò che vi rinvennero, un’inventario esattissimo; e compiuto il fatto loro mi pregarono di mettergli a terra, perchè all’Imperadore farne potessero il riferto. Tempo dopo trasportai in Inglese quest’Inventario; ed eccone parola per parola la traduzione. Primieramente; nella saccoccia a parte dritta del Giubbone del grand’Uomo-Montagna, (che così sembrami si abbiano a tradurre i vocaboli Quibus Flestrim,) dopo la più diligente visitazione, vi trovammo solamente un drappo di estensione sì enorme, che servir potrebbe di tappeto per la maggior Sala del Palazzo di Vostra Maestà. Nella tasca sinistra vi abbiani veduto un esorbitante forziere, tutto d’argento. Avendo chiesto fosse aperto, uno di noi vi entro, e sprofondovvisi per fino a mezza gamba in una sorta di polvere; parte di cui sparsasi nell’aria, molte volte ci fece stranutire. Nella saccoccia dritta della vesta di lui, visitammo un prodigioso volume, composto di molte bianchicce sostanze piegate l’une in sull’altre, della lunghezza all’incirca di tre uomini, strettamente serrate fra d’esse, e contrassegnate di figure nere: ci ha egli detto che son elleno scritture, onde cadauna lettera è tanto larga, quanto la metà della palma delle nostre mani. Nell’altra saccoccia a mano manca, aveavi una sorta di macchina composta di venti lunghe pertiche, che mai non assomigliavano al palizzato che regna dinanzi alla Corte di Vostra Maestà. Conghietturiamo che con cotale strumento Uomo-Montagna si pettini la testa, mercechè non tutte le volte il tormentiamo con le nostre quistioni, durando noi un sommo stento per farci intendere. Nella dritta gran tasca del suo invoglio di mezzo, (che in questi termini io rendo i vocaboli Ranfu Lo, ond’essi disegnavano i miei Calzoni,) scorgemmo una colonna di ferro scavata, della lunghezza d’un uomo, e strettissimamente annessa a un pezzo di legno, ancor più grande della colonna. Sopra uno de’lati di questa macchina vi erano smisurati pezzi di ferro, per la cui bizzara figura noi non sappiamo che crederne. Uno strumento del tutto somigliante trovammo nella tasca manca. In un altra più piccola a parte destra, stavano molti pezzi d’un bianchiccio, e rossigno metallo, di differenti grandezze; ed alcuni de’pezzi bianchi, che ci parevano d’argento, erano sì larghi, e sì pesanti, che il mio camerata ed io, levargli appena potevamo. Due nere colonne, d’irregolare figura, ritrovammo nella saccoccia sinistra; e una d’esse stava coperta, e sembrava d’un solo pezze: ma nella parte superiore dell’altra, aveavi una spezie di rotonda, e bianchiccia sostanza: al doppio più grossa che le nostre teste: ognuna di queste macchine conteneva una prodigiosa lamina d’acciajo. A mostrarcele l’obbligammo; temendo noi che non fossero strumenti perniziosi. Ei levolle dalle loro nicchie; e ci fece avvertiti, che nel Paese di lui egli avea il costume di servirsi dell’una per radersi la barba; e per trinciare non so quali cibi, dell’altra. Egli ha due borse, in cui introdurci non potremmo, e le chiamava i suoi borsellini. Eran questi, due larghe fessure, tagliate nella parte superiore del suo invoglio di mezzo, ma rendute molto anguste per la pressione del ventre di lui. Al di fuori del dritto borsellino, pendeva una gran catena d’argento alla cui estremità stava attaccata una macchina la più singolare, che vertimo di cavar fuori ciò che teneva alla catena; ei lo fece; e mostrocci un globo, in parte d’argento, e in parte d’un altro trasparente metallo. Riguardandolo noi dalla parte trasparente, vi ravvisamo strane figure disposte in cerchio; che avendo tentato di toccarle, trovaronsi arrestate da quella diafana sostanza le nostre dita. Accostò egli alle nostre orecchie questa macchina, e vi udimmo un continuato fracasso, somigliante a quello d’un mulino da acqua. Pensiamo che cosa tale sia qualche incognita bestia; oppure la divinità che colui adora: ma quest’ultima opinione ci sembra più verisimile; avvendoci egli assicurati, (se pure ben il comprendemmo, poichè si esprime in un modo molto imperfetto,) che ciò era una sorta d’Oracolo assai sovente consultato da lui, e che distinguevagli il tempo di cadauna azione della sua vita. Dal manco suo borsellino egli estrasse una spezie di rete tanto grande, che può servire alla pesca, ma che a guisa di borsa si apre; e si chiude; valendosene egli per un tal uso. Vi trovammo alcuni massiccj pezzi d’un metallo giallicio; che se son eglino d’oro vero, deggiono essere d’un valor immenso.

Dopo di aver, in eseguimento degli ordini di Vostra Maestà, scrupolosamente rivedute, e visitate le saccocce tutte di lui, osservammo che d’intorno alla sua vesta egli aveva un cinturone, che certamente non può essere stato fatto, che della pelle di qualche portentoso animale. Al lato manco di esso cinturone, pendeva una spada della lunghezaza di cinque uomini, e alla dritta una spezie di sacco diviso in due serbatoj, ognun de’quali contener potrebbe tre sudditi della Maestà Vostra. In uno di questi serbatoj stavano molti globi d’un pesantissimo metallo, cadauno della grossezza delle nostre teste, e molto disagevoli per levargli. Vedemmo nell’altro una gran quantità di granineri, assai piccoli, e di non grave peso, potendo noi, in una sola volta, più di cinquanta tenerne in mano.

Quest’è l’Inventario fedele di quanto trovammo indosso all’Uomo-Montagna, il quale trattò con noi in un onestissimo modo, e col rispetto dovuto alla commissione di Vostra Maestà. Soscritto e suggellato il quarto giorno dell’ottangesima nona Luna dell’Augusto Regno di Vostra Maestà Imperiale.

Glefren Frelock.

Marsi Frelock.

Letto, e riletto ch’ebbe da un capo all’altro l’Imperadore quest’Inventario, mi ordinò, comechè in civilissimi termini, di rimettere qualunque cosa nelle mani di lui. A prima giunta mi ricercò la mia spada, che tolsi dal cinturone col suo fodero. Comandò nello stesso tempo, che tre mila uomini delle sue più guerriere milizie, da cui egli stava allora circondato, prendessermi nel mezzo da tutti i lati, e gli archi loro, e le loro frecce lesti tenessero: ma, per dir vero, io non me ne avvidi, perchè i miei sguardi eran fissati nel solo Imperadore. Ciò fatto, ei mi pregò di sguainare la mia spada; la quale, non ostante che per l’acqua marina fosse in qualche parte irruginita, non lasciava d’essere molto risplendente. L’eseguj; e nell’instante tutta la Soldatesca gettò un orribile grido, segno manifesto e della sua sorpresa, e del suo spavento, essendo che i raggi Solari, dopo d’essersi ribattuti sulla mia spada, ripercuotevano gli occhj de’soldati. Il Monarca, che è un Principe magnanimissimo, fu assalito da minor terrore che io non avrei creduto. Mi commise di rimettere la spada nel fodero, e di gettarla la terra il più leggiermente che potessi, e in distanza di sei piedi dall’estremità della mia catena. Chiesemi in secondo luogo una di quelle colonne di ferro, che erano scavate, per le quali egli intendeva le mie pistole da saccoccia. Una gliene mostrai; e feci tutto, stante il desiderio ch’ei manifestava d’averne, di fargliene comprendere l’uso. In fatti, la caricai con sola polvere, che io avuto avea l’avvedimento di guarentire dall’umidità del mare; (inconvenienza, contra cui chiunque prudente marinajo si premunisce) e dopo di aver avvertito l’Imperadore di non temere, feci il mio tiro nell’aria. O allora sì che più che alla vista della mia spada, fu orribile il loro spavento. Cadevan eglino a centinaja come tanti morti; e l’Imperadore medesimo, tutto che rimasto in piedi, ebbe bisogno di qualche tempo per ripigliarsi. Nel modo stesso che io fatto aveva della spada, consegnai le pistole, e susseguentemente la taschetta da polvere, e le palle di piombo; con l’avvertenza a que’Signori di tener lontana dal fuoco con somma attenzione la polvere, perchè la menoma scintilla potuto avrebbe accenderla, e così far saltar in aria tutto l’Imperiale Palazzo. Rimisi eziandio il mio oriuolo, che il Monarca desiava ardentemente di vedere; ed egli ordinò a due delle sue guardie più nerborute d’appenderlo ad una pertica, e di portarlo in sulle loro spalle, nella guisa stessa che in Inghilterra i bastaggj portano un barile di birra. Il sorprese l’incessante strepito della macchina, ed altresì il movimento dell’aguglia che i minuti disegna, e che egli facilissimamente ravvisò; essendo la vista degli Abitatori di quel Paese molto più fina della nostra. Parecchi Letterati richiesti dall’Imperadore della natura di questa macchina, fecero, come chi legge può agevolmente immaginarselo, differenti risposte; di cui, confessarlo deggio, non ne ho compreso il menomo senso.

Consegnai poscia tutto il danajo in argento, e in rame; la borsa contenente nove grosse monete d’oro, ed alcune altre di minor valore; il mio coltello, il rasojo, il pettine, la tabacchiera d’argento, il fazzoletto, e l’almanacco. La spada, le pistole, furono caricate sopra carrette, e trasferite negli Arsenali di Sua Maestà.

Come già il dissi, teneva io una segreta tasca che restò sottratta alle occhiute lor revisioni, e in cui serbava un pajo d’occhiali (onde alle volte mi servia in ajuto della debol mia vista,) un Cannocchiale, ed alcune altre bagattelluzze, che credetti non essere obbligato di discoprire; pel timore di perderle, e che, per altro, per uso veruno dell’Imperadore servir non potevano.

CAPITOLO III.

Strana maniera dell’Autore per tener ricreata Sua Maestà Imperiale, e la Nobiltà tutta dell’uno, e dell’altro sesso della Corte di Lilliput. Altri divertimenti di questa Corte. Sotto certe condizioni è l’Autore rimesso in libertà.

LA mia placidezza, e la buona mia direzione mi aveano talmente acquistata la benevolenza, non solo dell’Imperadore, e della Corte di lui, ma eziandio della Milizia, e di tutto il Popolo in generale, che cominciai a nodrirmi di speranza d’essere fra poco rimesso in libertà. Operai tutto il possibile per coltivare sì favorevoli disposizioni. Io non faceva più paura a’Naturali del Paese: anzi talvolta cercandomi per terra, io permetteva che cinque, o sei d’essi danzassero sulla mia mano. In somma; perfino i giovinetti, e le donzelle si arrisicarono di givocare alla Cieca ne’miei Capelli, ed io, a parlar, e ad intendere passabilmente il lor linguaggio, già cominciava. Venne un giorno in capo all’Imperadore di regalarmi con alcuni spettacoli del Paese; nel che certamente confessarsi si dee, che i Lillipuziani superano tutte le Nazioni del mondo, sì a riguardo della loro industria, che della loro magnificenza. Fra tutti spettacoli io rimasi più ricreato da quello de Saltatori da corda. Facean eglino le più arrischiate capriole sopra un fil bianco assai sottile, di due piedi di lunghezza, e che era teso all’altezza da terra di dodici pollici. Su che, con buona permission di chi legge, è forza che io mi stenda alquanto più.

Non è in uso un tale divertimento che fra que’soli che aspirano alla grazia del Principe, o a grand’impieghi. Fin dalla prima giovinezza si esercitano essi in quest’arte, e non sempre si distinguono con un nascimento illustre, o con una bella educazione. Vacante che fia qualche Carico riguardevole, o per la morte, o per la grazia dell’investito, (il che non di rado avviene,) cinque, e sei, de’Candidati implorano dall’Imperadore la permissione di danzar sulla corda alla presenza di lui, e della sua Corte; e colui che senza cadere salta più alto, conseguisce la Carica onde si tratta. Frequentissimamente i primi Ministri stessi son tenuti di far pompa della loro destrezza, e di dar saggi sulla faccia del Monarca della conservata antica loro agilità, Conviene ognuno che Flimnap, il Tesoriere, in facendo sopra una tesa fune una Capriola, elevasi in aria, per lo meno, d’un grosso dito più alto che quale siasi Signore di tutto l’Imperio. L’amico mio Reldresal, primo Segretario degli affari segreti, per quel che me ne pare, se tuttavia non mi trovo un po troppo prevenuto a favore di lui, e il secondo dopo il Tesoriere: quanto agli altri Grandi, nè pure se ne avvicinano.

Cotali divertimenti, allo spesso non piccoli infortunj cagionano, onde la Storia ne abbonda. Co’proprj miei occhj vidi due o tre Candidati a dislogarsi, o a fracassarsi qualche membro, è ben maggiore il pericolo, quando i Ministri medesimi sono costretti a manifestare la propria sveltezza, mercechè per superare i lor emoli, e in qualche modo se stessi, praticano sforzi sì prodigiosi, che quasi niuno ve n’ha che fatta non abbia qualche caduta, ed alcuni pure per fino a due, o tre. Fui accertato che due anni in circa prima del mio arrivo, sarebbesi, senza altro, Flimnap accoppato, se uno de’guanciali Imperiali, che a sorte trovossi a terra, la forza della percossa non avesse diminuita.

Avvi un altro genere di ricreamento, ma che non si prende tuttavia che in certe occasioni, e alla sola presenza dell’Imperadore, dell’imperadrice, e del primo Ministro. Ripone il Principe sopra un tavoliere tre fila di seta, ciascuno della lunghezza di sei pollici. E’di color porporino il primo, il secondo giallo, e bianco il terzo. Propongonsi queste fila come altrettanti premi a quegli soli che l’Imperadore vuol distinguere con un sonoro, e speziale contrassegno della sua grazia. Celebrasi la cerimonia in una delle maggiori Sale di Sua Maestà; ed ivi sono tenuti i Candidati di soggiacere ad una pruova di agilità molto diversa dalla precedente, e tale, che nel vecchio, e nel nuovo Mondo, in qualunque parte che sia, somigliante non ne vidi, e neppure che vi abbia il menomo rapporto. Tiene l’Imperadore in sue mani un bastone, le cui due estremita sono paralelle dell’Orizzonte; ed a’Candidati tocca di avanzarsi ad uno ad uno, e di saltare ora al di sopra del bastone, ora di sguizzarvisi pel di sotto, a misura che più elevato, o più basso egli è. Più d’una fiata si ripete quest’esercizio; tenendo tal volta il Principe una estremimità del bastone, e il primo Ministro l’altra; ed altre volte pure il tiene il primo Ministro solo. Quegli che da saggio di maggior industria, e che men fatica nel saltare, e nel rampicarsi, conseguisce in ricompensa il filo color di porpora; del giallo si mette in possesso il secondo, e del bianco il terzo. Ognuno de’vincitori se ne fregia a foggia di cintura; pochi essendo i Signori di distinzione, che adorni non ne sieno.

I Cavalli dell’Esercito, e quegli altresì delle Stalle Regie, essendo stati condotti ogni giorno dinanzi a me, già si erano cotanto accostumati di vedermi, che veniva, no fin su’miei piedi senza scomporsi. Quando io metteva a terra la mia mano, i Cavalieri gli facevano coruettarvi sopra, el uno degl’Imperiali Cozzoni salto col suo cavallo sopra il mio piede, sopra la scarpa, e sopra ogni cosa, il che, per dir vero, poteva si registrare per un salto portentoso. Ebbi io la felicità di ricreare un giorno l’Imperadore in una straordinaria maniera. Il supplicai di dar ordine che mi fossero provveduti alcuni bastoni di altezza di due piedi, e della grossezza d’una canna comune. Comandò egli immediate al suo soprantendente Generale de’Boschi di sarmigli avere; ed in fatti il giorno dietro vidi arrivare sei boscajuoli con altrettanti carri carichi della qualità di bastoni da me richiesta, ed ogni carro era tirato da otto cavalli. Presi nove di que’bastoni che fortemente in terra conficcai, e che disposi in un modo, che formavan eglino un quadrato di due piedi, e mezzo. A cadaun lato attaccai un bastone all’altezza di due piedi da terra, e in tal simmetria, che tutti fra d’essi erano paralelli. Dopo ciò, legai il mio fazzoletto a’nove bastoni che io aveva confitti nel terreno, e ben lo tesi da tutti i lati come la pelle d’un Tamburo; servendo d’ogni intorno di sponda i quattro bastoni paralelli, i quali più del fazzoletto erano elevati di cinque grosse dita. Compiuto il fatto mio, proposi all’Imperadore che due dozzine de’suoi migliori Cavalli facessero il loro esercizio sopra quella pianura. Soddisfece alla mia richiesta il Principe; ed io, l’un dopo l’altro, gli presi tutti cogli Uffiziali che gli montavano, e sopra il mio fazzoletto gli accomodai. Posti che furono in ordinanza, si divisero in due manipoli, scherzevolmente scaramucciarono, scoccarono saette che veruno offendere non potevano, spiegarono le bandiere, vennero alle mani, e per dir tutto in una parola, diedero a conoscere che perfettamente erano instruiti di molte regole della militar disciplina. I bastoni paralelli impedivano che essi, e i loro cavalli a terra non cadessero, e tanto si compiacque l’Imperadore di un tale spettacolo, che ne ordinò la replica per molti giorni; e volle stessamente una volta essere riposto egli medesimo sopra il mio fazzoletto, e comandare in persona le mozioni de’suoi Cavalieri. Rendenne eziandio persuasa l’Imperadrice; tutto che con non poca pena ei mi accordasse di tenerla in mano nella sedia d’appoggio di lei, in distanza di due verghe dal mio fazzoletto, donde ella a suo bell’agio d’ogni cosa potesse essere spettatrice. Buona sorte per me, che in tutti questi divertimenti non n’è accaduto il menomo inconveniente. Una sola volta, un cavallo focoso che apparteneva ad uno de’Capitani, con un colpo d’unghia fece un buco nel mio fazzoletto, e rovescione cadde col Cavaliere che lo montava; ma entrambi al più presto gli rialzai; e dopo di aver turato il buco con una mano, mi servj dell’altra per riporre la brigata a terra. Si era il cavallo stravolta la manca spalla: ma il Cavaliero non ne risentì male di sorta, ed io il meglio che seppi rappezzai il fazzoletto; persuaso però di non esporlo a somiglianti accidenti mai più.

Due o tre giorni prima che io ricuperassi la libertà, in tempo che me ne stava divertendo la Corte con tutte queste maraviglie, capitò espresso un Masseggiere per informare l’Imperadore, che alcuni de’suoi Suggetti, sollazzandosi nel sito medesimo ove io era stato trovato, scoperta aveano una gran cosa, che giacevasene a terra, d’una assai bizzarra figura; i cui margini si stendevano in cerchio, e che nel mezzo era all’altezza d’un uomo; avendo; per altro, poco più, o meno, l’estensione medesima che la camera da letto di Sua Maestà: che non era questa una creatura vivente, come da principio si avea temuto; poichè praticatisi d’intorno a lei diversi giri, non avea ella esibiti indizj veruni del menomo movimento: che in montando in sulle spalle degli altri, alcuni d’essi erano pervenuti sino alla sommità, la qual’era molto piana; e che col battere d’un piede, trovato aveano che la macchina era al di dentro vota: che sembrava loro verisimile che ella dovesse appartenere all’Uom-Montagna; e che se fosse in grado di Sua Maestà, ne avrebber eglino impreso il trasporto alla Corte, purchè fossero loro somministrati cinque cavalli. Immediate compresi ciò che dir volessero, e giubilai nel mio cuore per la recata novella. E’probabil cosa, che dopo d’essermi salvato a terra dal mio naufragio, talmente stordito io fossi, che prima d’arrivare al luogo ove mi addormentai, il mio cappello, che io aveva legato al collo in tempo che me ne stava remando, e che tenne fermo per tutto lo spazio del mio nuotare, caduto fosse senza che me ne avvedessi. Supplicai Sua Imperial Maestà di comandarne il pontuale trasporto, e ne le descrissi la natura, e l’uso. L’ebbi il giorno dietro, ma in pessima condizione; mercechè, a un pollice e mezzo di distanza dal di lui margine, vi avean coloro praticaci due fori, ed a questi, attaccati due uncini, pe’quali passata aveano una lunga fune, per legar meglio il povero mio cappello alle tirella de’Cavalli: e con tal apparecchio ei fece più d’una mezza lega d’Inghilterra. Ma come il terreno di quel Paese è molto piano, non restonne danneggiato quanto sorse avrei creduto.

Due giorni dopo quest’avventura, l’Imperadore, avendo intimato a quella parte di sue milizie che si trovava dentro, e d’intorno alla sua Capitale, di tenersi lesta al primo ordine, immagino un assai singolare divertimento. Egli s’invogliò che io me ne stessi come un Colosso, con le gambe larghe per quanto mi fosse possibile. Comandò allora al suo Generale, il qual era un gran Capitano, e mio amicissimo, di mettere in buona ordinanza gli Squadroni, e di fargli marciare di sotto a me formando l’Infanteria una fronte di venti quattro, e la Cavalleria di sedici, tamburi battenti, insegne spiegate, ed alte le picche. In questo modo mi passarono fra le gambe tre mila Fanti, e mille Cavalieri. Sotto pena di morte promulgò Sua Maestà, che ogni Soldato nella sua marcia osservasse le regole più esatte della decenza a mio riguardo. Con tutto ciò, un tal ordine non impedì che alcuni giovinastri Uffiziali non levassero in alto gli occhj in passandomi pel disotto. E per dir vero, erano allora sì laceri i miei calzoni, che per lo meno traveder facevano alcuni argomenti di beffe, e d’ammirazione.

Furono tante, e tali le mie suppliche per ottenere la libertà, che finalmente fu messo sul tappeto l’affare, prima nel Gabinetto di Sua Maestà, e poscia in pien Senato. Non vi fu chi si opponesse se si eccettua SKyresh Bolgolam; il quale, senza che gliene avessi dato suggetto di sorta, fece scoppiare contra di me una mortale aversione: Ma al suo dispetto, tutto il Consiglio decise a mio favore, e la decisione dall’Imperadore restò ratificata. Quest’atrocissimo nemico era il Galbet; e vale a dire, l’Ammiraglio del Regno, gran Favorito del Monarca, e oltracciò, versatissimo negli affari, ma d’un aspro temperamento, ed importuno d’umore. Cedette alla fine; ma nel tempo stesso se gli acaccordò, che lui medesimo quegli sarebbe che stendesse gli articoli, e le condizioni onde dipendesse la mia libertà, e la cui manutenzione convalidata fosse dal mio giuramento. Skyresh Bolgolam stesso, accompagnato da due sotto Segretarj, e da alcune altre persone ragguardevoli, recommi queste condizioni. Seguita la lettura, dovetti giurarne l’osservanza, primieramente secondo lo stile del mio Paese, e poscia secondo quello che le loro Leggi prescrivono, il qual era di tenere il piede mio dritto nella mia manca mano, di porre il dito di mezzo della mia mano destra sulla sommità della mia testa, ed il pollice sull’estremità superiore della dritta mia orecchia. Come forse può essere curioso il Leggitore di concepir qualche idea dello stile, e della maniera di parlare di quel Popolo, e di aver eziandio il raguaglio delle condizioni, alle quali mi su renduta la libertà, ho creduto ch’ei mal volentieri non ne vedrebbe la traduzione, che ho procurato di fare con la più possibile fedeltà, ed eccola per appunto. Golbasto Momaren Eulame Gurdilo Shefin Mully Gue, Potentissimo Imperadore di Lilliput, le Delizie, ed il Terrore dell’Universo, le cui Regioni an di estensione cinque mila Blustrugs, (dodici miglia in circa di circuito) e che altri limiti noti anno che quelli della Terra: Monarca de’Monarchi, più grande, che i Figliuoli degli Uomini, i cui piedi posano sul centro della terra, e la cui testa arriva perfino al Sole: che con una occhiata sola fa tremare i Principi del Mondo, Amabile come la Primavera, Giocondo come la state, Fecondo come l’Autunno, e Terribile come l’Inverno. La Sublimissima Maestà sua propone all’Uomo Montagna capitato da qualche tempo nel formidabile Imperio di Lei, i seguenti Articoli, la cui osservanza ei con giuramento dovrà promettere.

Primieramente; l’Uomo-Montagna non uscirà de’nostri Stati senza averne una permissione suggellata col gran Suggello.

II. Senza espresso nostro ordine non entrerà egli nella nostra Capitale; e quando vi verrà, gli Abitanti due ore prima ne saranno avvertiti, perchè abbiano il tempo di ritirarsi nelle loro Case.

III. Il sudetto Uomo-Montagna limiterà il suo passeggio alle principali strade maestre e si guarderà dal trattenersi, o dal mettersi a dormire in una Prateria, o in un Campo di biade.

IV. Quando si tratterà nelle Strade Maestre, avrà esatta attenzione di non camminare sul corpo di alcuno de’nostri diletti sudditi, nè sopra i loro cavalli, e le loro carrette; non potrà pure prendere in sua mano veruno degli stessi nostri suggetti, se pero eglino non ci consentissero.

V. Se avviene che all’improvviso si abbia la necessità di spedire per qualche parte un Messaggere, l’Uomo-Montagna sarà obbligato, una volta per cadauna Luna, di trasportare il Messaggiere stesso nella sua tasca alla distanza di sei giornate di cammino, e (se egli ne fosse richiesto,) di riportarlo sano, e salvo in presenza di Sua Maestà.

VI. Sarà egli ammesso alla nostra confederazione contra gli Abitanti dell’Isola di Blefuscu, e farà tutti i suoi sforzi per distruggere l’Armata Navale, con cui coloro si apparecchiano di fare uno sbarco nel nostro Imperio.

VII. Nell’ore di sua comodità, sarà egli tenuto d’ajutare a’nostri Operaj a levare alcune grosse pietre, che servir deggiono alla costruzione della muraglia del nostro gran Parco, e a quelle di alcuni Palaggi Reali.

VIII. L’Uomo-Montagna suddetto, nel termine di due Lune esibirà una diligente descrizione del circuito del nostro Imperio, e in questo calcolo serviranno di misura i suoi passi.

Finalmente quando l’Uomo-Montagna avrà giurato solennomente d’osservare tutti questi Articoli, gli sarà cadaun giorno somministrata tanta quantità di cibi, e di bevande, quanta bastar possa per l’alimento di 1724. de’nostri Suggetti: e oltracciò egli avrà sempre un libero accesso alla Nostra Imperial Persona, con altri contrassegni della grazia nostra. Dato nel Nostro Palazzo di Belfaborac, il giorno duodecimo della novantesima prima Luna del nostro Regno.

Io soscrissi, e giurai con sommo piacere l’osservanza di tali Articoli, tutto che ve ne fossero alcuni di non troppo mio onore, e che io attribuir non poteva che al pessimo genio del Grand’Ammiraglio Shyresh Bolgolam: Dopo ciò, mi furono immediate tolte le catene, e l’Imperadore medesimo m’impartì lo spezioso onore d’essere presente a tutta la cerimonia. Mi prostrai a’piedi di lui per avanzargli i miei ringraziamenti, ma egli m’impose il levarmi; e dopo di avermi dette alcune cose, che la mia moderazione, e il timore d’essere tacciato di vanità non mi permettono di ripetere, ei soggiunse che confidava molto che io fossi per adempiere scrupolosamente qualunque mio dovere, e che fossi per rendermi degno delle grazie di già ricevute, e di quelle ancora che d’impartirmi ei disegnava.

Si risovviene già il Leggitore, che nell’ultimo Articolo, onde io giurata aveva l’osservanza, l’Imperadore mi avea assegnata, ciascun giorno, una quantità di cibi, e di bevande, che avrebbe potuto esser bastevole a 1724. Lillipuziani. Qualche tempo dopo interrogai un Amico mio di Corte, per quale ragione si era un tal numero precisamente determinato: egli mi rispose, che i Matematici di Sua Maestà, avendo presa l’altezza del mio corpo pel mezzo d’un quarto di Cerchio, e trovando che con loro vi era la proporzione di dodici ad uno, conchiuso aveano da cio, che i loro corpi, ed il mio, erano somiglianti, che conveniva che il mio contenesse 1724. de’loro, e che per conseguenza egli avesse bisogno di tanta nutritura, quanta ne bisognava al numero menzionato di Lillipuziani. Il che basta per esibire a’miei Leggitori una idea dell’industria di quel Popolo, e altresì della prudente, ed esattissima economia del Gran Principe che il governa.

CAPITOLO IV.

Descrizione della Città Capitale di Lilliput, nomata Mildendo, e del Palagio dell’lmperadore. Conversazione dell’Autore con uno de’primi Segretarj degli affari dell’Imperio. Offresi l’Autore di servir al Monarca contro agl’inimici di Lui.

LA prima supplica che io presentai dopo di aver conseguita la libertà, fu di avere la permissione di veder Mildendo, la Capitale. Acconsentivi di buon gusto l’Imperadore, raccomandandomi a chiare note non inferir male alcuno a’Cittadini, nè alcun pregiudizio alle loro Case. Con pubblico Editto si fece saper al Popolo la vicina mia andata alla Dominante. Alta due piedi e mezzo, e al più, undeci grosse dita larga, e la muraglia, onde Mildendo sta circondata; cosicché sulla sommità della muraglia stessa, puossi in Carozza far il giro della Città. In distanza di dieci piedi, l’une dall’altre, regnanvi forti Torri, che in caso d’assalimento, un gran soccorso per difesa della Piazza recherebbono. Con una largata di gambe passai al di sopra della gran Porta che risguarda l’Occidente, e trascorsi con la più possibile agilità le due principali strade, non avendo indosso che la semplice mia camiscia, per timore di danneggiar i tetti, e i gocciolatoj delle abitazioni co’lembi de’miei vestiti. Me ne andava con tutta l’immaginabile cautela, per non mettere il piede sopra qualcuno che a caso si fosse dimenticato nelle strade; tutto che l’ordine fosse formallissimo, che chiunque si trovasse fuori di casa, correrebbe il risico a propio suo conto. Contenevano un sì gran numero di spettatori le finestre de’Granari, e delle parti superiori delle fabbriche, che non mi ricordo di aver veduto mai in una sola volta tanto Popolo. E’costrutta in quadro la Città, avendo cadaun lato della muraglia in lunghezza cinquecento piedi. Le due strade maestre che s’incrocicchiano, e dividonla in quattro parti, sono cinque piedi larghe. Le altre strade più strette, nelle quali entrar non potei, ma che solamente vidi in passando, stendonsi in larghezza da dodeci perfino a’diciotto pollici. Di cinquecento milla anime, o circa, sarà capevole quella Città; essendo le sue Case fabbricate da’due Solai insino a’cinque; e abbondando d’ogni cosa i suoi Mercati, e le sue Botteghe.

Nel centro della Città, e sul crocicchio delle due grandi strade, è situato l’Imperial Palagio. Egli è cinto da una muraglia alta due piedi, e disgiunta dalle altre fabbriche per lo spazio di venti. Avea mi permesso sua Maestà di sormontare con un allargar di gambe questo muro, e come era assai vasto il tramezzo tra il Palagio ed esso, ebbi l’opportunità di considerare quello, da tutti i lati. L’esterior Corte è un quadrato di quaranta piedi, e contiene due altre Corti. Nella più interiore son fondati gl’Imperiali Appartamenti, che con impazienza io bramava di vedere; il che però mi riuscì con terribile stento; essendo che gli uscj maggiori, pei quali si entra da un quadrato all’altro, non aveano di altezza che diciotto pollici, e di soli sette erano larghi. Ora, gli Edifizj della Corte esteriore eran alti, per lo meno, cinque piedi, e perciò riuscivami impossibile il passarvi di sopra a gambe larghe, senza risico che la fabbrica restasse estremamente danneggiata; non ostante che le muraglie, che erano di pietra, solidissimamente fossero costrutte, ed a vessero di grossezza quattro pollici. L’Imperadore era allora invaghito che io ammirassi il suo Palagio; ma non fuvvi il modo, che tre giorni dopo, che io impiegar dovetti atagliare col mio coltello alcuni de’più grand’alberi del Regio Parco, il quale, per cento Verghe, o circa, era discosto dalla Città. Formai di questi alberi due sedili, alto ciascuno di tre piedi, e bastevolmente forte per sostenermi. Una seconda volta avvertito il Popolo, fui di nuovo per la Città alla Regia, co’miei due sedili alla mano. Arrivato al margine della esteriore Corte, montai sopra un sedile, tenendo nelle mani l’altro. Levai in alto questo quì, e nello spazio che si frammette fra la prima, e la seconda Corte, e che all’incirca è largo d’otto piedi, il collocai. Fummi allora più che agevole l’allargar le gambe, e da un sedile all’altro passar al di sopra degli Edifizj, e pel mezzo d’un bastone, onde l’estremità era armata d’un uncino, ritirar poscia l’altro sedile presso di me. Col favore di cotale invenzione, penetrai fin nella Corte più interiore, e corcatomi sopra un fianco, mi avvicinai alle finestre del piano di mezzo, a bella posta lasciate aperte, e restai sorpreso dagli oggetti de’più magnifici Appartamenti, che può formarsi l’idea. Ravvisai l’Imperadrice, e le Principesse, attorniate dalle loro Dame d’onore. Sua Imperial Maestà compiacquesi farmi un sorriso il più grazioso del mondo, e fuor del balcone presentommi la destra perchè la baciassi.

Non mi andrò già perdendo in un racconto più diffuso, e in descrizioni di questa fatta, poichè le serbo per un’opera più voluminosa, che ben presto vedrà la luce, e che conterrà una Generale Storia di quell’Imperio. Niuna cosa vi sarà ommessa: io rimonterò perfino alla prima origine, e dopo che avrò scorsi i fatti più memorabili delle vite de’diversi Principi che il governarono, parlerò delle guerre sostenute da quest’Imperadore; delle massime di Politica, e delle Leggi che vi si osservano; delle Costumanze, e delle Scienze che più vi si praticano, e della Religione che vi si professa. Il mio presente disegno si è, di sol narrare alcuni avvenimenti succeduti in quell’imperio, per lo spazio di nove mesi che vi dimorai.

Una mattina, quindici giorni, più, meno, dopo la ricuperata mia libertà, Keldersal, Primo Segretario (come essi il chiamano) degli affari segreti, venne a trovarmi, accompagnato da un solo servidore. Diede egli ordine che a una certa distanza lo attendesse alla sua Carozza, e mi pregò di accordargli udienza per un’ora, il che feci volentierissimo, avuto riguardo non solo alla qualità di lui, e al suo merito personale, ma eziandio a’buoni uffizj che nelle mie sollecitazioni mi avea renduti. Volli corcarmi a terra, perchè lui fosse più a portata di farsi intendere; ma desiderò piuttosto che io il tenesi in mano per tutto il tempo della nostra conversazione. Diede principio da’complimenti in proposito alla mia liberazione; "a cui, diceva egli, io ho contribuito con tutte le mie forze; tutto che principalmente voi ne siate debitore alle circostanze, onde rinvienesi il nostro Imperio: mercechè, (ei soggiunse continuando il suo discorso,) per quanto formidabile sembrar possa agli Stranieri il nostro Dominio, egli è affievolito da due spaventevoli mali; da una violenta Fazione al di dentro, e da un terribile nemico al di fuori. Quanto al primo di questi mali, saper dovete, che da più di settanta Lune in quà, trovasi l’Imperio squarciato da due Partiti, sotto i nomi di TramecKsan, e di SlameKsan; nomi, che dalla diversa altezza de’talloni delle scarpe loro, son derivati. Per dir vero, negar non si potrebbe che l’uso di portare alti talloni non sia il più antico: ma che che siane in tal proposito, Sua Maestà decretò non doversi impiegare nell’amministrazion del Governo, ed investire delle Cariche  dipendenti dalla Corona, che que’soli che porteranno talloni bassi, come voi medesimo potuto avrete osservarlo, e se ci fate buona attenzione, vedrete che i talloni di Sua Imperial Maestà sono più bassi d’un Drurr, (misura che presso poco riviene alla quarta decima parte, d’un grosso dito) che verun altro de, suoi Cortigiani. Va a un tal segno l’astio di queste due Fazioni, che elleno non consentirebbono nè di mangiare, nè di bere, e neppur di parlare insieme. Gli TramecKsan, o sien quelli che portano alti talloni, sono in maggior numero che noi, ma militano dal nostro canto la possanza, e l’autorità. Temmiamo che Sua Altezza Imperiale, l’Erede della Corona, non abbia qualche inclinazione per gli talloni alti: ciò che vi ha di certo si è, che uno de’suoi talloni cresce un pocchettino più che l’altro; il che cagiona che in camminando ei alquanto zoppichi.

"Nel mezzo di cotali intestine divisioni, siam noi minacciati d’un assalimento dal canto degli Abitanti dell’Isola di Blefuscu, che è l’altro grand’Imperio dell’Universo, e per lo meno così dilatato, e così potente, che quello di Lilliput. Essendo che, voi ci raccontaste che nel Mondo sienvi altri Regni popolati da Creature umane del vostro taglio, si rivoca in dubbio da’nostri Filosofi, i quali sospettano piuttosto che voi siate caduto dalla Luna, o da qualche Stella; poichè è cosa incontrastabile che un centinajo d’uomini di vostra corporatura, in poco tempo, tutte le frutte, e tutti i greggi di quest’Imperio consumerebbe. Oltre di che, la nostra Storia, che rimonta fin a sei mila Lune, di verun’altra Regione non parla, che delle due smisurate Monarchie di Lilliput, e di Blefuscu: le quali, per quel che già io cominciava a dirvene, sono trenta, e sei Lune, che si fanno una guerra crudele: ed eccone per appunto il motivo. Non ha che opporre il Mondo tutto, che anticamente, quando si volea mangiar delle vova, si rompevan queste dalla più larga estremità. Or accadde un giorno, che l’Avolo dell’Imperadore Regnante, essendo per anche giovinetto, e volendo, secondo il costume antico rompere un vovo, tagliossi un dito. E perciò l’Imperadore, Padre di lui, fece pubblicare un Bando, onde egli commetteva a’suoi suggetti sotto gravissime pene, di rompere in avvenire le vova loro, dalla estremità più stretta. Sdegnossi talmente il Popolo per un tal Editto, che le nostre Storie fan menzione di sei cagionate rebellioni; avendo queste ribellioni costata la vita ad un Imperadore, e la Corona all’altro. I Monarchi di Blefuscu, che an sempre accordato l’asilo a’Ribelli che abbandonavano l’Imperio di Lilliput, an fomentato queste domestiche dissensioni. A conto fatto, undeci mila persone in tempi differenti, anzi che rompere le loro vova dalla estremità più stretta, vollero piuttosto perire. Molte centinaja di Volumi in proposito a questa controversia sono state pubblicate; ma da molto tempo in qua sono stati proibiti i Libri degli ostinati a rompere le loro vova secondo il rito antico, e con una solenne Legge fu il Partito dichiarato incapace di riempire veruna Carica.

"Nel frattempo di tali turbolenze, gl’Imperadori di Blefuscu, colla voce de’loro Ambasciadori si sono di frequente lamentati, che noi producessimo uno Scisma nella Religione, rovesciando una fondamentale dottrina del nostro gran Profeta Lustrog, contenuta nel Capitolo cinquantesimo quarto del Brundecral, (che è l’Alcorano loro.) Ma una querela somigliante, non ha altro fondamento che una vana glosa sopra il Testo, onde eccone i precisi termini: Tutti i veri Credenti romperanno le lor vova dalla estremità convenevole: Ora, a quel che me ne pare, alla coscienza d’ognuno, od anche al Sovrano, appartiene di determinare qual esser deggia quest’estremità. Ma il maggior male si è che i Partigiaui dell’antico metodo di rompere le vova, che sono rifugiti alla Corte di Blefuscu, anno avuto tanto credito presso quell’Imperadore: e con tanta forza sono stati assistiti da que’del partito loro rimastisi nella propria patria, che da trenta e sei Lune in qua, si è accesa fra’due Imperj una sanguinosa guerra, onde l’evento non corrispose sempre a’nostri desiderj; imperocché, non ostante che sieno state grandi, più che le nostre, le perdite degl’Inimici, vi abbiam però sgraziatamente lasciati quaranta Vascelli del primo ordine, e un maggior numero d’altri men riguardevoli, con trenta mila de’nostri più valorosi Soldati, e migliori Marinaj. Eperò; tutto che la somma de’loro morti trascenda quella della nostra parte, anno eglino in questi giorni allestita una numerosa Armata marittima, e stanno per effettuare uno sbarco nel nostro Paese. In tali angustie, Sua Imperial Maestà, la qual è prevenuta dalle più avvantaggiose idee della vostra forza; e del vostro coraggio, mi comandò d’esporvi lo stato de’nostri affari."

Io pregai il Segretario di assicurare Sua Maestà de’profondissimi miei rispetti; e di rappresentarle, che non sembravami cosa di buon ordine, che io, Forestiere, mi rimescolassi negli affari di Partito; con tutto ciò, che io era pronto ad esporre la vita per la Persona, e per gli Stati di Lei, contra chiunque avesse la temerità di fare una incursione nell’imperio.

CAPITOLO V.

Con uno stratagemma inudito l’Autore perviene una incursione. Titolo d’onore che  viengli conferito. L’Imperadore di Blefuscu spedisce Ambasciadori ter chiedere la pace. Appicciasi il fuoco all’Appartamento dell’Imperedrice; ma col soccorso dell’Autore resta estinto.

L’Imperio di Blefuscu è un’Isola situata a Greco Tramontana di Lilliput, da cui n’è separata per un canale di sole ottocento verghe di larghezza. Io non aveva mai veduto il Paese di Blefuscu, e stante la nuova dell’incursione onde Keldresal aveami instruito, sfugj di comparire sulla spiaggia che disgiungne quell’Imperio dall’altro di Lilliput, per timore d’essere scoperto da qualche Vascello degl’inimici, i quali non aveano veruna contezza di me; essendo interdetto con pena di morte qualunque commerzio fra’due Imperi, durante la guerra, e avendo comandato l’Imperadore che fosse negato l’ingresso ne’suoi porti ad ogni Bastimento, niuno eccettuato. Comunicai all’Imperadore il progetto da me formato di rendermi padrone della nemica Armata, che, per le relazioni di tutti i nostri Scorridori, si sapeva accertatamente che stava sul ferro in Porto, pronta di mettersi alla vela a primo buon vento. Interrogai gli uomini più esperti di Marina, sopra la profondità del Canale, molte volte da essi già scandagliato, e mi risposero essi, che quando l’acqua trovavasi nella maggior sua escresenza, nel mezzo del Canale aveanvi settanta Glumgluffs di fondo, (il che riviene a piedi sei in Europa,) e altrove da per tutto cinquanta Glumgluffs al più. Mi portai sulla sponda del Canale rimpetto per appunto di Blefuscu, e nascostomi dietro una piccola eminenza, presi il Cannocchiale, e vidi l’Armata nemica sull’ancora, consistente in una cinquantina di Vascelli da guerra, e in un maggior numero di Bastimenti da trasporto. Me ne ritornai allora all’abitazione, e (secondo la permissione che io ne aveva,) diedi ordine mi si provvedessero molte fortissime gomene; e una buona quantità di spranghe di ferro. Era grossa ogni gomena poco più, o men, che uno spago, e le spranghe all’incirca del taglio d’un’aguglia da cucire. Interzai le gomene per renderle più poderose, e per la ragione medesima, unj tre spranghe insieme, e ad un uncino ne appesi l’estremità. Legati in questo modo cinquanta uncini ad altrettante gomene, fui al Canale una seconda volta, e toltomi d’indosso i miei vestiti, le scarpe, e le calze, mi misi in mare con la mia camiciuola di bufalo, e camminai per lo spazio di mezz’ora, prima della marea. Mi affrettai il più che mi riuscì possibile: e nel mezzo del Canale, prima che co’piedi mi riuscisse toccare fondo, fui costretto mettermi a nuoto per trenta verghe. Trenta minuti di tempo non impiegai, finchè pervenni all’Armata di Blefuscu. In vedendomi gl’inimici, un sì orrido spavento gli assalì, che gettaronsi da’loro Vascelli all’acqua, per salvarsi nuotando sopra la spiaggia, ove io vidi raccolti più di trenta mila uomini. Presi allora tutte le mie macchine; ed appicato un uncino alla prua di cadaun Vascello, unj insieme, per l’estremità, tutte le Gomene. Nel tempo dell’azione, mi scoccarono gl’inimici molte migliaja di frecce, onde alcune mi ferirono le mani, ed altre il volto, e che oltra il dolore che io ne risentiva, molto m’inquietarono nel mio lavoro. Gli occhj mi stavano più a cuore; che certamente gli avrei perduti, se non mi fossi risovvenuto d’un maraviglioso spediente per conservargli. Fra l’altre cose, teneva io in una secreta tasca un pajo d’occhiali, che, come penso di averlo detto, non erano stati guatati da’diligenti Esploratori dell’Imperadore. Gli presi, e gli assicurai in sul naso, il più forte che potei. Con una tal difesa, continuai con arditezza l’opera mia, in dispetto delle saette che continuavano a piovere sopra di me, e molte delle quali colpirono i vetri de’miei occhiali, ma senza altro effetto che di leggermente smuovergli. Io aveva di già appiccati tutti gli uncini, e impugnato il nodo ove le gomene tutte riferivano, cominciai a traere gli Vascelli. Ma tutti, e poi tutti, tennero saldo, pel benefizio delle lor ancore. In un tal imbroglio, qual partito prendere? Abbandonai le funi, e lasciando gli uncini attaccati a Vascelli fui così temerario, che col mio coltello tagliai le gomene dell’ancore; ricevendo tuttavia in una spedizione di questa fatta, una tempesta di saette e nelle mani, e nel capo. Dopo ciò, ripresi il nodo che io avea formato coll’estremità di tutte le funi onde stavano appiccati i miei uncini; e con la maggior facilità del mondo, trassi dietro di me cinquanta de’più poderosi Vascelli da guerra degl’inimici.

I Blefuscuani, che tutto altro attendevano che una somigliante burla, a primo tratto bruttamente storditi rimasero. Mi avevan essi veduto a recidere i cavi de’ferri; ed immaginarono che io avessi solamente in testa di lasciar le Navi alla discrezione della Marea, o che urtassero l’une coll’altre: Ma quando si avvidero che l’Armata tutta muovevasi in buona ordinanza, o che io solo era quel desso che strascicava la, disperati vomitarono gridi tanto diabolici, che è forza di avergli intesi, per poter formarsene un’adeguata idea. Scortomi fuor di pericolo, mi arrestai qualche instante per togliermi le saette restate fitte nelle mani, e nella faccia, che poscia ebbi cura di strofinar ben bene con quell’unguento stesso, che non è guari, fu da me mentovato. Mi levai in quell’instante gli occhiali miei, e dopo di aver atteso un’ora che l’acqua abbassasse un poco, guazzai con tutti i Vascelli i1 mezzo del Canale, e sano e salvo all’Imperial Porto di Lilliput, mi transferj.

Era la spiaggia ingombra dall’Imperadore, e da tutta la Corte di lui, in attenzione dell’evento d’un’Avventura sì enormemente stupenda. Vider eglino i Vascelli disposti in mezza Luna avanzarsi alla volta loro; ma non poterono ravvisar me, che me ne stava nell’acqua fino allo stomaco. Pervenuto che fui alla meta del Canale, aumentò la loro apprensione, perchè io ne aveva perfino al collo. Volea in ogni modo l’Imperadore che io fossi annegato, e che gl’inimici sempre si avanzassero per tentare uno sbarco: ma ben presto svanirono i suoi spaventi; mercè che ad ogni passo che io faceva, divenendo il Canale di minor fondo, in pochi momenti fui in istato di farmi intendere, e levando in aria il nodo formato dall’estremità dei cavi che l’Armata legavano, sclamai ad alta voce: Viva il potente Imperadore di Lilliput; viva. Mi ricevè questo gran Principe sul lido un modo il più obbligante del mondo, e sul punto stesso mi creò Nardac, che è il titolo più sublime d’onore, che si possa ricevere in quell’imperio.

Mi pregò Sua Maestà di compiere quanto prima una impresa che sì felicemente cominciata io aveva, conducendo ne’Porti di lei il rimanente della nemica Armata, e tal si era la sua ambizione, che parea che l’Imperadore non pensasse meno che di ridurre in Provincia tutto l’Imperio di Blefuscu, per essere in avvenire governato da un Vicerè, che di sterminare tutti i ribelli, partigiani dell’antico rito di rompere le vova, rifuggiti alla Blefuscuana Corte, e che a costrignere il Popolo a seguire il nuovo metodo; dopo di che sarebbe egli rimasto il solo Monarca di tutto l’Universo. Ma io non mancai di distrarlo da un tal disegno, per l’efficacia di molti argomenti statimi suggeriti dalla Politica, del pari che dall’equità: E gli protestai che morirei disperato, se contribuito io avessi alla schiavitù d’un Popolo libero. In pien Consiglio l’affare restò discusso, e si unì al mio parere la parte più sana del Ministero.

Gustò sì poco di sì ardita dichiarazione Sua Imperial Maestà, che non me la perdonò mai più. Ella ne fece menzione nel suo Senato; ed i più saggi, alle relazioni che n’ebbi, si manifestarono, almen pel loro silenzio, del sentimento mio: ma altri, che covavano contra di me una segreta nemistà, non poterono trattenersi dal lanciare alcuni maligni tratti, tutto che in un indiretto modo. Quindi formossi tra la Maestà Sua, ed alcuni Ministri animati contra di me ingiustamente, una conspirazione, che ebbe a costarmi la vita. Tanto è vero, che i più importanti servigj che rendonsi di certa fatta, interamente sono dimenticati, immediate che una sola volta si manca.

Tre settimane dopo questa spedizione l’Imperador di Blefuscu spedì una solenne Ambasceria per chiedere la pace, che a condizioni assai vantaggiose pel nostro Monarcha ben presto restò conchiusa; ma il cui ragguaglio poco importar dee al Leggitore. Erano sei gli Ambasciadori, e di cinquecento persone era composto il lor seguito. Fu magnifichissimo il loro Ingresso, e per dir tutto in una parola, proporzionato alla grandezza del loro Sovrano, e all’importanza della lor commissione. Quando il Trattato che essi negoziavano, ed io cui rendei loro de’buoni uffizj pel credito che io avea alla Corte, o che per lo meno m’immaginava d’avervi, quando, dissi, il Trattato restò conchiuso, l’Eccellenze loro, di già instruite de’miei maneggj in lor vantaggio, mi renderono una visita nelle forme. Dieder elleno principio dall’innalzare perfino al Cielo il mio valore, e la mia generosità. A nome poscia del loro Signore mi pregarono di portarmi in quell’Imperio, e altresì di regalar loro un qualche saggio di quella prodigiosa forza onde io era dotato, e di cui intese aveano tante maraviglie. Mi accinsi a compiacerle.

Dopo aver io operati molti incomprensibili prodigj, al dir degli Ambasciadori: e che non avrebbono potuto mai credergli, se essi medesimi stati non fossero testimonj di vista, gli supplicai d’assicurare degli umilissimi miei rispetti all’Imperadore di Blefuscu, e di rappresentargli che le gran cose che la Fama pubblicava di lui, mi aveano determinato a non tornarmene al mio Paese, senza l’onore di fargli le mie riverenze. Con tal disegno, la prima volta che vidi l’Imperadore di Lilliput, chiesigli la permissione di andar a salutare il Monarca di Blefuscu; il che egli accordommi con un’aria la più scipita del mondo: ma ne ignorai la cagione, finchè non so chi graziosamente mi rendè instruito, che Flimnap, e Bolgolam, rappresentate aveano le mie aderenze cogli Ambasciadori di Blefuscu, come indizj manifesti delle malvage mie intenzioni. E fu allora solamente che cominciai, per la prima volta, a formarmi qualche idea delle Corti, e de’cattivi Ministri.

E’necessario d’osservare, che quegli Ambasciadori non mi parlavano che pel mezzo d’un Interprete; differendo l’un dall’altro i linguaggj de’due Imperj, come due idiomi in Europa differir possono: glorificandosi, cadauna di quelle Nazioni, dell’antichità, della vaghezza, e dell’energia di sua propria lingua, con uno spregio dichiarato per quella dell’imperio confinante. Con tutto ciò; come l’Imperadore di Lilliput godea d’un riguardevole vantaggio sopra i Blefuscuani, essendosi lui impadronito della parte migliore della loro Armata, obbligò gli Ambasciadori a non parlargli che in Lillipuziano; e ricever non volle le loro Credenziali, se scritte non fossero in questa Lingua. Nel che non fi dee negare che egli non avesse somma ragione: comechè d’altra parte, il Commerzio, che in ogni tempo si era praticato fra’due Imperj; l’asilo, che i malcontenti d’una delle Corti rinvenivano sempre nell’altra; ed il costume scambievole di mandar nell’Imperio vicino tutti i giovani di qualità affine di pulirsi con la conversazione degli Stranieri, renduto avessero l’uso de’due linguaggj assai comune in entrambi gli Dominj; come lo sperimentai alcune settimane dopo, quando fui a tributare i miei doveri all’Imperadore di Blesuscu: e fu questo viaggio, che la malizia de’miei nemici mi sforzò d’intraprendere, quello il quale mi esibì l’opportunità di riguadagnare la mia Patria, come a suo luogo racconterò.

Rammentasi forse il Leggitore, che allor quando soscrissi alle Condizioni, colle quali mi fu accordata la libertà, ve ne avea che troppo non mi gustavano, perchè a mio riguardo erano troppo vili. Ma immediate che creaco fui Nardac, lasciarono d’obbligarmi, e l’Imperadore, (e in questo convien fargli la dovuta giustizia) non me n’ha mai battuto becco. Nulla di meno poco tempo dopo mi si presentò l’occasione di rendere a Sua Maestà, a quel che per lo meno m’immaginava, un segnalatissimo servigio. Nel più profondo d’una tal qual notte fui risvegliato da’grid i d’un infinito numero di persone, che ad ogni instante ripetevano il termine Burglum. Molti domestici dell’Imperadore penetrarono la calca per pregarmi d’essere immediate alla Regia, ove per la trascuratezza d’una Damigella d’onore, che in leggendo un Romanzo si era addormentata, stavasene in fuoco l’Appartamento dell’Imperadrice. Fui in piedi in un momento, e comandatosi che anima vivente non attraversasse i miei passi; col benefizio d’un bel chiaro di Luna, feci in modo che guadagnai il Palazzo senza aver posto piede su creatura umana. Trovai molti uomini che aveano di già presentate delle scale all’Appartamento, e che tenevano alla mano una quantità di secchie di cuojo; ma l’acqua n’era discosta. Erano quelle secchie della grandezza d’un ditale da cucire. I poveri uomini me ne riposero in mano il più che loro fu possibile; ma a cagion della violenza della fiamma; poco valsero. Avrei potuto con facilità smorzare il fuoco col mio vestito; ma per disgrazia, la fretta di correre al soccorso, me l’avea fatto lasciar addietro. A prima giunta non vi scorgeva io rimedio di sorta, e l’incendio divorato avrebbe, senz’altro, quel magnifico Palagio, se, per una prontezza di spirito, che confesso non essermi troppo ordinaria, avvertito non mi fossi d’un espediente maraviglioso. La sera avanti aveva io copiosamente bevuto d’un saporitissimo vino, che essi chiamano Glimigrim, (i Blefuscuani, Flunec,) il quale all’estremo è diuretico. Per la massima delle buone fortune, non ne aveva io per anche renduta goccia. Il calore che la prossimità delle fiamme cagionato mi avea, gli sforzi da me impiegati per estinguerle, e la qualità del bevuto vino, pareva si fossero riuniti per eccitarmi ad orinare; il che feci in copia tale, e con tanta desterità, per rapporto a’luoghi che presi io avea di mira, che in tre minuti il fuoco onnina mensmorzossi, e il rimanente del superbo Edifizio, onde la struttura costati aveva tanti secoli, felicemente si conservò.

Cominciava ad albeggiare il giorno, quando fui di ritorno al mio domicilio, senza aver praticati i dovuti complimenti di congratulazione con l’Imperadore; poichè, non ostante che gli avessi prestato un servigio importantissimo, non era io accertato che ei si fosse compiaciuto del modo: essendo che, per Legge fondamentale dell’lmperio, è un delitto capitale l’orinare nel ricinto del Palagio, e ciò senza distinzione nè di grado, nè di nascimento. Ma alquanto respirai, a vendo avuta il Monarca la bontà di farmi intendere, che avrebbe egli rilasciato un ordine perchè io fossi provveduto di Patenti di suppressione, che tuttavia non ho mai ottenute. E fummi detto sotto sigillo di segretezza, che l’Imperadrice avea conceputo un tal orrore per ciò che io operato avea, che si era ella ritirata nell’altro angolo del Palagio, con ferma risoluzione che in verun tempo non si sarebbe riparato in uso di lei, l’Appartamento danneggiato dal fuoco, Si aggiunse, ch’ella eziandio pensava di vendicarsi di me; ma che a’soli suoi più intimi confidenti, comunicato aveva il suo disegno.

CAPITOLO VI.

Scienze, Leggi, e Costumanze degli Abitanti di Lilliput. Maniera di allevare i loro Figliuoli. Un qual modo vivesse in quel Paese l’Autore. Giustificazione d’una delle principali Dame della Corte.

TUtto che io serba a un particolare Trattato la descrizione di quell’Imperio, non lasciero nulla di meno di offrirne qualche generale idea a’miei Leggitori. La statura de’naturali del Paese non è affatto affatto di sei pollici: e la proporzione medesima di piccolezza ha luogo, rispetto agli altri animali tutti, del pari che agli alberi ed alle piante. Per esempio: i Cavalli ed i Buoi più grandi che io abbia veduti, più alti non erano di quattro o cinque pollici; ed i Castrati, d’un pollice e mezzo, poco più, poco meno. Le lor Oche sono della grandezza delle nostre Allodole; e così del resto perfino a’loro animali più minuti, che scappavano a’miei sguardi; ma la Natura ha proporzionati gli occhj de’Lilliputziani agli oggetti ond’ella gli ha circondati. E’acutissima la loro vista, ma non troppo si allunga: e per ispiegare con qual esatezza ravvisan eglino le più piccole cose, purchè non ne sieno lontani, vidi un giorno, con piacere sensibilissimo, un Cuciniere spiumando un’Allodola, che era più piccola d’una Mosca ordinaria d’Europa; e una donzella passando un filo invisibile di seta, pel buco d’un’aguglia altresì invisibile. Sette piedi d’altezza anno i lor alberi più eminenti; voglio dire, que’del gran Parco Reale; alla cui sommità poteva io arrivar per appunto col pugno chiuso. Trovansi nella proporzione medesima gli altri vegetabili: ma è d’uopo che anche il Leggitore s’immagini qualche cosa.

Parlerò ora qualche poco delle Scienze, che da molti Secoli presso loro fioriscono. E’singolarissimo il loro modo di scrivere; non già dalla sinistra alla destra, come fanno gli Europei; nè della destra alla sinistra, come gli Arabi; nè dall’alto al basso, come i Chinesi; nè dal basso all’alto, come i Cascajani; ma in traverso, da un angolo all’altro, come le Dame in Inhgilterra.

Seppelliscono i loro morti co’piedi in alto, e la testa al basso, essendo opinione invalsa, che in undici mila Lune tutti risorgeranno; che in questo frattempo, la Terra (che essi credono essere una superficie tutta piana,) si rivolgera sossopra, e che per tal mezzo, al tempo della Risurrezione, tutti si troveranno in piedi. Confessano pero i loro Saggj, che è assurda cotale Dottrina, ma il costume è sempre il medesimo, per compiacenza del Volgo.

Avvi in quell’Imperio alcune Leggi d’un genere assai singolare, onde io patirei la tentazione di farne l’Apologia, se direttamente a quelle della prediletta mia Patria non contrariassero. Risguarda i Querelanti la prima, di cui ne faro menzione. Col più severo rigore si puniscono tutti i delitti di Stato; ma se la persona accusata produce chiare pruove della propria innocenza, a una morte ignominosa è condannato l’Accusatore, e i suoi beni servono a risarcire l’imputato del perdimento di tempo di lui, del risico che egli ha corso, de’disagj del carcere, e delle spese fatte per la propia difesa: Che se non bastano gli averi del Dinunziante, ha la cura di supplirvi l’Imperadore. Sua Maestà eziandio concede al giustificato qualche sonoro contrassegno di favore; e con pubblico Bando; dell’innocenza di lui tutta la Città n’è instruita.

Appo que’Popoli è spacciata la frode come un misfatto, più enorme del furto, e perciò, quasi sempre, ella è punita con pena capitale. Mercè che mi dicevano alcuni, con un poco di accortezza, e di lume di ragione, può l’uomo guardarsi dalle ruberie; ma infinitamente è più difficile il guarentirsi dagl’inganni: e come il Commerzio è un de’principali vincoli della Società: se premessa fosse, o tollerata la frode, un Mercatante guidone sempre avrebbe un gran vantaggio sul galantuomo. Ricordomi che un giorno intercedei presso Sua Imperial Maestà, a favore d’un criminoso, il quale avea asportata al suo Padrone una gran somma di danajo, che egli ricevuta avea per ordine di lui. Per minorare il suo mancamento, mi avvertj di dire, che tutto il suo male consisteva nell’aver abusato della fidanza del Padrone: ma l’Imperadore trovò essere una mia mostruosita, allegare per difesa l’aggravio medesimo del delitto, e negar non posso che mi vidi alle strette di ricorrere, per soddisfattoria risposta, al comune passo: che ogni Nazione ha le sue usanze: e tuttavia non potei allegarlo senza arrossirne.

Comechè per ordinario noi chiamiamo ricompensa e gastigo, i due massimi perni onde aggirasi tutto il Governo, confesso che i Lillipuziani sono il solo Popolo, appo cui io abbia veduta in uso una tale instituzione. Chiunque può dar pruove di aver esattamente osservate la Leggi del suo Paese per lo spazio di settanta e tre Lune, ha il diritto di certi Privilegj a misura della propia qualità, e del propio stato; e riceve una tal qual somma di danajo a proporzione. Resta egli altresì onorato col titolo di Snilpall; che disegna la fedeltà, con la quale ha egli osservate le Leggi; ma questo titolo alla posterità di lui non discende. Risguarda quella Nazione come un prodigioso difetto fra di noi, che l’osservanza delle Leggi, dalle sole punizioni, senza ricompensa di sorta, sia sostenuta. E per questa ragione nelle Corti di Giustizia di quell’Imperio, è dipinta con sei occhj dinanzi questa Divinità, con altrettanti al di dietro, e con uno per ciascun lato, per rappresentare la sua circonspezione: e con un sacco riempiuto d’oro nella sua destra mano; e nella sinistra una spada nel fodero, per dimostrare che ella più inclina a’premj, che a’gastighi.

Nella scelta che fan que’Popoli delle persone destinate a qualunque impiego, più badano alla virtù, che all’abilità; mercè che, poichè è necessario che fra gli uomini vi abbia un Governo; credon essi che una ordinaria misura d’intelligenza sia sufficente per supplirvi; e che non fu mai intenzione della Provvidenza, che l’amministrazione de’Pubblici affari fosse un enigma, il cui termine, essere non potesse indovinato che da un picciol numero di persone d’un genio superiore, che cadaun secolo, una, o due ne produce appena: ma suppongono che ogni uomo ha la potestà d’astenersi dalla menzogna, e di praticar gli obblighi, che gli sono perscritti. Or la pratica di questi obblighi, di con essi, fiancheggiata da un poco di esperienza, e da una somma dritta intenzione, renderà qualunque uomo capace di servire al proprio Paese, purché quel solo picciol numero d’impieghi se n’esenti, che dello studio ricercano. Ma, essi aggiungono, sì poco è vero che da talenti superiori possa essere supplito un difetto di virtù, che, pel contrario, non possono mai i grand’impieghi cader in mani più pericolose, quanto in quelle d’uno scellerato di abilità; perchè inclinato a far del male, possiede tutta l’autorità, e tutta la necessaria industria per rendere soddisfatto un prurito sì abbominevole.

An eglino un’altra assai riguardevole Legge; ed è questa, di non ammettere a runa Pubblica Carica coloro che ni egano una Provvidenza: imperocchè; se protestano i Principi d’essere della Provvidenza i soli Luogotenenti; i Lillipuziani dicono, che è una cosa la più assurda del mondo per un Principe, l’impiegar uomini che non confessano quell’autorità medesima, sotto cui egli opera.

In riferendo tutte queste Leggi, io non parlo che delle Instituzioni primitive; non potendosi, per altro negare, che da molti anni in qua estremamente quel Popolo degenerato non abbia. Per esempio; la costumanza infame d’elevarsi ad eminenti Cariche, e d’essere onorato co’più luminosi caratteri di distinzione, per essersi esercitato a ben danzare sopra la corda, a saltare al di sopra del bastone, e al guizzarvisi pel di sotto, non si era introdotta che dall’Avolo dell’Imperadore Regnante; e non era pervenuta al segno onde io la vidi, che per le fazioni che lo Stato laceravano, e che tutte a segnalarsi con la più vile delle destrezze, andavano in traccia.

E’fra loro l’ingratitudine un delitto capitale; provando essi con la Ragione, che ogni uomo, che mal corrisponde col suo Benefattore, deesi per necessità riputare come l’inimico del Genere umano in generale, onde questi ricevuta non ha veruna beneficenza, e che per conseguenza quegli è indegno di vivere.

Eccessivamente dalle nostre differiscono le lor cognizioni in proposito agli obblighi de’Genitori, e de’Figliuoli. Come la congiunzione del maschio con la femmina è fondata sopra una inclinazione stabilita dalla Natura per la propagazione di tutte le spezie, pretendono i Lillipuziani che l’Uomo e la Donna sien portati l’un verso l’altro, come il rimanente degli Animali, per motivi di concupiscenza, e che la tenerezza loro pe’propj figliuoli, abbia pur la sua origine da una Legge della Natura: per questa ragione son eglino persuasi, che un Figliuolo non è obbligato a veruna riconoscenza verso suo Padre, per averlo generato; nè verso la Madre per averlo messo al mondo: il che, avutasi riflessione alle miserie dell’umana vita, non è in se medesimo nè una beneficenza, nè conferito come tale da’Genitori, che allora a tutto altro pensavano. Somiglianti ragionamenti, ed alcuni altri della medesima spezie, egli anno determinati a non affidare a’Padri l’educazione de’loro Figliuoli, bensì a stabilire in cadauna Città pubblici Collegj, ove tutti i Genitori, eccettuatine i soli Borghigiani, e i Campajuoli, sono obbligati di mandare i propj Figli d’entrambi i sessi, immediate che toccano l’età di venti Lune; supponendosi che allora cominciano ad essere idonei all’instruzione. Cotali Scuole sono di differenti generi, secondo la differente qualità de’fanciulli. Sono incaricati molti abilissimi Professori di allevargli secondo la condizione de’loro Padri; ed eziandio secondo il propio lor genio, e le proprie loro inclinazioni. Dirò ora qualche cosa de’Collegj de’Giovani; e in progresso, di que’che alle Donzelle son destinati.

Di dotti Professori, e d’esperti Sotto-Maestri, son provveduti i Collegj de’Ciovani d’un illustre nascimento; e i vestiti, e la natritura di questi, son semplicissimi. Inculcansi loro de’principj d’onore, di giustizia, di coraggio, di modestia, di clemenza, di Religione, e d’amor per la Patria. Si tengono sempre occupati in qualche cosa; se si eccettua il tempo, da essi impiegato ne’loro pasti, e nel dormire; ed ancora è molto brieve questo tempo. Due ore per cadaun giorno son destinate pei loro passatempi, i quali in esercizj di corpo consistono. Per fino all’età di quattr’anni, altrui gli veste, ma poscia son tenuti a vestirsi essi medesimi, per quanto eminente possa essere il loro carattere. Non anno la permissione d’addomesticarsi con servidori; ma fra essi soli si trastullano, e sempre in presenza d’un Professore, o di qualche Sotto Maestro; il che gli tien guardati da quelle impressioni di sciocchezza, e di vanità, cui soggiacciono i nostri Figliuoli. Due sole volte all’anno ammettonsi i loro Padri a vedergli, e la visita non eccede lo spazio d’un ora. Si accorda loro uno scambievole abbracciamento nell’entrare, e nell’uscire; ma il Professore, che in simili occasioni non manca mai di sua presenza, non foffre che il Padre parli all’orecchio del figliuolo; che gli attesti una sciocca tenerezza, o il regali di confetti, od altre golosità. Se la pensione pel mantenimento, e per la nutritura di qualche ragazzo non è sufficientemente corrisposta, sonovi Imperiali Uffiziali che costringono al necessario esborso.

I Collegj pe’Figliuoli di persone di minor carattere, come di Mercatanti, d’Artisti, e d’altri, son regolati nella proporzione medesima. I destinati a qualche mestiere, son messi in pratica in età d’anni undici; laddove gli altri, che appartengono a Signori di distinzione, se ne restano ne’lor Collegj perfino a’quindici; il che, presso noi, riviene a venti e un anno: Ma nel frattempo degli anni tre ultimi, si diminuisce a grado a grado il loro sugettamento.

Ne’Collegj delle Donzelle, sono allevate le Giovinette a un dì presso come i Ragazzi, con la sola differenza, che son elleno abbigliate da persone del loro sesso, ma sempre alla presenza d’un Professore, o d’un Sotto-Maestro, finchè sieno pervenute all’età di cinque anni; al qual tempo sono obbligate ad obbgliarsi da se medesime. Che se le Governatrici loro restano convinte di aver lor raccontate novelle di Sogni, d’Apparizioni, e d’altre somiglianti impertinenze, onde in Europa le fantesche nostre son solite di guastare l’immaginazion de’figliuoli, son elleno per ben tre volte scopate in pubblico, imprigionate per un anno, e mandate in perpetuo esilio nella parte più disabitata di tutto l’Imperio. Quindi ne deriva, che le Giovinette, del pari che gli stessi uomini, d’essere scioccamente paurose arrossiscono. Avvi un’altra differenza fra l’educazione di questi, e di quelle; cioè, che gli esercizj delle Donzelle non sono così violenti; che prescrivonsi loro alcune regole sopra l’economico governo; e che non avanzano come i Giovani i loro studj, comechè per altro sieno obbligate d’applicarsi a delle scienze; onde le nostre Dame d’Europa non ne posseggono inferior idea. Essendo che egli è massima di quella Nazione, che fra persone ragionevoli, una Donna esser dee sempre una compagna ragionevole, e ornata di graziosità, giacchè la giovinezza sempre in lei non può fiorire. Toccati che abbiano le Vergini gli anni dodici, (età che è nubile presso que’Popoli,) i Parenti loro, o i lor Tutori le ritirano in propria casa dopo di aver adempiuto ai più cordiali ringraziamenti co’Professori; e molto di rado avviene che la Giovinetta, separandosi dalle sue compagne, non versi delle lagrime.

Ne’Collegj delle Donzelle d’inferior grado, son esse ammaestrate in ogni sorta di lavori, al loro sesso convenevoli. Rimandansi all’età di nove anni quelle che son disegnate ad allevarsi in qualche mestiere, od esercizio; e perfino agli anni tredici si custodiscono le altre.

Le Famiglie de’Ragazzi che d’un ordine inferiore s’instruiscono in que’Collegj, oltre all’annuale pensione, che è leggerissima, sono tenute di corrispondere ogni mese all’Intendente della Casa, una parte di quanto elleno an guadagnato, perchè un giorno servir possa allo stabilimento de’Giovani, dovendosi riflettere che vi ha una Legge, la quale regola la pramatica del dispendio de’Parenti; mercè che, dicono i Lillipuziani, è cosa alquanto ingiusta, che persone plebee; Per rendere soddisfatto il propio capriccio, procreino una nidiata di figliuoli, che certamente per le sciocche spese de’loro Padri, non potranno un giorno non essere a carico del pubblico. Quanto alle persone riguardevoli, s’impegnan esse, che ciascuno de’loro figliuoli avrà una destinata somma proporzionata alla sua condizione; e talj vi sono, che an l’incarico di provvedere questi fondi; impegno, onde sempre con saggezza, e con la più esatta giustizia si sciolgono.

I Borghigiani, ed i Campajuoli, custodiscon in propia casa i loro Figli; poichè disegnati unicamente a coltivar la terra, non è di gran conseguenza al Pubblico la loro educazione; ma i Vecchj di loro, e gl’infermi, son curati, e nodriti negli Spedali, non sapendosi in quel Paese cosa sia il dimandare limosina.

Forse che quest’è il luogo che il Leggitore resti informato del metodo onde io vissuto sono in quella Regione, per lo spazio di nove mesi, e tredeci giorni di mio soggiorno. Quanto a’miei mobili, consistevan essi, principalmente, in una tavola, e in un sedile, che io stesso avea lavorato per uso proprio, servendomi de’maggiori alberi del Parco Reale. Dugento Cucitrici impiegate furono per farmi delle camiscie, e per cucire i pannilini del mio letto, e della mia mensa. Questa biancheria era della più grossa qualità: ma siccome a dispetto di tale circostanza, non avrei potuto prevalermene; così esse ebbero l’antivedimento di raddoppiarla molte volte, e oltracciò di trapugnerla, a guisa d’una sottana d’Europa. D’ordinario, tre pollici larghi sono i loro pannilini, e tre piedi formano la loro maggior tirata. Affinchè le Cucitrici potessero prendermi la misura, mi prostesi a terra; si mise l’una sopra il mio collo, e un’altra verso la metà della mia gamba; tenendo cadauna per l’estremità una fune, in tempo, che una terza misuravane la lunghezza con una spezie di braccio, lungo un grosso dito.

Dopo ciò, misurarono il mio pollice dritto, e tanto loro bastò; imperocchè con un calcolo di Matematica, avean elleno compinato che il giro del pollice, preso due volte, riveniva a quello del pugno; e che il giro del pugno due volte preso, corrispondeva a quello del collo; e finalmente che il replicato giro del collo, compone quello del mezzo. Per altro, non era necessario tutto questo calcolo, avendo io stesa a terra la vecchia mia camiscia per servir loro di modello; e dir deggio a loro gloria, che l’imitarono perfettamente bene. Dietro i miei vestiti faticarono trecento sarti, ma valevansi essi d’un altro metodo per prendermi la misura. Mi messi ginocchione; ed eglino inalberarono una scala, che dalla terra arrivava al mio collo, e montata da un di loro la scala medesima, perpendicolarmente ei lasciò cadere dal collo della camiscia perfino a terra una corda; il che appuntino riveniva alla lunghezza intera del mio vestito; ma il mezzo del corpo e le braccia, me gli misurai io medesimo. Compiuti che furono gli abiti miei, (dietro cui io feci travagliar i Sarti in mia Casa, perchè le loro potuto non avrebbono contenergli,) aveano gli abiti stessi, l’aria di quei lavori che le Dame Inglesi formano, cucendo insieme una infinita di differenti frusti; con tale varietà però, che i miei vestiti erano tutti d’un solo, e medesimo colore.

Da trecento cucinieri si apprestavano le mie vivande, stando essi alloggiati colle loro famiglie accosto della mia abitazione sotto tende, ove ognuno avea la cura d’imbandirmi due piatti. Era mio costume di prendere in mia mano una ventina di coloro che mi serviano in tavola, ed avevane più d’un centinajo che se ne restavano a terra, gli uni con piatti, ed altri con l’intera bottiglieria de’liquori. A misura che io bisognava di qualche cosa, i miei domestici, che erano sulla tavola, si valevano con grande artifizio d’una carrucola per ritraerla a se, presso poco come in Europa si traggon le secchie da un pozzo. Uno de’loro piatti conteneva una buona boccata; ed assai agevolmente, in un sol tratto, io mi traccannava una delle loro bottiglie di vino. Il loro Castrato non è sì buono che il nostro; ma in ricompensa è squisitissimo il loro Bove. Mi ricordo d’averne mangiato un taglio di coscia, che mi obbligò a tre boccate; ma ciò avviene di rado. Stranamente stupivano i miei servidori nel vedermi a mangiar le ossa, come facciamo nel nostro paese dell’ala dell’Allodola. Una delle lor Oche, o uno de’loro Galli d’Indie, non mi costava la pena che d’un sol boccone; e confessar deggio, che in fatto di dilicatezza, la vincono sopra i nostri, cotali sorte d’uccellami. Rispetto a’loro Uccelli d’alquanto minor mole, venti, o trenta, io potea metterne sulla punta del mio coltello.

Sua Imperial Maestà informata della mia maniera di vivere, volle un giorno aver la sorte (questi sono i termini di lei,) di pranzar meco. Venne ella accompagnata dalla illustre sua Famiglia: ed io ebbi l’attenzione di collocargli tutti in seggj d’appoggio sopra la mia tavola, rimpetto a me, colle loro Guardie che gli circondavano. Flimnap, il Gran Tesoriere, intervenne anche egli a un tal convito, e teneva in mano la sua bacchetta bianca. Osservai più d’una volta che ei mi guattava di mal occhio, ma senza manifestarne il menomo indizio; ed io in apparenza non mangiai che con più appetito, tanto per far onore alla mia cara Patria, che per riempiere la Corte di ammirazione. Persuasissimo io sono, che questa visita dell’Imperadore ha recata opportunità a Flimnap di rendermi cattivi uffizj presso il suo Padrone. Fu sempre questo Ministro, segreto mio nemico, comechè esteriormente praticassemi più cortesie, che sembrava non permettergliele il brusco suo temperamento. Rappresentò egli all’Imperadore, che il pubblico erario si trovava in istato pessimo, che egli era obbligato di prender a prestito del danajo a grosse usure; che i biglietti del Tesoro circolar non poteano che a nove per cento di perdita, che in pochissimo tempo io avea costato a Sua Maestà più d’un milione e mezzo di Sprugs, (che sono le loro più massicce monete d’oro della grandezza d’un tremolante;) e che, salvo un miglior parere, ei consigliava il Principe a licenziarmi a prima apertura.

Come io fui la cagione, tutto che innocente, che una Dama del primo ordine fosse assalita nel suo onore, innanzi che più stendermi, egli è forza che di giustificarla io procuri. Si era messo in capo il Tesoriere d’essere geloso della propia moglie; essendo che pessime lingue gli aveano rapportato che ella era impazzita di me, ed eziandio perchè alla Corte erasi sparsa voce, che ella una volta venuta fosse in mia casa. Io protesto solennemente che queste sono infamissime calunnie, onde la Sposa del Tesoriere non ha mai contribuito; non avendo io per tutta la mia vita ricevuto per parte di lei, che contrassegni d’amistà innocenti. Vero è bensì, che ella sovente mi visitava, ma sempre in pubblico, nè mai senza essere accompagnata da tre persone; che per ordinario erano sua Sorella, sua nipotina, ed alcuna delle sue amiche; ma ciò non era cosa speziale di lei sola; poichè molte altre Dame della Corte frequentemente venivano a ritrovarmi. Ed io me ne appello a tutti i miei domestici, se in ni un tempo an eglino veduta Carrozza alla mia porta, senza sapere chi fossero le persone che in essa vi stavano. In somiglianti occasioni, immediate che un servidore avea mi avvertito che alla mia porta trovavasi una Carrozza, il mio costume si era di calarvi in un instante, e dopo di aver salutato chi mi visitava, di prendere esattamente in mia mano la Carrozza, e i due Cavalli, (che se ve n’erano sei, l’Ajutante del Cocchiere distaccavane sempre quattro,) e di collocargli sopra la mia tavola, d’intorno a cui regnava una sponda di cinque pollici di altezza, per timore di qualche accidente. Mi è accaduto, non di rado, di aver quattro Cocchj in un sol tempo sopra la mia tavola, ed io starmene nel mio sedile divertendo la Compagnia. Più d’un dopo pranzo mi ricreai col maggior piacere del mondo in tal sorta di conversazione. Ma io ardisco sfidare il Tesoriere, e i suoi due Querelanti Clustril, e Drunlo, (ne pubblico il nome per isvergognarli,) perchè pruovino se ni uno sia mai venuto incognito in casa mia, all’eccezione del Segretario Keldresal, che non vi si portò se non per ordine espresso dell’Imperadore, come par mi di averlo raccontato. Insistito non avrei per sì lungo tempo sopra quest’articolo, se non vi si fosse interessato l’onore d’una gran Dama; per non dir niente di me medesimo; tutto che allora fossi Nardac; carattere di cui non è investito il gran Tesoriere stesso, sapendo ognuno che egli non è che Cumglum; titolo, che ha la proporzione medesima con quello onde io stava onorato, che l’ha il titolo di Marchese con quello di Duca in Inghilterra, comechè, per altro, per ragione dell’impiego suo, ei nel passo mi precedesse. Cotali callunie, che per un accidente che quì non è d’uopo di riferire, mi si sussurrarono alle orecchie, furono la cagione che Flimnap, per lo spazio di qualche tempo, scavasse la mina alla sua sposa, ma assai più a me; ed ancorchè alla fine siasi egli disingannato, e rappattumato si sia con esso lei non potè mai perdonarmela di avermi preso in sospetto contra ragione, e riuscivvi pure per farmi togliere la grazia dell’Imperadore, il quale, per dir vero, lasciavasi un po troppo reggere da questo Favorito.

CAPITOLO VII.

L’Autore; essendo informato che i suoi nemici intentavano d’accusarlo d’Alto-Tradimento, rifugge a Blefuscu. Maniera ond’egli vi è ricevuto.

INnanzi di narrare l’uscita mia di Lilliput, vuol il buon ordine che chi legge resti instruito de’motivi, che ad appigliarmi, e ad eseguire un tal disegno, la spinta mi diedero.

Tutto ciò che chiamasi Corte, era stato fin allora per me una Terra incognita; poichè la bassezza della mia condizione, non aveami permesso in verun tempo di frequentarne. Per vero dire, la conversazione, e la lettura, mi aveano impresse sinistre idee delle Corti stesse; ma creduto non avrei mai, che la propia mia esperienza dovesse un giorno rendermi convinto dell’aggiustatezza di queste idee, in un paese poi molto lontano, e governato, a quel che io ne pensava, con massime onninamente differenti da quelle che in Europa son del bell’uso.

In tempo che io mi allestiva pel Viaggio di Blefuscu affin d’umiliare i rispetti miei a quell’Imperadore, un Signor di Corte di grande stima, (a cui, in tempo ch’ei col Principe se la passava male, aveva io renduto un insignissimo servigio,) venne nottetempo alla mia casa in seggetta chiusa, e senza farmi avanzar il suo nome, chieder mi fece se forse ei non mi recherebbe disturbo. Licenziati i portatori, misi la seggetta, ed il Signore nella tasca del mio giubbone: e poscia a un servidore di mia confidenza dato ordine di dire ad ognuno che io indisposto stavamene dormendo, serrai a catenaccio la porta della mia casa, e mi messi ad attaccare conversazione con colui che praticavami una visita sì misteriosa.

Dopo i primi scambievoli complimenti, osservai in esso lui una grande inquietudine, e chiestone del motivo, pregommi di pazientemente ascoltarlo, giacchè trattavasi d’un suggetto, onde il mio onore, del pari che la mia vita s’interessava. Ècco in sostanza il discorso ch’ei mi tenne, di cui immediate, al licenziarsi di lui, n’estesi in carta i più importanti Articoli.

"Convien sappiate essersi a cagion vostra più volte assembiato il Consiglio con la più possibile segretezza, e che sono solo due giorni che Sua Maestà n’è venuta ad una finale deliberazione.

"Evvi noto che il Grande Ammiraglio Skyris Bolgolam, poco men che dal momento del vostro arrivo, fu sempre vostro mortal nemico. Non so quali esser possano i primi motivi dell’aversione di lui: ma egli è certissimo che ella di molto rinvigorì, dopo il felice successo della vostra impresa contra l’Armata di Blefuscu; perchè egli risente in buona coscienza, che con tutta sua Ammiralità, non ne fece in verun tempo altrettanto. Questo Signore, e Flimnap il gran Tesoriere, la cui  nemistà contro a voi, pel motivo della moglie di lui, e cognita a chi che sia; Limtoc il Generale, il Ciamberlano Lalcon, e Balmuff il gran Giustiziere, an piantato Articoli di accusa a vostro disfavore, e di convincervi di Alto-Tradimento, e di alcuni altri capitali delitti essi presumono."

Persuaso che io era della propia mia innocenza, rendemmi così impaziente un tal esordio, che stetti sul punto d’interrompere quegli che mi annunziava novità così strane: ma ei mi pregò di lasciargli proseguire il discorso; il che fece ne’seguenti termini.

"In riconoscimento della buona amicizia che mi testimoniaste, feci in modo di restar instruito di tutta la loro cospirazione, e di aver copia degli Articoli d’accusa; il che non men che la testa mi varrebbe, se discoprir si potesse."

Articoli d’accusa contro a Quinbus-Flestrin, (l’Uomo-Montagna.)

ARTICOLO I.

TUtto che per una Legge creata sotto il Regno di Sua Imperial Maestà Calin Deffar Plune, sia ordinato: Che chiunque piscerà nel ricinto del Palagio Imperiale, sarà riputato come reo di Alto Tradimento: Se per tanto, il mentovato Quinbus-Flestrin, in manifesto infragnimento della suddetta Legge, sotto pretesto di estinguere il fuoco che si era appicciato all’Appartamento dell’Imperadrice, maliziosamente, traditoriamente, e diabolicamente ha estinto il detto fuoco nell’Appartamento summenzionato, situato nel ricinto del suddetto Palaggio, contra la Legge testè allegata, contra il dovere di lui ec.

ARTICOLO II.

IL suddetto Quinbus-Flestrin condotta avendo l’Imperial Flotta di Blefuscu al Porto Imperiale di Lilliput; ed avendo di poi ricevuto ordine da Sua Imperial Maestà di rendersi padrone degli altri Vascelli tutti del detto Imperio di Blefuscu, di ridurre l’Imperio stesso in Provincia per essere da me innanzi governato da un Vicerè; e di sterminare, non solo tutti i Partigiani dell’antico rito di rompere le vova rifuggiti in quel Paese, ma eziandio tutti gli Abitanti di quell’Imperio che sul fatto stesso abjurar non volessero una eresia si orribile; come un traditore che lui è, ha richiesto di essere dispensato dal rendere i servigj suddetti, col ridicolo pretesto di non voler costrignere le coscienze, nè mettere a morte, o ridurre in ischiavitù un Popolo libero.

ARTICOLO III.

QUando gli Ambasciadori di Blefuscu son venuti ad implorar la pace da Sua Maestà, manifestò il detto Flestrin, che lui era un traditore, interessandosi a favore degli Ambasciadori sudetti, e tenendogli ricreati; non ostante che ben sapesse, che eglino a un Principe appartenessero, il quale poco prima era stato apertamente in guerra contra di Sua Maestà.

ARTICOLO IV.

ALlestiscesi il suddetto Quinbus-Flestrin (il che direttamente è contrario all’obbligo d’un fedele Suggetto,) ad imprendere un Viaggio alla Corte di Blefuscu, tutto che sua Imperial Maestà non gliene abbia accordata la permissione che in voce; e sotto pretesto della detta permissione, ei divisa di fare il Viaggio suddetto, affin di dar mano all’Imperador di Blefuscu, il quale di fresco è stato in guerra con la suddetta Maestà Imperiale.

"Vi sono alcuni altri Articoli; ma questi onde l’estratto or ora vi ho letto: sono i più importanti.

"Negar non si può che ne’differenti contrasti che si suscitarono nell’incontro di tutti questi capi d’accusa, Sua Maestà non abbia manifestati contrassegni d’una grandissima clemenza; che ella sovente allegati non abbia i vostri servigj, e procurato di estenuare le vostre reità. Acremente insisterono il Tesoriere, e l’Ammiraglio che soffrirvi si facesse una morte crudele, ed ignominiosa, in appicciando il fuoco alla vostra casa; e che allor quando voi ne sortiste stessevi in aguato il Generale alla testa di venti mila uomini, che sarebbero comandati di ferirvi in faccia, e nelle mani coti saette venenate. Alcuni pure de’vostri domestici dovean ricevere un ordine segreto di strofinare le camiscie vostre con un tal qual sugo attossicato; il che in pochi istantivi avrebbe cagionata una spaventevole ma insieme tormentosa morte. Appigliossi a un tal consiglio il Generale; cosicchè per molto tempo vi ebbe pluralità di voci contra de’voi. Ma risoluta Sua Maestà, se mai si può, di conservarvi la vita, ha staccato il Ciambellano dal partito de’vostri nemici.

"Nel forte di cotali maneggi, Keldresal, Primo Segretario de’segreti affari, il quale veramente si è sempre manifestato vostro Amico, ebbe ordine dall’Imperadore di produrre il proprio sentimento: il che egli fece in un modo il più adattato a confermarvi nell’opinione avvantaggiosa che avete di lui. Ei confessò che erano grandi i vostri delitti; ma che non ostante aveavi luogo per la clemenza, la più bella di tutte le virtù che un Principe adornano; e che da Sua Maestà in un grado così eminente era posseduta. Disse, che era sì nota ad ognuno l’amicizia che regnava tra esso lui, e voi che forse il Consesso Augusto, innanzi a cui ei perorava, lo spaccerebbe in colpevole di parzialità: che con tutto questo, per ubbidire a Sua Maestà Imperiale, direbbe con libertà il proprio parere: Che Sua Maestà, in considerazione de’vostri servigj, e per soddisfare al proprio genio inclinato alla clemenza, avesse la bontà di conservarvi la vita, e comandasse che solo vi si cavassero i due occhj, sembravagli che con un tale espediente, sarebbe in qualche modo appagata la Giustizia, e che l’Universo tutto esalterebbe perfino alle Stelle l’Imperiale misericordia, ed altresì la generosità, e la dolcezza di que’che gustavano dell’onore d’essere suoi Consiglieri: Che la perdita de’vostri occhj nulla vi toglierebbe delle vostre forze, che potreste, non ostante, impiegare a favore di Sua Maestà: Che un coraggio cieco non può non essere più grande, perchè non iscorge verun pericolo: Che il timore che avevate per gli occhi vostri, era stata l’unica difficoltà nella vostra intrapresa contra la nemica Armata; e che dovea bastarvi di vedere per gli occhi de’Ministri. 

"Fu altamente rigettato da tutto il Consiglio un tal sentimento. Bolgolam, l’Ammiraglio, non potè contenersi; ma tutto in furia disse: Che stranamente egli stupiva con quale fronte osasse il Segretario di persuadere la conservazion della vita d’un traditore: Che i servigj da voi prestati, per giudizio di tutti gli conoscitori delle Ragioni di Stato, erano l’aggravio medesimo de’vostri delitti: Che voi, che eravate capace, in pisciando, di smorzare il fuoco sopra l’Appartamento dell’lmperadrice, (attentato, che egli nol potea rammemorare senza raccapricciarsi,) potevate, un giorno, cagionare col medesimo mezzo un allagamento, e affogare tutti que’che si trovassero nel Palagio. Aggiunse: Che le forze stesse, con cui v’impadroniste della Flotta nemica, servir potrebbono in un primo vostro disgusto, per ricondurla a Blefuscu: Che valide ragioni gli facean credere che nel fondo del vostro cuore nodriste una criminosa inclinazione all’eretico stile di rompere le vova; e che siccome il tradimento annidasi nel cuore prima di scoppiar colle azioni, così egli vi denunziava come traditore, ed instava che foste fatto morire.

"Uniformossi all’opinione di lui il Tesoriere, e rimostrò che era impossibile che l’Erario di Sua Maestà bastar potesse pel dispendio del vostro mantenimento: Che tanto era lontano che l’espediente di cavarvi gli occhj, proposto dal Segretario, fosse un rimedio al male che si temeva, che pel contrario, secondo tutte le apparenze, non servirebbe che ad aumentarlo, come ciò provasi con l’esempio di certi Uccelli, i quali, tolta che si è lor la vista, più ingrandiscono, e più s’ingrassano: Che Sua Sacra Maestà, e tutto il Consiglio, che erano vostri Giudici, stavano, in loro coscienza, pienamente persuasi che  avevate meritata la morte; il che era sufficiente per condanarvi, quando anche contra di voi non ispiccassero quelle pruove che dimanda il precioso della Legge.

"Sua Maestà Imperiale essendo assolutamente portata a salvarvi la vita, ebbe la bontà di dire: Che poichè il Consiglio avea deciso che la perdita de’vostri occhj fosse una punizione assai leggiera, protrebbesi nel progresso farvene soffrire qualche altra. E l’amico vostro, il Segretario, chiedendo efficacemente di essere udito in proposito all’obbiezione del Tesoriere, che il vostro mantenimento fosse un eccessivo aggravio per sua Maestà, disse: Che l’Eccellenza Sua, per le cui mani passavano tutte le rendite Imperiali, agevolmente a una tale inconvenienza provveder potea, col diminuire a poco a poco la pietanza assegnatavi: Che mancandovi la nutritura, vi afievolireste di giorno in giorno, e senza altro in pochi mesi vi morreste di digiuno: Che essendo smagrato, e smunto per metà il vostro corpo, più tanto a temersi non sarebbe il puzzo del vostro cadavere, e che immediate dopo la vostra morte, cinque o sei mila Sudditi di Sua Maestà, potrebbono in due, o tre giorni, scarificar le vostre ossa, ed interrarne il carname in diversi luoghi, affine di prevenire qualunque infezione, lasciando lo scheletro, come un monumento di ammirazione per la posterità.

"In questo modo, per la strettissima amicizia del Segretario, ebbero felicemente fine tutte queste discussioni. Espressissimamente si proibì di rivelar il progetto di farvi morire a grado a grado; ma si estese ne’Registri la sola sentenza di cavarvi gli occhj. Non vi ebbe che l’Ammiraglio, il quale trovasse che voi foste trattato con troppa umanità, e che volesse a tutto costo la vostra morte senza ritardamento. Venivagli inspirato questo furore dall’Imperatrice, che non ha mai potuto perdonarvi l’indecente, ed irregolare metodo, onde estingueste il fuoco appiedatosi all’Appartamento di lei. Da quì a tre giorni, il vostro Amico, il Segretario, verrà a visitarvi per leggervi gli Articoli d’accusa intentata contra di voi: vi notificherà poscia la bontà statavi praticata da Sua Maestà Imperiale, e dal Consiglio, di non condannarvi che a perdere solamente gli occhj; sentenza soavissima, a cui il Monarca non dubita che non siate per soscrivere con riconoscimento: E perchè sia ben fatta l’operazione, saran presenti venti Chirurgi di Sua Maestà, quando vi si scoccheranno appuntate saette nelle pupille.

"Io lascio alla vostra prudenza di prendere le più adattate misure sopra ciò che vi ho riferito. Quanto a me, affin di togliere qualunque sospetto, con la maggior segretezza mi ritiro."

Ei lo fece, e abbandonommi in preda a’più crudeli agitamenti. Era un costume introdotto da quel Principe, e dal Ministero di lui, (costume, che seppi accertatamente non essere stato messo in uso che in quel tempo,) che quando la Corte avea il disegno di praticare qualche barbara esecuzione, fosse, che la vittima immolata esser dovesse al risentimento dell’Imperadore, o all’odio d’un Favorito, il Principe perorava al suo Consiglio, allargandosi sopra la propia bontà, e sopra la propria clemenza, come sopra due caratteri già noti a tutto il Mondo. Dopo d’essersi pronunziato, s’imprimeva immediatamente il discorso, e si spargeva subito per tutto l’Imperio. Non ispaventavasi mai tanto il Popolo, se non quando riceveva tali sorte di prove della benignità dell’Imperadore; imperocchè si avea riflettuto, che a proporzione che si era più esaltata la clemenza di lui, altrettanto il supplizio era inumano, e maggiore l’innocenza del condannato: E per quello spetta a me, ingenuamente confesso, che non essendo io destinato ad essere uomo di Corte, ne pel mio nascimento, nè per la mia educazione, io era un giudice così inesperto, che ravvisar non sapeva nella sentenza grazia di sorta; ma che pel contrario, sembravami, anzi che mite, rigorosissima la sentenza medesima. Io volea talvolta difendere la mia innocenza; mercè che, tutto che negar non potessi gli fatti prodottisi contra di me, non ostante egli era infallibile che nella mia condotta non aveavi veruna reità, e che perciò avrei potuto, come già il divisava, rimettermene alla decisione de’Giudici. Ma scappommi ben presto una tal vaghezza, da che richiami alla memoria la possanza de’miei nemici, e la corruttela delle giudicazioni. Mi trovai un giorno&nbnbsp;terribilmente tentato di mettermi in difesa; giacchè in tempo di mia libertà, nulla potuto avrebbono contro a me le forze tutte dell’Imperio, e mi sarebbe riuscito assai agevole di distruggere, a colpi di pietra, tutta la Capitale: ma con prontezza rigettai, non senza orrore, un tal progetto, rammentandomi il giuramento impegnato all’Imperadore, le grazie che io ne avea ricevute, e il titolo di Nardac, onde egli aveami onorato. Non aveva io bastevolmente appreso il sistema di gratitudine de’Cortigiani, per credere che l’ingiustizia, che s’intentava di praticarmi, rendesse soddisfatte tutte le obbligazioni che io doveva all’Imperadore.

Presi finalmente una risoluzione che forse da taluni sarà biasimata, e per quello ne penso non contra ragione; dovendo io confessare d’essere debitore della conservazione de’miei occhj, e per conseguenza di quella della mia libertà, alla mia precipitazione, e al mio poco di esperienza; perchè se allora conosciuto avessi il genio delle Corti, come il feci dappoi, e altresì la condotta loro a riguardo di criminosi che lo erano molto meno di me, volentieri mi sarei suggettato a sì facile punizione. Ma trasportato dal fuoco della giovinezza; e a vendo, d’altra parte, la permissione di andar ad umiliar i miei ossequj all’Imperador di Blefuscu; innanzi che se ne spirassero i tre giorni, tener feci una lettera all’amico mio Segretario, in cui io gli esponeva il mio disegno di partir per Blefuscu la mattina medesima; e senza attenderne la risposta fui al luogo dell’Isola, ove stava sull’ancora la nostra Armata. Preso un de’maggiori Vascelli di guerra, gli legai alla prua una fune, e levati i ferri, mi spogliai, e misi i miei vestiti (colla coltre ch’ebbi attenzione di portar meco,) nel Vascello, e strascinandolo dietro di me, in parte camminando, e in parte a nuoto, pervenni al Reale porto di Blefuscu, ove il Popolo mi attendeva da lungo tempo; e furonmi assegnate due guide per condurmi alla Capitale, che ha il nome medesimo. Perfino alla distanza di dugento verghe dalla Città portai le guide nelle mie mani, e allora le riposi a terra, pregandole di notificar il mio arrivo ad uno de’Segretarj, e dirgli ove io mi trovava, e che mia intenzione si era di attendervi gli ordini di Sua Maestà. Un’ora dopo n’ebbi in risposta, che Sua Maestà, tutta l’imperiale Famiglia, e i primarj Signori della Corte, uscivano ad incontrarmi. A tal nuova, mi avanzai un centinajo di verghe; ed appena fui a portata d’essere ravvisato, che l’Imperadore, e tutto il suo seguito; discesero di cavallo, e l’Imperadrice, e tutte le sue Dame, uscirono delle loro Carrozze, senza che nè pur una di quelle persone desse indizio di spavento in vedendomi. Mi corcai a terra per baciar la mano dell’Imperadore, quella dell’Imperadrice. Dissi a Sua Maestà, che io là mi trovava secondo la promessa, e con la permissione dell’Imperador mio Signore, per aver la gloria di ammirare un sì potente Monarca, e affine di prestargli quel serviggio ond’era capace la mia abilità, e che la fede dovuta al mio Sovrano concedere mi poteva; ma profondamente me ne tacqui sul proposito della mia disgrazia; poichè statone io instruito in segretezza, poteva supporre di nulla saperne: e oltracciò, non poteva immaginarmi che l’Imperadore avesse l’imprudenza di discoprirne l’arcano, giacchè io più non mi trovava nelle sue mani: nel che tuttavia restai deluso, come il dirò ben presto.

Io non istancherò il leggitore sopra la relazione distinta del mio ricevimento, che fu proporzionato alla magnificenza di sì gran Principe; nè sopra l’imbroglio in cui mi rinvenni, per non aver nè abitazione, nè letto, essendo costretto di dormir a terra, involto nella mia Coltra.

CAPITOLO VIII.

Per una singolar buona sorte, presentasi all’Autore il modo di lasciare Blefuscu, e dopo di aver superate alcune difficoltà, sano a salvo alta sua Patria ei ritorna.

TRE giorni dopo il mio arrivo, standone passeggiando alla parte Settentrionale dell’Isola, osservai nel mare, in distanza, poco più, o meno, di mezza lega, qualche cosa che avea l’aria d’un schifo roversciato sossopra. Mi tolsi le scarpe, e le calze, e avanzando nell’acqua dugento, o trecento verghe, vidi l’oggetto che la marea continuava di gettar alla spiaggia, e allora chiaramente distinsi uno schifo; il quale secondo le apparenze tutte, erasi staccato di un Vascello, per qualche burrasca. Senza perdere instante fui di ritorno alla Città, e supplicai Sua Maestà Imperiale di prestarmi venti de’suoi maggiori Vascelli, e tre mila Marinaj, sotto il comando del Vice Ammiraglio. Sciolse questa Flotta in tempo che io mi rendei pel cammino più corto al luogo, donde lo schifo aveva io discoperto, e trovai che la marea avealo vie più accostato. I Marinaj tutti erano proveduti di funi di già allestite dalla mia attenzione; avendone attorcigliate molte insieme, perchè fossero più consistenti. Arrivati che furono i Vascelli, mi dispogliai, e marciai per l’acqua sin alla distanza di cento verghe dallo schifo; dopo di che, per arrivarvi, fui costretto di far a nuoto il rimanente cammino. I Marinaj mi gittarono l’estremità d’un cavo, che io legai alla parte anteriore dello schifo, e l’altra estremità a un Vascello di guerra. Ma poco men inutile fu tutta la mia fatica; perchè non riuscendomi sentir fondo, operare io non poteva. In tal urgenza, fui obbligato di guadagnar a nuoto il di dietro dello Schifo, che nella più possibile maniera mi accinsi a sospignere con una mano, e come mi era savorevole la marea, tanto nuotai che toccai fondo, non avendo l’acqua che fino al mento. Per lo spazio di due minuti, o tre, presi alquanto di fiato, e poscia a spignere lo schifo continuai, finch non più che le mieasoelle dall’acqua erano coperte; e come allora aveva io superato il maggior imbroglio, presi d’altre mie funi che erano in uno de’Vascelli, e le legai prima allo schifo, poscia a nove Navi, che io avea fatte avvicinare a tal effetto. Essendo propizio il vento, rimburchiarono i Marinaj lo schifo; ed io, in sospignendo, il loro travaglio agevolai, finchè arrivammo alla distanza dal lido non più che di quaranta verghe. Ivi attesi che abbassasse l’acqua, dopo ciò mi portai allo schifo a piedi asciutti, e pel soccorso di due mila uomini, provveduti di differenti ordini, il dirizzai, e con grandissimo piacere, pochissimo danneggiato il vidi.

Io non istarò tediando il Leggitore nel ragguagliarlo, che durante lo spazio di dodici giorni, soffrj mille, e mille stenti, per condurre il mio schifo al Porto Reale di Blefuscu, ove la novella del mio arrivo attratto avea un infinito numero di Popolo; il cui stupore alla vista di un sì prodigioso Bastimento, eccede qualunque immaginabile esagerazione. Dissi all’Imperadore che un destino felice presentato mi avea quello schifo, per trasferirmi in qualche luogo, donde potrei restituirmi alla mia Patria, e supplicai Sua Maestà di dar gli ordini necessarj, perchè mi venisse somministrato quanto occorresse per rassettare, e vettovagliare lo schifo stesso, e di accordarmi eziandio la permissione d’andarmene; al che assenti l’Imperadore, dopo tuttavia qualche obbligante rimbrotto, di voler io abbandonarlo sì presto.

Stupj fortemente di non vedere in quel frattempo a comparire Corriere di sorta alla Corte di Blefuscu, per parte dell’Imperadore di Lilliput, a mio riguardo. Ma intesi dappoi, che Sua Imperial Lillipuziana Maestà, non potendo immaginarsi che fossemi nota qualche cosa de’disegni di lei, avea creduto che io solamente mi fossi portato a Blefuscu per disimpegnare la mia parola conformemente alla licenza che io ne avea avuta: e che dopo di aver inchinato il Blefuscuano Imperadore, non mancherei fra pochi giorni di ritornamene. Ma finalmente cominciò ad inquietar la lunga mia assenza, e dopo di essersi consultata col Tesoriere, e col resto de’suoi macchinatori, inviò ella alla Corte di Blefuscu Persona di qualità, incaricata d’un esemplare degli Articoli di accusa contra di me. Rappresentar dovea quest’Inviato all’Imperadore la clemenza estrema del suo Padrone, il quale compiacevasi di condannarmi alla sola perdita degli occhj; che io mi era sottratto alle mani della giustizia, e che se nel termine di due ore io non fossi di ritorno, sarei dichiarato traditore, e spogliato del mio titolo di Nardac. L’Inviato aggiunse; che per mantener la pace, e l’amicizia fra’due Imperj, stava il suo Signore in attenzione che Sua Blefuscuana Maestà rilasciasse gli ordini convenevoli perchè io fossi ben bene bastonato, e così condotto a Lilliput, per esservi punito, come un ribelle.

L’Imperator di Blefuscu, presi tre giorni per consultarsi; fece una risposta che in complimenti; ed in iscuse sol consisteva. Disse; che il Monarca di Lilliput ignorar non potea che il progetto delle mie bastonate era onninamente impraticabile; che non ostante che io asportata avessi la sua Armata navale, ei non lasciava di professarmi grand’obblighi per avergli assistito nella stipulazion della pace, che, qualunque a mio riguardo fosse la cosa, ben presto si sarebbero sbrattati di me i due Imperi, avendo io rinvenuto sopra la spiaggia un bastimento sì prodigioso, che era non solo idoneo a contenermi, ma eziandio a trasportarmi per mare in quale sia si altro Paese; che egli avea comandato di provveder misi tutto il bisognevole pel mio cammino; e che in questo modo ei si lusingava che in poche settimane, d’un peso sì intollerabile sarebbero alleggiate entrambe le Monarchie.

Ritornossene l’Inviato a Lilliput con una risposta di tal tenore; e l’Imperador di Blefuscu participommi tutto il Trattato; offrendomi, (ma sotto sigillo di segretezza) la sua protezione, in caso che volessi restarmene al suo servigio; il che ricusai con la più possibile civil maniera; perchè, tutto che sincere credessi le sue esibizioni, io mi avea determinato a non più fidarmi alle Corti, se potessi dispensarmene. Dissi di più; che giacchè la mia sorta, o buona, o trista, aveami dato nelle mani un Vascello, io era risoluto di mettermi in mare, piuttosto ch’essere il motivo della rottura di due sì possenti Monarchi. Non mi parve l’Imparadore disgustato del mio disegno; ed il caso scoprir mi fece, che anzi, sì egli, che i Ministri di lui, se n’erano compiaciuti. Riflessioni tali affrettar fecero la mia partenza, nel che la Corte, la quale altro non desiava che di vederla effettuata, ebbe la bontà di secondarmi. Cinquecento Operai impiegati furono nel lavoro di due vele per lo mio schifo; e queste vele furon formate della più grossa tela che trovar si potè, posta tredeci volte l’una in sull’altra. Io stesso allestj il mio sartiame, ed i cavi, venti o trenta attorcigliandone insieme. Una gran pietra, che dopo molto stento mi riuscì di trovare sul lido, mi servì d’ancora. Il grassume di trecento Vacche valsemi per ispalmare il mio Vascello, e per alcuni altri usi. Non può credersi quanto io abbia faticato per rintracciar legni di tal grandezza, che di remi, e d’alberi servir potessero, nel che, non ostante, molto bene fui ajutato da’Legnajuoli di Nave di Sua Maestà, che assai a pulirgli contribuirono dopo il mio più rozzo lavoro.

Nello spazio d’un Mese fu tutto lesto: e allora feci chiedere a Sua Maestà Imperiale se avesse ella qualche cosa a comandarmi, perchè io divisava d’andarmene. Accompagnato dall Augusta sua Famiglia, uscì della Regia l’Imperadore; ed io mi prostesi a terra per baciargli la mano, ch’ei mi porgè con graziosissimo modo. Fecero lo stesso l’Imperadrice, e le Principesse del sangue. Regalommi Sua Maestà di cinquanta borse, cadauna di cento Sprugs, col suo Ritratto in grande, che immediate riposi in uno de’miei guanti, per guarentirlo dagli accidenti. I complimenti seguiti alla mia partenza furono troppi, perchè io quì ne faccia la descrizione. 

Cento Buoi, trecento Pecore, e tante pietanze, quanto quattrocento Cucinieri apprestar poterono, con biscotto, ed ogni sorta di bevanda a proporzione, servirono a vettovagliare il mio schifo. Presi meco sei Vacche, e due Tori vivi; e lo stesso numero di Pecore e di Montoni; intenzionato di trasferirgli al mio Paese, e di moltiplicarne la razza. Per loro nutritura, io avea imbarcata una buona quantità di fieno, ed un sacco di frumento. L’avrei fatto volentieri d’una dozzina di Naturali del paese; ma a patto veruno non volle aderirvi l’Imperadore, ed oltre a una diligentissima visita che si è fatta in tutte le mie tasche, Sua Maestà giurar mi fece da uomo d’onore, di non asportare veruno de’suoi Suggetti, anche che eglino stessi vi consentissero.

Con tal apparecchio, misi dunque alla vela il ventiquattro Settembre 1701. a sei ore della mattina; e dopo quattro lege, o circa, di cammino verso Tramontana, essendo il vento a scilocco, scopri i verso l’ore sei della sera una piccola Isola, lontana una mezza lega a Ponente Maestro, e che mi parve diserta. A distanza ragionevole dalla spiaggia, lasciai cascar l’Ancora; e dopo leggermente cenai, e procurai di riposarmi. Sei buone ore, secondo la mia conghiettura, dormj; mercè, che due ore dopo d’essermi risvegliato, stavasene spuntando l’Aurora. Facea un bel chiaro di Luna; e prima che risorgesse il Sole presi la colezione. Levata l’Ancora col favore d’un buon vento, continuai il cammin medesimo del precedente giorno; nel che il mio compasso da saccoccia egregiamente mi servì. Mia intenzione si era di guadagnar, se il poteva, una delle Isole, che io avea ragione di credere situate al Greco Levante del Paese di Diemen. Nulla vidi per tutto quel giorno; ma nel seguente, verso le tre ore dopo il mezzodì, essendo discosto, secondo il mio calcolo, venti e quattro legge da Belfuscu, scopri i una Vela che per iscilocco navigava. Cacciai la scotta sopra di essa, ma corrisposto non fui; con tutto ciò me le andava accostando sempre più, perchè allenta vasi il vento. Sforzai tutte le mie Vele, e di là a mezz’ora la ciurma del Vascello mi ravvisò, e fece un tiro di moschetto per avvertirmi che io era stato veduto. Egli è invano che io possa esprimere l’allegrezza in me eccitatasi dalla speranza di rivedere la mia cara Patria, e quelle persone, onde io era unito con vincoli di tanta tenerezza. Imbroglio il Vascello le Vele, e fra le cinque e sei ore della sera del venti sei Settembre l’abbordai: ma quali trasporti di mia gioja nel riconoscerlo per Inglese! Misi le mie Vacche, e le mie Pecore nelle tasche del mio vestito, e con tutte le mie piccole provvisioni montai il Vascello,il qual era di Mercanzia, rivenendo dal Giappone pe’Mari di Ponente, e d’Ostro, e il suo Capitano, nomato Giovanni Biddel, era un gran Galantuomo, e peritissimo nella Marina. Ci trovavamo allora a’trenta gradi di Latitudine Meridionale; ed il Vascello potea avere cinquanta uomini di equipaggio, fra quali uno ne rinvenni vecchio mio camerata, col nome di Pier Guglielmo, il qual fece un ritratto vantaggioso di mia persona al Capitano. Quest’onestissimo uomo mi praticò qualunque sorta di convenienze, e mi pregò di dirgli donde io veniva ultimamente, ed ove mi pensava d’indirizzarmi. In pochi termini soddisfeci alla curiosità di lui, ma egli s’immaginava che io sognassi, e che i pericoli da me scorsi mi avessero intorbidato il cervello. Su corale disputa, trassi le mie Vacche, e le Pecore dalla saccoccia, che appena scorte da lui, confessò di non aver che rispondere a una somigliante spezie di dimostrazione. Fecegli poscia vedere l’oro regalatomi dall’Imperador di Blefuscu, il ritratto in grande di Sua Maestà, ed alcune altre curiosità del Paese. Gli presentai due borse, ogniuna di dugento Sprugs; e gli promisi, che giunto che io fossi in Inghilterra, gli avrei dato una delle mie Vacche, e altresì una Pecora pregna.

Nel nostro rimanente viaggio, che generalmente parlando, felicissimo riuscì, non ci accadde cosa di gran momento, degna della notizia del Leggitore. Arrivammo alle Dunes il terzodecimo di Aprile 1702. La sola mia disgrazia fu, che i sorcj mi asportarono una Pecora, onde le ossa, propi issimamente rosecchiate ritrovai in un cantone. Sbarchai sano, e salvo, il restante mio gregge, e lo misi all’erba in una prateria a Greevich, ove a perfezione ei s’ingrassò, tutto che il contrario temuto ne avessi. Non sarebbemi riuscito di tenerlo in vita in un sì lungo viaggio, se il Capitano non mi avesse somministrati alcuni de’migliori suoi biscottini, che ridotti in polvere, ed impastati con l’acqua, egregiamente nodrivano la piccola mia mandra. In mostrandola a qualificate, ed altre persone, considerabilmente profittai pel poco di tempo che me ne restai in Inghilterra; e innanzi d’inprendere il mio secondo viaggio, la vendei per secento Scudi. Dopo l’ultimo mio ritorno, trovai la razza accresciuta di molto, in particolar delle Pecore; le quali, a quello che io ne spero, contribuiranno assai all’avanzamento del lanificio, per la finezza della lana loro.

Due soli mesi me ne restai con la moglie, e co’figliuoli; poichè l’insaziabile brama di veder nuovi mondi, non permettevami un più lungo soggiorno in mia casa. Provvidi la mia Sposa di mille e cinquecento Scudi, e ciò che mi restava oltre a questa somma, commutai in danajo, ed in merci, con la speranza di far fortuna. Mio Zio Giovanni mi aveva lasciato un picciolo podere che mi fruttava trenta scudi per anno; cosicchè io non correva il risico di lasciare la mia famiglia in meschinità, e fuor di questo, io pur avea un’altra piccola tenuta, onde ritraeva anche di più. Giannato mio figliuolo, così chiamato dopo suo Zio, studiava allora il Latino, ed era un ottimo ragazzo, e quanto a mia figliuola Lisaberta, (che al presente è ben maritata, ed ha figliuolanza,) ell’applicavasi a’lavori d’ago. Mi accommiatai dalla moglie, dal figliuolo, e dalla figliuola, rimescolando con le loro le mie lagrime, e fui al bordo dell’Arrisicato, Vascello di Mercanzia di trecento botti, destinato per Surate, e comandato da Giovan Nicola. Che se i miei Leggitori son tentati dalla curiosità di sapere gli avvenimenti di questo secondo Viaggio, mo per appunto soddisfatti gli rendo.

Fine della Prima Parte.

X

VIAGGIO DI

BROBDINGNAG.

PARTE SECONDA.
CAPITOLO I.

Descrizione d’una furiosa tempesta. L’inviato a terra lo Schifo per provvedervisi d’acqua: vi s’imbarca l’Autore per iscoprir il Paese. Egli è lasciato sulla spiaggia, vien preso da uno degli Abitanti, ed è condotto in Casa d’un Fattor di Campagna. Modo ond’egli vi fu ricevuto. Descrizione degli Abitanti.

COndannato dalla mia inclinazione, del pari che dalla sorte, a un genere di vita sempre inquieto ed in moto, dieci mesi dopo il mio ritorno abbandonai un’altra volta la mia Patria; e alle Dunes il venti di Giugno 1702. m’imbarcai sopra un Vascello destinato per Surate, detto l’Arrisicato, e il cui Capitan Comandante era un tale Giovan Nicola. Perfino all’altezza del Capo Buona Speranza, ove demmo a fondo per provvision di rinfreschi, ci fu il vento più che propizio. Vi fummo arrivati appena, che ci avvedemmo che l’acqua entrava nel nostro Vascello: e cotale ragione, unita all i febbre che nel tempo stesso sorpreso aveva il Capitano, ci determinò a quivi restar sull’ancora tutto l’inverno, non avendo potuto partircene che sul fine di Marzo. Rimettemmo allora alla Vela, ed avemmo un favorevole tempo perfino allo Stretto di Madagascar. Ma lasciata a Ponente quest’Isola, a un di presso a cinque gradi di Meridionale latitudine; i venti, che in que’mari regnano infallibilmente fra il Ponente, ed il Libeccio dal principiar del Decembre fin al cominciamento di Maggio; e che per tutto questo tempo egualmente soffiano, sul diciannove d’Aprile si fecero sentire assai più violenti, e piegarono al Libeccio più che d’ordinario per lo spazio di venti giorni. Spirato questo termine ci trovammo al Levante delle Molucche, e presso che al terzo grado di lattitudine Settentrionale, secondo una osservazione fatta dal Capitano a’due di Maggio; giorno, in cui una tranquillissima calma successe alla tempesta che poco innanzi travagliati ci avea; il che produssemi una non mediocre allegria. Ma il nostro Comandante, che più d’una volta frequentati avea que’Mari, ci rendè avvertiti d’una vicina burrasca. Restò compiuta il giorno dietro la predizione di lui; mercè che cominciò a suscitarsi un vento d’Ostro, che la Mousson du Sud comunementesi chiama.

Vedutosi ad ingagliardire da un instante all’altro, ammainammo la Civadiera, e ci preparammo ad abbassar il Trinchetto: ma a cagion del tempaccio, assai faticammo per ottenerne l’intento. Stavasene in alto mare il Vascello; il che risolver ci fece, anzi che metterci alla cappa, di scorrere a secco. La tempesta era sì violenta, che sembravaci ad ogni momento di colar a fondo. Con tutto ciò, per la massima delle nostre buone fortune, dopo di aver infuriato alcuni giorni, ella si abbonacciò.

Durante il cattivo tempo, che fu seguito da un buon Libeccio, con tanta forza fummo portai al Levante, che niun de’nostri asserir potea ove noi fossimo. Abbondavano per anche le nostre provvisioni, il Vascello poco si trovava danneggiato dalla burrasca, e d’una perfetta sanità godeva tutto l’Equipaggio; e pure, mancandoci l’aqcua, era crudelissima la nostra costituzione. Giudicammo che fosse meglio di continuare il cammino medesimo, che di piegare più al Ponente: il che avrebbe potuto menarci al Ponente-Libeccio della Gran Tartaria, e nel mare Glaciale.

A’sedici Giugno 1723. un mozzo di Nave che era ad alto del Parochetto, discoprì Terra. A’diciassette distinguemmo chiaramente una grand’Isola, o fosse un Continente, (perochè qual de’due nol sapevamo,) alla cui parte meridionale aveavi una picciola lingua di terra sporgente in mare, ed un piccolo seno, tanto nè pur profondo, per ricevervi un Vascello di cento botti. Ci ancorammo a una lega da questo seno; e il nostro Capitano spedì una dozzina d’uomini ben armati nello schifo, co’necessarj arnesi per rintracciarvi dell’acqua. Gli chiesi la permissione di accompagnargli, per vedere il Paese, e procurar di farvi qualche scoperta. Posto piede a terra, non vedemmo nè Riviere, nè sorgenti, ne segno veruno di abitazioni. Costeggiarono i nostri, ansiosi pur di scorgere se fossevi qualche fiume che mettesse in mare, ed io dall’altra parte feci, da per me solo, per quasi un miglio, senza ravvisar altro, che un arrido, e pietroso terreno. Malcontento delle mie discoperte, adagio adagio me ne rivenni al seno mentovato; ma quale stordimento non si fu il mio, quando vidi che le nostre genti, non erano solamente entrate nello schifo, ma che a forza di gran remate smaniavano di riguadagnar il Vascello, econ un affrettamento, onde comprenderne non ne potei la cagione? Stava io per gridar loro che si arrestassero: allorchè mi venne fatto di raffigurare una spezie di Gigante che avanzavasi nel Mare dietro di loro il più velocemente poteva, non avendo l’acqua che fino alle ginocchia, facendo sgambettato, che aveano del prodigioso. Ma i Marinaj, inoltrati più che lui d’una mezza lega, essendo ivi il fondo seminato di roccie, non poterono esser raggiunti dal Mostro. Fummi ciò rapportato dappoi; mercè che non ebbi il coraggio di fermarmi, per essere spettatore del fine d’Un’Avventura sì terribile. Presi il partito di darmi alla più precipitata fuga pel cammino più corto, e dopo uno sfiatato correre di qualche tempo mi rampicai sopra una collina scoscesa, donde allungar potea l’occhio sopra una estensione di Paese assai vasta. Comparvemi allo sguardo d’una buona cultura; ma a prima giunta restai sorpreso dalla lunghezza dell’erba, la qual si alzava per più di venti e quattro piedi, e che nel luogo onde io vedeala, mi parea espressamente conservata per farne fieno. Ad alto della Collina, scoprj una grande strada, per tale almeno la giudicai, comechè non servisse agli Abitatori che d’un piccolo sentiero traversante un campo di frumento. Me ne andai qualche tempo su e giù di questa strada; ma nulla potei vedere nè dall’una, nè dall’altra parte, perchè era ormai la stagione del mietere; avendo gli steli un’altezza di quaranta piedi per lo meno. Bisognai d’un’ora intera innanzi di ritrovarmi all’estremità di questo campo, ch’era circondato da un’alta siepe di cento e venti piedi. Pel passaggio dal campo stesso al campo vicino, aveavi una barricata; e questa barricata quattro gradini avea, al di sopra di cui stava altresì un gran sasso, che bisognava saltare per superarlo. Mi era impossibile di montare questi gradini, essendo ognuno sei piedi alto, e più di venti la pietra. Me ne andava io fiutando qualche apertura nella siepe; allorchè nel vicino campo gettai l’occhio sopra uno degli Abitatori, il quale accostavasi alla barricata, ed era del taglio medesimo che colui che al nostro schifo data avea la caccia. Pareami egli dell’altezza d’un Campanile comune, e cadauna sgambettata di lui, dieci verghe valea, o a un di presso. Stordito dalla maraviglia, e dallo spavento, m’intanai fralle biade, donde il ravvisai all’alto della barricata, risguardando nel campo vicino alla dritta. Un momento dopo lo intesi a gridar non soche, ma d’un tuono così orribile, che il credei da principio uno scoppio di fulmine. Sei mostri accorsero alla sua voce della statura medesima, e tenenti in mano delle salci d’una smisurata grandezza. Non eran questi ultimi così ben abbigliati che il primo, avendo eglino sembianza d’essere servidori di lui; essendo che immediate che ei pronunziò loro alcune parole, si accinsero a mietere le biade del campo ove io mi trovava. Mi staccai da essi il più che potei, comechè con estrema difficoltà; perchè i gambi del frumento non erano, allo spesso, che alla distanza d’un piede gli uni dagli altri, cosicchè stentatamente io passava fra due. Con tutto ciò, in avanzando sempre, pervenni a un certo luogo del campo, ove il vento, e la pioggia, abbattuto avevano il grano. Qui sì che assolutamente mi fu impossibile di far un passo; conciossiacosachè gli steli erano così agruppati, e confusi insieme, che io non poteva pel traverso guizzarmivi; e le reste, che erano cadute, sì forti, che le punte loro traforavano i miei vestiti. Nel instante medesimo io sentiva i mietitori, non più che cento verghe da me lontani. Oppresso di fatiche, e quasi alla disperazione ridotto, mi prostesi fra due solchi, mi augurai di buon cuore la morte. La memoria della mia Sposa, e de’miei figliuoli, che secondo tutte le apparenze io non dovea riveder mai più, vivamente mi tormentava. Un momento dopo io piagneva la mia imprudenza, e la mia pazzia, di aver, contra il consiglio de’parenti, e di tutti gli amici miei, intrapreso un secondo viaggio. In un tale spaventevole agitamento di spirito, non potei di meno di pensare a Lilliput, i cui Abitanti mi spacciavano per una creatura di smisurata grandezza, ove io era capace, da per me solo, d’impadronirmi d’una Imperiale Armata, e di operare tante altre maraviglie, onde la memoria sarà conservata eternamente negli Annali di quella Monarchia, e alle quali difficilmente prestar vorrà sede la posterità, tutto che ratificate dalla deposizione d’un numero infinito di testimonj. Io meditava che molto mortificarmi dovea il comparir così picciolo al Popolo fra cui io mi rinveniva, come un  Lillipuziano paruto lo avrebbe fra noi. Ma quest’era il menomo de’miei infortunj: mercè che come si è osservato che le Creature umane son più selvagge, e più crudeli a proporzione della grandezza loro; e che altro poteva io aspettarmi, che l’essere divorato dal primo di que’Mostri che riscontrato avessi? An ben ragione di dire i Filosofi, che nulla vi ha di grande, o di picciolo, che per comparazione. Avvenir poteva che i Lillipuziani trovata avessero una Nazione, il cui Popolo, per rapporto ad essi, fosse così piccolo, che eglino stessi l’erano a riguardo di me. E chi sa se la razza enorme di que’Giganti che io aveva negli occhj, non era un semenzajo di Nani, in comparazione di qualche altro Popolo?

Con tutto il mio sbigottimento, non poteva io non dar luogo a tali riflessioni; allor quando uno de’Mietitori, che dal solco, ove io me ne stava appiattato, non più che dieci verghe discostavasi, temer mi fece, che col dar avanti un sol altro passo, non mi schiacciasse, o con la sua falce non mi dividesse in due. Affine di prevenire entrambe queste disgrazie, veduto che l’ebbi in disposizione di qualche muovimento, gettai un grido che la paura prese a suo conto d’ingrandir molto. Si arresta il Mostro; e risguardando per qualche spazio da tutti i lati sotto di lui, finalmente ravvisommi a terra. Per alcuni instanti mi considerò egli con quell’attenzione medesima che si ha, quando si vorrebbe prender in mano qualche pericoloso animaluzzo, senza ch’ei mordere, o graffiar potesse; come io stesso talvolta in Inghilterra praticato aveva a riguardo d’una donnola. Arrisicossi finalmente a prendermi pel mezzo del corpo fra il suo pollice, e l’indice, e mi avvicinò a tre verghe da’suoi occhj, per poter esaminarmi distintamente. Indovinai il pensiero, e per buona sorte fui assistito da una tal presenza di spirito, che in tempo ch’ei mi teneva sospeso in aria indistanza di più di sessanta piedi da terra, non ostante che crudelmente mi pizzicasse fralle sue dita, nè pur fiatai, per paura ch’ei non mi lasciasse cadere. Rivolsi solo gli sguardi miei verso il Sole; giuntai le mani in aria di supplichevole, e alcune parole proferj con un lamentevole tuono, che conveniva pur troppo alla sgraziata mia costituzione di allora. Mercè che io tremava ad ogni momento ch’ei non mi gettasse a terra, come facciamo per ordinario di qualche odiosa bestioluccia, che vogliamo distruggere. Ma il destino che cominciava a placarsi verso di me, operò che la mia voce, ed i miei atteggiamenti, gli piacessero, e che stupito al maggior segno d’intendermi ad articolar de’suoni, mi contemplasse con una spezie di curiosità. Nel tempo stesso non potei di meno di gettare molti sospiri, di spargere alcune lagrime, e di girar la testa verso quella parte ov’ei mi teneva; dandogli a conoscere, nel miglior modo, che mi faceva male. Parve ch’ei mi capisse; perchè levato il lembo del suo vestito, pianamente mi vi ripose, e un istante dopo corse alla volta del suo Padrone, il qual era un buon Fattor di Campagna, ed il medesimo, che io da prima nel Campo veduto avea. Il Fattore, (come suppongo per le loro maniere) ricevute, in riguardo a me, tutte le informazioni possibili dal suo Famiglio, prese un bruscolo di paglia, quanto una canna, e se ne servì per alzare la parte estrema dell’abito mio, che ei credeva una sorta di pelle, onde la Natura avessemi ricoperto. Chiamò i suoi servidori, e chiese loro, (a quel che dappoi me ne fu detto) se mai ne Campi trovata avessero una picciola creatura che mi assomigliasse? Mi mise poscia con tutta la dilicatezza a terra, nella situazione medesima come una bestia a quattro piedi; ma immediate mi levai, passeggiando avanti, e indietro, a piccoli passi, per far comprendere a quel Popolo che mia intenzione non era di fuggirmene. Stavan coloro tutti sedendo d’intorno a me, per Levai il mio cappello, e feci una riverenza profonda al Fattor di Campagna. Mi gettai alle ginocchia di lui; e avendo alzato gli occhj, e le mani al Cielo, pronunziai alcune parole il più alto che potei. Dalla mia tasca trassi una borsa contenente alcune monete d’oro, che con un’aria tutta rispetto gli offerj. Ei la ricevette nella palma della sua mano; indi accostolla ben da vicino alla sua vista, per veder ciò che fosse: dopo ciò, con la punta d’uno spilletto, ch’ei tirò dalla sua manica, più e più volte la girò, e rigirò, ma sempre senza comprendere qual macchina si fosse. Io addocchiato ciò, gli feci segno di mettere la sua mano a terra, e presa, ed aperta la borsa stessa, versai nella palma della mano di lui, tutto l’oro. Aveavi sei dobbloni di Spagna da quattro l’uno, ed altre venti o trenta monete di minor peso. Osservai che egli sopra la sua lingua bagnava l’estremità del più picciolo suo dito, per poter così prendere una delle monete più grandi, e di poi un’altra; ma mi parve che certamente non le conoscesse. Mi accennò di rimetterle nella borsa, e poscia di rimettere la borsa nella mia tasca; il che feci dopo di avergliela offerita ancora cinque o sei volte.

Il Fattore allora restò convinto che io fossi una Creatura ragionevole. Frequentemente mi parlò, e tutto che a guisa d’un mulino da acqua mi stordisse la voce di lui nulladimeno distintamente ei pronunziava. Col più forte tuono risposigli in linguaggj diversi, e molte fiate ei tanto si abbassò, che fra la sua orecchia, e me, non aveavi di distanza che due sole verghe; ma fui inutile il fastidio d’entrambi, perchè d’intenderci non fu vi mezzo veruno. Inviò allora i suoi famiglj all’opera loro, e tratto dalla saccoccia il suo fazzoletto, piegollo in due, e lo stese sulla sua sinistra mano, che, con la palma al di sopra, aperta la mise a terra, facendomi segno di ripormivi; il che non era disagevole, poichè di grossezza non vi ave che un solo piede. Credetti dover ubbidire, e per timor di cadere, mi distesi per lungo sul fazzoletto; col resto di cui, per sicurezza maggiore, m’inviluppò per fino alla testa, e in cotal positura mi portò in sua casa. Pervenutovi, immediate mi mostrò a sua moglie; ma ella fortemente stridendo diede addietro, come appunto in Inghilterra an costume di fare le Dame in vedendo un rospo, o un ragnolo. Considerata però che ella ebbe la mia continenza, e con quale docilità me ne stessi ubbidendo a’menomi cenni di suo marito, addomesticossi ben presto, e guari non tardò ad amarmi di tutto cuore.

Verso il mezo giorno un domestico recò il pranzo, il quale consisteva in una sola pietanza, ma assai buona nel suo genere, e tale che conveniva a un lavoratore di Campi. Venti e quattro piedi di diametro aveva il piatto: e la compagnia consisteva nel Fattore, nella moglie, in tre figliuoli, e in una Vecchia Nonna. Seduto che fu ognuno, il Fattore mi collocò sopra la tavola, che aveva un’altezza di trenta piedi, in qualche distanza da lui. O che terribili dolori di ventre che allor mi presero! e per timore di ruotolar abbasso, mi staccai il più che potei dalla sponda. Trinciò la moglie un pezzo di carne, e sminuzzato sopra un tondo un poco di pane, il pose d’avante a me. Io le feci un profondo inchino, trassi il mio coltello e la mia forchetta, e a mangiar mi messi, onde eglino parvero soddisfatti. La Padrona comandò alla serva di andar in traccia d’una piccola tazza di tenuta non più che di dodici boccali, o circa, e che ella stessa ebbe la cura di riempiere per conto mio. Per prendere la tazza fui obbligato di valermi d’ambe le mani; e in contegno di rispetto brindai alla sanità della Signora della casa; il che fece fare a tutta la brigata un sì grande schiamazzio di ridere, che pensai divenir sordo. Avea la bevanda un sapore di piccola cervogia, e non era ingrata. Il Marito allora mi accennò di mettermi accanto del tondo di lui; ma come io stava camminando sulla tavola per anche tutto stordito, (e ben penso che il Leggitore facilmente sel persuada,) m’accadde d’intopparmi in una crosta di pane, ed in cadendo, di dar del naso sulla tavola medesima, ma per buona sorte senza farmi male veruno. Mi rilevai in un subito; ed osservando la somma inquietudine di quelle buone persone, presi il mio cappello, (che per pullitezza io avea tenuto sotto il braccio,) e girandola sopra la mia testa, gettai nel tempo stesso due, o tre giocondi gridi, per manifestare che io non era restato offeso. Ma nel punto che io mi avanzava verso il padrone, (che così sempre in avvenire il chiamerò,) il più giovane de’figliuoli di lui, che gli era seduto accosto, e ch’era un furfantello di dieci anni di età, pigliommi per le gambe, e sì sospeso mi tenne nell’aria, che non aveavi membro del corpo mio, che non tremasse di paura. Ma il suo padre me gli tolse dalle mani, diedegli uno schiaffo sì terribile che il più grosso Elefante che in Europa siasi mai veduto, ne sarebbe restato rovesciato, e gl’ingiunse di levarsi immediatamente di tavola. Ma io temendo il rancore del giovane; e ricordandomi perfettamente bene fin a qual segno presso noi i ragazzi sono crudeli verso i passeri, i coniglj, i gattuccj, ed i cagnuoli, mi gettai ginocchioni; e additando il malfattore, procurai di far capire al mio padrone, che io gli chiedeva la grazia del perdono di lui. Acconsentivvi il padre, e permise che il figliuolo ripigliasse il suo posto; per lo che mi addrizzai ver lui, e gli baciai la mano; che presa dal padrone, ei più fiate passolla, e ripassolla sulla mia faccia, come per accarezzarmi.

Verso la metà del pranzo, il gatto favorito della mia padrona le saltò nel grembiule. A giudicarne dalla testa, e da una delle zampe, che io attentamente considerai quand’ella lo accarezzava, ed il nutriva, tre volte più che un Bove parvemi grosso quell’animale. L’aria furiosa d’una tal bestia mi fece tremare da capo a piedi, tutto che mi trovassi all’opposta estremità della tavola; e che la padrona il ritenesse, per timore che saltando sulla tavola stessa, non mi brancasse. Ma per buona fortuna la pagai col solo spavento; mercè che il gatto mi bado appena, non ostante che il padrone me gli avesse avvicinato tanto, che lo spazio di tre verghe ci separasse solamente. Come io sempre avea inteso a dire, e altresì esperimentato ne’Viaggj miei che il fuggire, o il mostrar paura dinanzi ad un animale crudele, è il vero mezzo di farsi assalire; mi risolvetti, in un cimento così scabroso, di prendere una maniera intrepida, e di coraggio. Con un sembiante animosamente fiero, cinque, o sei volte, su, e giù spasseggiai sul ceffo medesimo dell’animale, e accanto accanto poscia me gli accostai; ed egli saltò a terra, come fosse più di me spaventato. Un tratto tale di arditezza sì ben riuscitomi, produsse che io poi non avessi tanto terrore de’cani, essendone tre o quattro di essi nell’instante stesso entrati nella stanza, come per ordinario si pratica nelle case de’Castaldi; ed uno di que’cani, ch’era un mastino, quattro Elefanti uguagliava. Vicino di lui stavasene un levriere, ancora più alto, ma non sì grosso.

Era il pranzo presso che al fine, quando entrò la balia tenendo nelle sue braccia un bambino d’un anno, il quale subito mi pose l’occhio addosso, e cominciò a gridar sì forte, che potevasi sentire per una lega, e non per altro com’è solito de’bamboccj, perchè io gli servissi di suo trastullo. Per pura indulgenza mi prese la Madre di lui, e mi avanzò verso il pargoletto, che incontanente mi afferrò pel traverso, e cacciò la mia testa nella sua bocca; il che mi fece gittar gridi sì spaventosi, che atterrito il bambino mi lasciò cadere, e certamente mi sarei rotto il collo, se la Madre non avesse allargato sotto di me il suo grembiule. La balia, per acquietare il bambino, si valse d’un sonaglio, il qual era una spezie di vase voto, riempiuto di grosse pietre, e appeso con una fune alla metà del corpicciuolo di lui. Ma ciò nulla valse, cosicchè fu ella obbligata di ricorrere all’ultimo de’rimedj, che era di presentargli la poppa. Confessar deggio che a’miei giorni non ho mai veduto un oggetto più mostruosamente disaggradevole, quanto quegli che allora si affacciò a’miei sguardi: Ma voglio risparmiare a’miei Leggitori una somigliante descrizione, e in sua vece rendergli piuttosto partecipi d’una riflessione statami inspirata da una sì laida, ed enorme comparsa. La pelle, diceva io fra me stesso, delle nostre Dame d’Inghilterra, sembraci bellissima: ma non avverrebbe ciò forse, perchè queste Dame non sono più grandi che noi, e perchè non ravvisiamo la pelle loro col microscopio; il quale ci convincerebbe che la più bianca, e più lisciata carnagione, non è in sostanza che una piallata masse di sporchi colori?

Ricordomi che in tempo che io mi trovava a Lilliput, le carnagioni degli Abitanti mi sembravano la più bella cosa del mondo, e che quinstionando su questo punto con un uomo di spirito del Paese, intimissimo amico mio, ei mi disse, che il mio volto gli compariva assai più vago, e più pulito, quand’ei mi risguardava da terra, che quando collocato in mia mano, poteva considerarmi da più vicino. Confessommi, che egli allora raffigurava molto pertugiato il mio mento; che i peli della mia barba erano più irsuti che le setole d’un cignale; e che la mia carnagione era composta di molti colori ingratissimi: tutto che non vanamente io possa dire che le mie sembianze sieno così avvenenti, come il sono quelle de’più degli uomini del mio paese; e che il mio colorito così abbronzato non sia, come il dovrebbe, a cagion de’miei viaggi. D’altra parte, parlando delle Dame della Corte di Lilliput, ei mi disse più volte, che l’una avea delle rossicce macchie; l’altra troppo grande la bocca; un’altra il naso mal fatto; cose tutte ond’era impossibile che io mi avvedessi. Ingenuamente confesso che son naturalissime cotali riflessioni; e che chi legge avrebbe ben potuto farle senza di me. Con tutto ciò non potei trattenermi dal fargliene parte, temendo che ei non s’immaginasse che realmente più difformi, che noi, fossero quelle vaste Creature: poichè per rendere loro la dovuta giustizia, è forza che io pubblichi ch’egli è un Popolo assai ben formato; e in ispezieltà riguardo al mio Padrone; che, comechè un Castaldo, i suoi delineamenti, non ostante, proporzionatissimi mi parevano quand’io gli considerava in distanza di sessanta piedi; che vale a dire, quand’io me ne stava a terra tutto accosto di lui.

Alzati di tavola, andò il Padrone alla visita de’suoi Operaj; e per quanto liquidarlo potei dalla sua voce, e dalle sue gesta, diede ordine alla sua Sposa di aver buona cura di me. Estremamente io mi trovava lasso, e una furiosa voglia di dormire mi tormentava. La mia Padrona, che se ne avvide, mi adagiò sul propio suo letto, e mi ricoprì con un fazzoletto bianco; ma più grande, e più massiccio della principal vela d’un Vascello di guerra. Dormj due ore, più o meno, sognando di starmene in mia casa con la moglie, e co’miei figliuoli; il che accrebbe al doppio la mia maninconia, quando risvegliatomi, mi rinveni, solo, in un vasto Appartamento che stendevasi per dugento, o trecento piedi; e la cui altezza superava i dugento. Era già uscita la Padrona in attenzione de’suoi domestici affari, e dietro di se avea chiusa la porta della mia stanza. Otto verghe da terra era alto il letto; e stimolato da qualche necessità, avrei ben voluto scenderne, ma non ardj di chiamar persona; mercè che i miei gridi sarebbero stati inutili, e certamente non giunti alla Cucina, ove stavasene rutta la Famiglia. Nel frattempo di quest’imbroglio, due topi si rampicarono sul cortinaggio, e dando del naso da per tutto, corsero da una parte all’altra. Venne un d’essi fin sulla mia faccia, e mi cagionò uno spavento orribile. Più che di fretta mi levai, e sguainai la spada per difendermi. Così temerarie furono quelle prodigiose bestie, che mi assalirono da due lati, ed una insino mi saltò sul giubbone; ma prima che mi offendesse, mi riuscì di fenderle il ventre. Cadde ella a’miei piedi; e l’altra, scorto il destino della camerata, se ne fuggì, ma non senza riportare una buona ferita al di dietro. Compiuta l’impresa; per rimmettermi dallo sbigottimento, e dal disagio, mi si misi a spasseggiare da un capo all’altro del letto. Erano que’topi del taglio d’un Alano Inglese, ma infinitamente più agili, e di maggior fierezza: cosicchè se innanzi di mettermi a dormire deposta io avessi la mia spada, infallibilmenmente divorato mi avrebbono. Misurai il topo morto, e il trovai di due verghe, men un pollice, di lunghezza.

Poco dopo entrò nella stanza la mia Padrona; e in vedendomi tutto insanguinato, corse velocemente a me, e mi prese in sua mano: io ridendo, e dando altri segni di allegrezza per farle conoscere che io non avea alcun male, le mostrai il topo morto. Ella ne restò incantata; e ingiunse a una fantesca che con le molli il prendesse, e gettasse dalla finestra. Dopo ciò fui da lei collocato sopra una tavola, donde le feci vedere la mia spada tutta sangue, che in un instante forbj, e rimisi nel fodero. Io mi trovava incalzato da più d’una di quelle sorte di cose, per le quali sono impraticabili le Proccure; e a tal effetto mi sforzai di far comprendere alla Padrona, che io desiderava d’essere messo a terra; il che eseguito, non permisemi il mio rossore di far altri atteggiamenti, che di accennare l’uscio, e d’incurvarmi parecchie volte. Mi comprese finalmente, tutto che con istento, la buona donna: mi pigliò in sua mano, e mi mise a terra nel giardino. Per dugento verghe mi staccai da lei; e fattole segno che mi risguardasse; e non mi seguisse, mi nascosi fra due foglie di acetosa, e soddisfeci alla mie necessità.

Lusingomi che il Leggitore benevolo mi terrà scusato, se talvolta io insisto sopra particolarità di tal fatta; che tutto che poco interessanti agli occhi del volgo ignorante, non lasciano tuttavia di recare un nuovo grado di estensione alle idee, e all’immaginazione d’un Filosofo. Oltracciò, mi sono spezialmente attenuto alla verità, senza adornare il mio stile con le affettate vaghezze della menzogna: e dir posso che tutte le circostanze di questo viaggio an formata una sì viva impressione sopra di me, e sì profondamente si sono scolpite nella mia memoria, che in istendendole in carta, veruna non ne ommisi che alquanto fosse importante: Comechè dopo una esatta revisione ne abbia io scancellati alcuni passi di minor momento, che già stanno registrati nel primo mio esemplare; e ciò per timore d’essere importuno a’miei Leggitori; timore, che, a quel che se ne dice, agitar dovrebbe la maggior parte degli Autori di Viaggj.

CAPITOLO II.

Descrizione della figliuola del Fattor di Camgna. L’Autore è condotto a una vicina Città, e di poi alla Capitale. Particolarità di questo Viaggio.

AVea la mia padrona una figliuola di nov’anni, fanciulla, per la sua età, amabilissima, che col suo ago operava qualunque cosa, e industriosa a maraviglia nell’abbigliar la sua bambola. La madre, ed ella, pensarono di accomodar la culla della bambola medesima pel mio uso nella vicina notte; ed in fatti fu riposta la culla in una piccola cariuola d’uno stanzino; e la cariuola sopra una tavoletta sospesa in aria, per timore de’topi. Altro letto non ebbi per tutto il tempo che dimorai in quella casa; benchè, dopo di aver alquanto appresa la lingua del Paese, e subito che sui in istato di saper chiedere in qualche modo il mio bisogno, più adagiata renduta io l’abbia. Era sì esperta quella giovinetta, che dopo d’sermi tolti, in presenza di sei, due, o tre volte i miei vestiti; potè ella esser capace di spogliarmi, e di rivestirmi; tutto che un tal fastidio io non le abbia mai recato, quando volea lasciarmi fare da per me solo. Mi lavorò ella sette camiscie, ed alcuni altri pannillini; i quali, comechè finissimi, erano tuttavia più grossi, e più ruvidi d’un ciliccio; e sempre ella compiacevasi di farne bucato con le stesse sue mani. Prese pure a suo conto d’instruirmi della lingua del Paese: quand’io accennava qualche cosa col dito, ella me ne diceva il nome, cosicchè in pochi giorni io avea l’abilità di chiedere ciò che io volea. Era colei una ragazza assai buona, che per anche non avea di altezza quaranta piedi, essendo piccola a proporzion di sua età. Imposemi il nome di Grildrig; nome statomi conservato dalla famiglia di lei, e per cui fui poscia riconosciuto per tutto il Regno. Questo termine, spiega lo stesso che Nannuculus de’Latini, che Nanerettolo degl’Italiani, che Mannikin degl’Inglesi, e che Mirbidon de’Francesi. Principalmente a lei io sono debitore della mia conversazione in quel Paese; non essendomi giammai da lei separato per tutto il tempo del mio soggiorno. Io la chiamava mia Glumdalclitch, o sia mia piccola balia. E certamente io sarei il più ingrato di tutti gli uomini, se menzion non facessi della tenerezza, e delle sollecitudini di lei a mio riguardo; desiderandomi con tutta l’anima in condizione d’un adeguato riconoscimento; quando per altro, secondo le apparenze, io non sono che il fatale, tutto che innocente, strumento della sua disgrazia, Comincia vasi già nel vicinato a parlar di me; sparsa essendosi la fama, che il mio Padrone avea rinvenuto ne’suoi Campi uno straordinario Animale, della grandezza d’uno Splachnuk, ma le cui membra tutte esattamente eran formate come quelle d’una Creatura umana, ond’egli per sopra più in tutte le sue azioni si rassomigliava; che ei parlava un picciolo linguaggio suo propio; che appresi già avea alcuni termini della lingua del Paese; camminava sopra le sue gambe; era piacevole, ad altresì domestico: veniva quando si chiamava: facea tutto che si volea; le parti del suo corpo erano le più graziose del mondo: ed avea una carnagione più dilicata di quella d’una nobile fanciulletta di tre anni. Un altro Fattore che abitava non troppo da noi discosto, e che era amico intrinseco del mio Padrone, venne a fargli visita, con intenzione d’informarsi della verità di questa Storia. Mi si fece immediate comparire, e collocato sopra una tavola, ove su e giù me ne andava spasseggiando secondo mi si ordinava, diedi mano alla spada, la rimisi nel fodero, feci una riverenza a colui che ci visitava, chiesigli in sua lingua come se ne stesse in sanità, e gli dissi che lui era il ben venuto, co’precisi termini che la picciola mia Nutrice insegnati mi avea. Colui, che era un vecchione, e che la vista troppo non gli serviva, prese gli occhiali per meglio considerarmi; ed io confesso che la singolarità d’un somigliante spettacolo strappommi uno scoppio di ridere assai incivile. Ne conobbero i nostri il motivo, e nel tempo stesso rinforzarono il giocondo schiammazzio, cosa, che ebbe a disgustare quel vecchio pazzo. Passava egli per un avaro, e per mia disgrazia, pur troppo un tal mal credito ei giustificò. Consigliò il mio Padrone di far mostra di me come d’una rarità, in un giorno di Fiera nella Città vicina. In ravvisandogli entrambi a lungo quistionanti insieme, e cogli sguardi loro sovente a me indrizzati, temetti di qualche trama a mio discapito, e nel mio timore mi parve pure di comprendere una parte del loro discorso. Ma la seguente mattina Glumdalclitch mi racconto fedelmente ogni cosa, di già informata da sua Madre. Misemi nel suo seno la povera figliuola, e proruppe in lagrime tali che m’intenerirono. Paventava ella qualche mio infortunio, e che qualche villanaccio tenendomi fra le sue braccia non mi schiacciasse. Ell’avea in me osservati alcuni delineamenti di nobile, e fiera modestia, e bastevolmente era convinta che al segno maggiore mi sarei sdegnato, se per denajo fossi stato mostrato a tutti, come un barattino. Disse il suo Papà, e la sua Mamma promesso le aveano che Grildrig sarebbe suo; ma che ben iscorgeva che farebbono come l’anno passato, che promessole un Agnello, immediate che s’ingrassò fu venduto ad un Macellajo. Quanto a me, protestar posso che mi trovava men inquieto della mia Balia, per una tal nuova. Aveva io gia smarrita la speranza di ricuperare un giorno la mia libertà, e per quello concerne il vituperio d’essere qua e là condotto a guisa di mostro, riflettei che in quel Paese io era un Forestiere, e che una tal disgrazia non potrebbe mai essermi rimprocciata in Inghilterra, se mai ritornato me ne fossi; poichè per la trafila medesima, o a buon grado, o a forza, passato sarebbe il Rè stesso della Gran-Bertagna, se trovato si fosse nelle mie veci.

Secondo il consiglio dell’Amico, aspettò il Padrone il primo giorno di mercato per trasferirmi in un cassettino alla vicina Città, non prendendo seco lui che la picciola mia Nutrice. Era il cassettino chiuso da tutti i lati, e non avea che una picciola porta, onde entrare, ed uscire io potea, e alcuni piccioli buchi per respirazione dell’aria. Glumdalclitch si era avvisata di riporvi il materasso del letto della sua fantaccia, per coricarmivi. A dispetto di tal cautella, il viaggio, che una sola mezz’ora durò, mi avea poco men che fracassato; mercè che i Cavalli avanzavano quaranta piedi per cadaun passo, e trottavano in maniera sì poco comoda, che un Vascello aggitato da una gran burrasca si eleva, e si profonda molto meno di quel che faceva io ad ogni istante. Aveavi dalla nostra casa alla Città vicina a un di presso tanta distanza, quanto da Londra a Sant’Albano. Si fermò il Padrone all’albergo suo ordinario, e dopo di aver consultato l’Oste, e fatti alcuni necessarj apparecchj, nolleggiò il Gruttrud, o sia pubblico banditore, per annunziare ad alta voce per tutta la Città, che all’Osteria dell’Aquilaverde vi era a vedersi una Creatura incognita; che questa Creatura non era per anche grande come uno Splacknuck; (animale del Paese di circa sei piedi) e che in tutte le membra del suo corpo rassomigliava ad un uomo; pronunziava molte parole, e faceva mille gentillezze.

Fui adagiato sopra una tavola nella stanza principale dell’Osteria: la quale stanza potea avere trecento buoni piedi in quadro. La picciola mia balia stavasene sopra un basso sedile acosto della tavola, per aver attenzione a me, e per ordinarmi ciò che far dovessi. Per issuggire la calca, volle il padrone che io non fossi veduto che da trenta persone per volta. Spasseggiai sulla tavola come m’imponeva la fanciulla; ella mi fece alcune dimande che ben sapeva che io avrei capite, e risposi col più alto tuono che mi fu possibile. Rivolto molte fiate agli Spettatori, dissi loro che erano i ben venuti, gli accertai de’miei rispetti, e mi servj d’altre frasi di già imparate. Presi un ditale riempiuto di liquore che mi fu sporto dalla picciola mia nutrice in guisa di coppa, e bevvi alla lor sanità. Trassi la mia spada, e schermj nell’aria, come i Mastri di tal arte fanno in Inghilterra. Provvidemi Glumdalclitch d’un bruscolo di paglia, con cui feci l’esercizio della picca, che aveva io appreso nella mia giovinezza. In quel giorno si fece mostra di me a dodici compagnie differenti; ed altrettante volte fui obbligato di ricominciare l’esercizio medesimo, finchè mi trovava mezzo-morto e di stanchezza, e di sbigottimento: poichè coloro che veduto mi aveano, sì strane relazioni avean fatte di me, che il Popolo, per un motivo d’interesse, stava sul punto di sforzare le porte. Non volle mai permettere il mio Padrone che chiunque si fosse mi toccasse, se si eccettui la fanciulla, e per prevenire qualunque inconveniente, si fecero regnare d’intorno alla tavola delle panche in tal distanza, che era impossibile l’arrivarmi. Con tutto questo, uno Scolaro briccone mi lanciò alla testa una noccivola, e buona mia sorte fu, ch’ei non colpì nel segno: perchè senz’altro mi avrebbe fatto saltar il cervello, essendo grossa poco men che una zucca. Ma almeno ebbi il piacere di vederlo molto ben villaneggiato, e poscia scacciato dalla stanza.

Pubblicar fece il Padrone per tutta la Città, che il giorno di fiera susseguente ei mi farebbe un’altra volta vedere, e nel tempo stesso presesi la cura di allestirmi una vettura più comoda, e con gran ragione; essendo che io mi trovava sì stracco del primo mio viaggio, e di tutte l’altre galanterie che mi si fece fare per ott’ore continue, che appena poteva io reggermi in piedi, e profferire parola. Bisognai di tre giorni innanzi di rimmettermi, e come fosse un destino che in casa stessa non dovessi avere un’ora di riposo: tutti i confinanti nostri, per più di cento miglia d’intorno, renderonsi all’alloggio del mio Padrone affine di vedermi, il che gran somme gli profittò. Così, tutto che condotto non fossi alla Città, pochissimo si era il mio respiro cadaun giorno della settimana, se non si mette in conto il Mercoledì il qual era la loro Domenica.

Il Padrone, veduto il vantaggio che egli da me ritraeva, formo il disegno di condurmi a tutte le più riguardevoli Città del Regno. Provvedutosi del bisogno per un viaggio di lunga corsa, e regolati i suoi domestici affari, prese congedo dalla sua Sposa li 17. Agosto 1703. due mesi, o circa, dopo il mio arrivo. Ci mettemmo in cammino per la Capitale, situata presso poco nel mezzo di tutto l’Imperio, e a più di mille leghe dalla nostra Casa; portando il mio Padrone in groppa del suo cavallo la figliuola Glumdalclitch. Mi aveva ella adagiato in un cassettino, e teneva questo nel suo grembiuletto; e il cassettino medesimo era stato guernito dalla buona fanciulla con un panno il più morbido che riuscille di ritrovare; non dimentica pure del letto della sua bambola, nè di quale altra cosa che, o necessaria, od aggradevole, credeva ella dovermi estere. Tutta la nostra compagnia fu un sol ragazzo della casa, il qual seguivaci a cavallo col bagaglio.

L’intenzione del mio Padrone si era di far mostra di me in tutte le Città che incontreremmo in sul cammino, e di lasciare la strada maestra, quando non si trattasse di fare che cinquanta o cento miglia per arrivare a una Terra, o a un Castello di qualche gran Signore; sviamento, ond’egli si lusingava di dover ricavarne qualche profitto; dopo di che, di rimettersi sul sentiero della Capitale ei divisava. Non facevamo noi che cenquaranta, o censessanta miglia per giorno: mercechè Glumdalclitch, per compiacermi, si lagnò d’essere faticata dal trottar del cavallo. A grado mio mi toglieva ella dal cassettino, per farmi prendere l’aria, e veder il Paese. Passammo cinque, o sei fiumi, più larghi che il Nilo, o il Gange; e pochi erano i ruscelli così stretti, che il Tamigi al Ponte di Londra. Dieci settimane consumammo in tal viaggio; ed io fui mostrato in diciotto gran Città, senza annoverare i Villagj, le Castella, ed alcune case particolari. Il venti e sei d’Ottobre alla Capitale giugnemmo, chiamata in loro lingua Lorbrulgrud; cioè, l’Ammirazione del mondo. Il mio Padrone prese ad affitto un Appartamento nella principale strada della Città vicino al Palagio Reale, e fece spargere de’biglietti, che contenevano una esatta descrizione della piccola mia persona. La stanza ove adunar doveansi gli spettatori, si stendeva fra i trecento, e quattrocento piedi; e sopra una tavola di sessanta piedi di diametro, cinta, in distanza di tre piedi dalla sponda, di un palizzato per guarentirmi dal cadere dall’alto al basso, doveva io rappresentar la mia scena. Dieci volte al giorno io era visibile, con grande stupore, e compiuta soddisfazione del Popolo. Già aveva io appreso l’alfabeto loro, e sapeva altresì valermi a proposito, quinci quindi, di alcune frasi; imperocchè Glumdalclitch avuta avea l’attenzione d’intuirmene, mentre ce ne stavamo in casa; e pel corso di tutto il viaggio me ne avea ella continuate le sue lezioni. Quasi sempre ella tenea in sua tasca un libricciuolo, il qual era poco più grande che un Atlante di Sansone: quest’era una spezie di Trattato per uso delle Donzelle, affine d’imprimer loro una compendiata idea della loro Religione. Di cotal libro servivasi ella per farmi conoscere gli caratterj, ed eziandio per inserirmi qualche intelligenza de’termini.

CAPITOLO III.

L’Autore è condotto alla Corte. La Regina il compra dal Fattor di Campagna, e il regala al Re. Ei disputa co’Professori di Sua Maestà; è alloggiato in Corte, ed è assai ben veduto dalla Regina. Difende l’onore della sua Patria, e con un Nano della Regina contrasta.

IL fatigante esercizio a cui io me ne stava condannato ogni giorno, avea alterata in poche settimane la mia sanità; e pareva che il profitto che di me ritraevane il mio Padrone, non servisse che ad accendere le brame di lui per un guadagno maggiore. Io non aveva più appetito, ed era orribile la mia estenuazione. Se ne avvide il Castaldo; e conchiuso avendo che per poco tempo potrei durarla, risolvette di non risparmiare cosa veruna per conservarmi una vita sì idonea ad aumentargli una fortuna, onde aveane egli goduto di sì felici principj. In tempo di tali divisamenti, sopraggiunse uno Slardral, o Scudiere della Corte, con ordine al mio Padrone d’immediate condurmivi, per ricrear la Regina, e le Dame di lei. Talune di queste già erano venute a vedermi, e raccontate aveano le più incredibili cose della mia bellezza, e del mio spirito. Sua Maestà, e tutto il suo seguito, restarono incantati al di là di qualunque esagerazione; ed io postomi ginocchioni, chiesi di aver l’onore di baciar i piedi della Regina; ma la graziosissima Principessa (collocato che io fui sopra una tavola,) mi stese il picciolo suo dito, che strinsi fralle mie braccia, e sulla cui estremità, col rispetto più profondo, applicai le mie labbra. Mi fece ella alcune generali interrogazioni in proposito al mio Paese, e a’viaggj miei; ed io supplj con le riposte così chiaramente, e in sì pochi termini, che mai ho potuto. Mi dimandò se volentieri passerei la mia vita in sua Corte: io feci un umilissimo inchino; e con un’aria tutta ossequio, dissi di appartenere al mio Padrone, ma che se io fossi l’arbitro di me medesimo, sarei troppo felice di poter consecrar la mia vita in servigio di Sua Maestà. La Regina allora ricercò al Fattore, se egli inclinerebbe a vendermi? Ei, che credeva che un solo mese camparla non potessi, non vi fece troppa difficoltà; e la sua dimanda fu di mille monete d’oro che sul fatto stesso sborsate gli furono; ed io osservai che ogni moneta era prodigiosamente massiccia. Ricevutasi la somma, dissi alla Regina, che poichè allora io era l’umilissimo schiavo di Sua Maestà, le chiedeva in grazia che Glumdalclitch, la quale sempre con tanta tenerezza avea avuta cura di me, ammessa fosse al servigio di lei, e continuasse a servirmi di nutrice, e di Maestra. Mi venne accordata la supplica, e non fu difficile il conseguirne l’aderimento del Fattore, molto ben contento che sua figliuola fosse allogata in Corte: e la povera ragazza medesima, dissimular non potè la propia allegrezza. Se ne andò il Padre bramandomi qualunque sorta di felicità, e aggiugnendo ch’ei mi lasciava in buona condizione: non risposi parola; e di fargli una picciolissima riverenza mi contentai.

Del freddo mio contegno ben avvidesi la Regina; ed uscito che fu il Castaldo della stanza, ne fui interrogato della ragione. Presi la libertà di dire a Sua Maestà, che io a colui non aveva altra obbligazione, che di non aver egli schiacciata una miserabile picciola creatura come me, quando mi avea rinvenuto nel suo Campo: obbligazione tale, onde io mi credea a sufficienza disimpegnato, pel profitto che egli avea ritratto in mostrandomi a mille e mille persone, e pel prezzo che testè avea ricevuto da Sua Maestà: Che la vita che io avea menata da che egli mi possedeva, era stata così penosa, che ammazzar potea un animale dieci volte più robusto di me: Che infinitamente la mia complessione ne avea patito per la fatica continua di ricreare qualunque genere di uomini in tutte l’ore del giorno: e che se il Fattore creduto non avesse in pericolo il viver mio, Sua Maestà non mi avrebbe avuto sì buon mercato: Ma che trovandomi allora sotto la protezione d’una sì grande, e sì buona Regina, lo Stupore della Natura, la Maraviglia del Mondo, l’Amore de’suoi Soggetti, e la Fenice della Creazione; io mi lusingava che si troverebbe deluso il timore del mio Padrone, poichè in me io già risentiva a rinvigorire una nuova vita, che dell’Augusta presenza di lei era l’unico effetto.

Si era questi il preciso del mio discorso; in cui, non vi ha dubbio, ho commessi molti errori di lingua, e m’incantai molte volte; ma l’ultima parte fu onninamente dello stile di quella Nazione, per alcune frasi che, in andando alla Corte, mi furono suggerite da Glumdalclitch.

La Regina ne pur badò a miei sbagli nella lingua; parve bensì sopra di trovare tanto spirito, e sì buon senso in un animale cotanto picciolo. Mi pigliò in sua mano, e portommi al Rè, che stavasene allora nel suo Cabinetto. Egli, che era un Principe austero, e di serietà, non discernendo molto bene la mia figura, con aria fredda, e di sussiego, dimandò alla Regina da quando in qua ella dilettavasi degli Splaknuck? essendo che, per razza di somiglianti bestie ei mi prendeva, in tempo che corcato sul mio stomaco me ne stava nella destra mano di sua Maestà. Ma la Principessa, infinitamente spiritosa, ed allegra, mi mise in piedi ad alto d’uno studiolo, e mi ordinò d’informare io medesimo il Re di cio che mi risguardava; il che eseguii in pochi termini: e Glumdalclitch, che mi attendeva fuor della porta del Gabinetto, e che mal soffriva di non avermi sotto l’occhio, introdotta che fu, confermò quanto era avvenuto dopo il mio arrivo in casa di suo Padre.

Il Re, tutto che fatto avesse il suo corso di Filosofia, e che si fosse dedicato con istudio alle Matematiche, avendo attentamente esaminata la mia figura, e scorgendomi passeggiare, prima che io parlassi pensò prendermi per un Automato, fatto per mano di qualche ingegnosissimo artefice. Ma udita che gli ebbe la mia voce, e trovato che io discorreva ragionevolmente, non pote occultare il proprio stupore. Il racconto da me fattogli della maniera del mio approdare al Regno di lui, per niente affatto il persuase, e crede che fosse una concertata favola tra Glumdalclitch e il padre di lei, che mi avessero insegnate alcune parole, e alcune frasi, affine di vendermi più caro. Un tal sofpetto fecegli propormi alcune quistioni, alle quali in un modo assai sensato sempre risposi, e senza diffetto di sorta, fuori d’un grand’imbroglio nello spiegarmi, d’un cattivo accento, e di alcune espressioni villane che in casa del Fattore io avea apprese, e che non erano del bell’uso della Corte. Sua Maestà fece chiamare tre Professori, che allora, secondo il costume del Paese, erano di settimana. Dopo di aver que’Signori spiata per qualche spazio dell’alto al basso la mia figura, furono di diversi pareri. Convennero solamente, che io non poteva essere stato prodotto secondo le leggi regolari della Natura, perchè io era privo del talento di poter conservarmi in vita, sia in volando per l’aria, o in rampicando sugli alberi, o in iscavando in terra de’buchi. Conchiuser eglino da’miei denti, che essi disaminavano con grande attenzione, che io era un animale carnivoro, con tutto ciò ignoravano quase stata fosse la mia nutritura; mercè che la maggior parte degli animali a quattro piedi era troppo pesante per me; e le talpe, del pari che alcune altre bestie, troppo leggiere. Secondo il loro credere, non restavano che le lumache: ed alcuni altri insetti; e pur ebbero la crudeltà di provar altresì co’dotti loro argomenti, che d’un tal genere di alimento non poteva servirmene. Uno di quegli Eruditi inclinava molto a credere che io fossi un Embrione, o al più un aborto. Ma quest’opinione fu rigettata dagli altri due, i quali osservarono che tutte le mie membra erano compiute, e perfette nel loro taglio; e che, stanti gli contrassegni della mia barba, i cui pel i distintamente ravvisavan essi con l’ajuto d’un Microscopio, io già avea vissuti alcuni anni. A patto veruno non vollero riconoscermi per un Nano, poichè inferiore a qualunque comparazione era la mia psccollezza: essendo che il Nano favorito della Regina, il qual era il più picciolo che si fosse veduto in quel Regno avea di altezza quasi trenta piedi. Dopo molti dibattimenti, decisero di comun accordo, che io era solamente Relplum Scalcath, cioè che i Latini chiamano Lusus Naturæ: Definizione esattamente conforme alla nostra moderna Filosofia; i cui Professori, sdegnando le cause occulte, colle quali i Discepoli Aristotelici cercano vanamente di mascherare la loro ignoranza, hanno inventato questo maraviglioso scioglimento di tutte le difficoltà, con grande avanzamento delle umane conoscenze.

Dopo una sì autentica decisione, chiesi la libertà di dire due sole parole. Rivoltomi verso del Re, assicurai Sua Maestà che io veniva da un Paese abitato da molti milioni d’uomini de’due sessi, e tutti della mia statura; che gli Animali, gli Alberi, e le case, vi erano nella proporzione medesima; e che per conseguenza io era del pari capace di difendermivi, e di trovarvi la mia sussistenza, che verun altro suddito di Sua Maestà nel suo Paese: e mi sembrò che una tale risposta fosse sofficiente per confutare gli argomenti di que’Signori. Non replicarono eglino che con un sorriso disprezzante; dicendo che io egregiamente avea ritenuta la lezione statami dettata dal Fattor di Campagna. Il Re, che era dotato d’uno spirito più penetrante ch’essi non l’erano, dopo di aver licenziati i suoi Savj, fece cercare il Castaldo, che per buona sorte non era per anche uscito di Città lo inquisì da principio da solo a solo: il confrontò poscia con Glumdalclitch, e con me; e corne non traballammo nelle risposte, cominciò a credere, che dir vero noi ponessimo. Pregò egli la Regina di dar ordine che si avesse buona cura di me, e credè ben fatto che la picciola mia balia continuasse a starsene meco, giacchè si era accorto che assai ci amassimo scambievolmente. Se le assegnò nella Corte un agiato appartamento, una Governatrice che avesse l’impegno dell’educazione di lei, una serva per abbigliarla, e due servidori per ubbidirle; ma quanto a me io era onninamente affidato alle sue sollecitudini. Comandò la Regina che sul modello di mio piacere, e di quello di Glumdalclitch mi si lavorasse un cassettino, perchè mi valesse di camera da letto. L’Operajo che vi s’impiegò, essendo espertissimo, in men di tre settimane mi fabbricò una stanza di sedici piedi in quadro, e di dodici in altezza con finestre invetriate, una porta, e due stanzucce. Potea la fronte del cassettino, col mezzo di due ganghesi, alzarsi ed abbassarsi, affine di riporvisi un letto, che l’Arziere di Sua Maestà teneva di già allestito, e che Glumdalclitch si compiaceva di preparare ogni giorno colle proprie sue mani. Un Artefice, che si era renduto famoso per la sua industria di lavorare in picciolo, imprese di costruirmi due sedili cogli schienali loro, e colle altre attenenze tutte, d’una materia rassomigliante di molto all’avorio, e due tavole con uno studiolo per qualunque mio uso. Era la camera imbottita da tutte le parti, insino il tetto, e il frontispicio, a cautela delle disgrazie quali si fossero, e che avvenir potevano per la negligenza, o balorderia de’portatori; e affinchè io men mi risentissi dello scuotimento in andando in cocchio. Dimandai che la mia Camera fosse serrata a chiavi, perchè i Topi, ed i Sorcj entrare non ci potessero. Dopo molti esperimenti, un Operajo fu sì perito, che travagliò la più picciola serratura che siasi mai veduta in quel Paese; avendo io conosciuto in Inghilterra un Gentiluomo, che ne avea una più grande all’uscio della sua Casa. Feci quanto potei per mettere la chiave nella mia tasca, per timore che Glumdalclitch non la perdesse. Diede por ordine la Regina, che si facessescelta della più fina seta pe’miei panni, e questi panni non erano gran fatto più grossi delle nostre coperte da letto in Inghilterra; dovendo io confessare che durai una estrema fatica per avvezzarmi vi. Erano i miei vestiti tagliati alla moda del Paese, la quale in sè stessa ha qualche cosa di decente, e ritiene una spezie di mezzanità fra la maniera dell’abbigliarsi de’Persiani, e quella de’Chinesi.

A poco a poco prese la Regina tanto piacere della mia conversazione, che ella più non poteva andar in tavola senza di me. Io avea una picciola mensa collocata su quella, alla quale pranzava Sua Maestà, ed un sedile. Stavasene Glumdalclitch in piedi al mio canto per servirmi, e averne cura. I piatti, ed i tondi di mio servigio che erano d’argento, in comparazione di quel della Regina, non eccedendo la grandezza di quegli che in tal genere vidi a Londra in una bottega, che servia d’addobbamento in una casa di fantoccia. La picciola mia balia avea l’attenzione di tenergli in sua tasca entro una scatola d’argento, recandomegli a misura del bisogno, e pulendogli ella medesima. Mangiavano con la Regina le sole due Principesse Reali; la maggiore di cui contava gli anni sedici di età, e tredici anni, e un mese la minore. Era solita Sua Maestà di porre sopra un de’miei piatti un pezzo di carne, ond’io poscia ne trinciava il bisogno, ed era un gran suo diletto di vedermi mangiare col sopraffine della delicatezza: mercè che ella, che era una mangierina, gonfiava in una sola volta la sua bocca con quanto dodici bifolchi Inglesi divorar potrebbono in tutto un pasto; il che mi riusciva uno spettacolo assai molesto. Per esempio, un’ala di Allodola, con tutte le sue ossa, servivale per una sola boccata, e pure quest’ala era più grande nove volte del più grosso Gallo d’Indie fra noi. Al talento mangione di lei esattamente si proporzionava quello del bere.

Stabilita costumanza di quella Corte si era, che ogni Mercoledì, (che, come già l’avvertii, passava colà come presso di noi la Domenica,) la Regina, e tutta la Famiglia d’entrambi i sessi, pranzassero col Re nell’Appartamento di lui. Io già di molto mi era innoltrato nella buona grazia di quel Monarca il quale ogni Mercoledì faceami collocare al sinistro suo lato, accanto d’una delle saliere; laddove negli altri giorni, il mio posto si era alla man sinistra della Regina. Compiacevasi assai il Principe d’intavolarmi quistioni sopra gli usi, la Religione, le Leggi, e le Scienze de’Popoli dell’Europa, ed io tutto faceva per contentare sopra questi punti la sua curiosità. Per quanto oscure che naturalmente parer gli dovessero alcune cose, ei non ostante, con estrema facilità le comprese, e maturamente profondo a qualunque mio racconto ben riflettè. Ma non posso non confessare, che essendomi allargato alquanto sul proposito della mia cara Patria: sopra il nostro commerzio; i nostri scismi in fatto di Religione, e le nostre fazioni dentro lo Stato, i pregiudizi dell’educazione ebbero sopra lui tanta forza, che prendendomi sulla sua destra mano, e gentilmente accarezzandomi con l’altra, ritenersi non potè dall’interrogarmi con uno scopio grande di ridere, se io era Vuhig, o Tory? Rivoltosi di poi al primo suo Ministro, che dietro di lui se ne stava in piedi col bianco suo bastone in pugno, meditò quanto spreggevoli fossero le umane grandezze, giacchè minuti insetti, qual mi era, tentavano di aspirarvi: e pure, egli diceva, ardirei di scommettere che quest’insetti hanno i lor titoli d’onore, che hanno piccioli nidi, e tane, che essi intitolano Palagi, e Città, e che affettano splendidezza nelle loro vestimenta, e ne’lor equipaggj; che amoreggiano, che combattono, che disputano, che s’ingannano, che si tradiscono. Sul tuono medesimo continuò egli per qualche tempo; ed io non saprei esprimere la mia indignazione, nell’intendere un discorso, onde la Patria mia, l’Augusta, la Maestra delle Arti e delle Scienze, il Soggiorno della verità, e della Virtù, e dell’Onore, e l’Oggetto dell’Ammirazione, e dell’invidia di tutto l’Universo, fosse sì crudelmente vituperata.

Ma come, da una parte, io non era molto in istato di vendicare somiglianti ingiurie; dall’altra, dopo di averci ben pensato, a dubitar cominciai se veramente fossi stato ingiurato, o nò. Essendo che, dopo d’essermi per alcuni mesi accostumato alla vista, e alla conversazion di quel Popolo, e di aver osservato che ogni oggetto, che io risguardava, trovavasi in una esatta proporzione di grandezze con tutti gli altri; l’orrore che io avea conceputo da prima, si era talmente dileguato, che se allora veduta avessi una truppa di Signori, e di Dame Inglesi in tutte le loro pomposità, e in tutte le affettate loro maniere che la pulitezza prescrive, per vero dire, patita avrei una violenta tentazione di ridere di essi di sì buon gusto, come il Re ed i Grandi di sua Corte il facevan di me. Ciò che vi ha di certo si è, che poco poco vi volea che io medesimo non mi rinvenissi ridicolo; quando la Regina, mettendomi sopra la sua mano rimpetto ad uno specchio ove io poteva interamente vederci emtrambi, accorgere mi faceva della sterminata nostra sproporzione.

Nulla più acutamente mi punse, nè maggiormente mi mortificò, quanto il Nano della Regina; il quale effendo di una piccolezza senza esempio nel Paese, (e per verità, non arrivava affatto alla misura di trenta piedi,) in tal modo insolenti, scorgendomi una creatura così menoma in confronto di lui, e che gli affettava di risguardarmi dal di sopra al di sotto, quando nell’Anticamera della Regina passava accosto di me, e in tempo che io stava collocato sopra una tavola a disputare co’Signori, e colle Dame della Corte; ed ei non trascurava altresì opportunità veruna di motteggiarmi, del che io procurava di ritrarne vendetta, col chiamarlo Fratello, collo sfidarlo, e con altre maliziosette furfanterie, che sono ordinarie ne’Paggj. In tempo di pranzo un giorno, fu sì piccato il picciolo briccone che non so che che io gli avea detto, che presomi pel mezzo il corpo, in tempo che a tutt’altro io badava che a una somigliante imminente disgrazia, mi lasciò cadere in un gran cattino d’argento empiuto di fior di latte, dopo di che se ne fuggì come il vento. Sprofondai in quella bianca sostanza perfino al di sopra delle ciglia: e se non fossi stato un buon nuotatore, avrei corso un gran risico d’affogarmi; poichè in quell’instante Glumdalclitch si trovava all’altra estremità della Camera, e sì spaventata per la mia caduta fu la Regina, che non ebbe prontezza di spirito per soccorrermi. Ma la mia Nutricina ben presto accorse, e mi tolse dal Catino, dopo che io avea ingojato più d’un boccale di fior di latte. Fui posto a letto, ma lode al Cielo i soli miei vestiti, interamente guastati, asciugarono quella burrasca, non essendo accaduto alla mia persona male di sorta. Molto bene restò stregghiato il Nano; e per maggiore mortificazione di lui, fu costretto a tracannare il fior di latte tutto, in cui egli mi avea gittato. Ma d’allora innanzi più egli in grazia non rientrò, avendolo la Regina regalato di poi a una Dama della prima qualità, cosicchè nol vidi mai più, cosa che assai mi piacque, perchè io non so esprimere fin a qual segno mi avrebbe trasportato il livore che io nutriva contra quel malizioso ribaldello. 

Ei già per l’addietro aveami praticato un disobbligante scherzo, che molto fece ridere la Regina, tutto che: se ne restasse ella nel tempo stesso sì disgustata, che sul punto scacciato l’avrebbe, se io medesimo non avessi avuta la generosità d’intercedere per lui. Sopra il suo tondo, la Maestà Sua aveva preso un osso empiuto di midolla; e toltane questa, rimesso avea ritto nel piatto l’osso medesimo nella situazione stessa ond’egli era da prima. Il Nano, che avea aspettato di far il suo colpo in tempo che Glumdalclitch se n’era gita alla Credenziera, montò sul sedile di lei, mi pigliò nelle sue due mani, e unendo insieme le mie due gambe, mi collocò perfino al ventre nell’osso votato della midolla, ed ove, negar non si può, io faceva una figura sovranamente ridicola. Credo che scorso siasene un buon minuto, innanzi che niuno sapesse ciò che fosse accaduto di me; imperocchè mi sembrava una mia viltà se gridato avessi. Ma come i Principi di rado mangiano caldo, le mie gambe nulla patirono; e non vi ebbe che le mie calze, e i miei calzoni, che la nuova foggia dell’Avventura pagarono. A mia intercessione se la passò il Nano con un solo buon carico di bastonate.

Mi motteggiava spesissimo la Regina in proposito alla mia timidezza: ed era solita di dimandarmi se i miei Compatriotti sossero sì gran poltroni come me? eccone l’incontro.

In tempo di State, le mosche di quel Regno sono furiosamente tormentose; e questi odiosi insetti, che tutti sono del taglio delle nostre Allodole, col loro continuato ronzio d’intorno alle mie orecchie, non mi lasciavano momento di quiete nel frattempo del mio pranzare. Talvolta si adagiavano sulla mia pietanza; ed erano eziandio sì impertinenti, che vi facevano le lordure loro; cosa che, per vero dire, in vedendola, non riusciva troppo saporosa per me, ma che i Naturali del Paese ravvisarla non potevano, poichè i lor occhj non erano sulla forma de’miei, per iscorgere oggetti così minuti. Alcune fiate si posavano sul mio naso, oppure sulla mia fronte, e mi pugnevano perfino al vivo; lasciandovi sempre de’marchj di quella vischioso materia, a cui elleno son debitrici della facoltà di camminare con la testa in giù sul frontispizio di qualunque corpo, come dicono i Naturalisti. Era indicibile il mio fastidio per difendermi da que’sozzi animali; e non potea di meno di stranamente agitarmi quando essi calavano sulla mia saccia. Una delle ordinarie malizie del Nano si era, di afferrare in sua mano un buon numero di que gl’insetti, a somiglianza degli Scolari fra di noi, e poscia di lasciargli volare di tutto un tratto sotto il mio naso, affine di farmi paura, e nel tempo stesso per ricrear la Regina. Io non sapeva altro rimedio che di tagliargli a pezzi col mio coltello, in tempo che svollazzavano per l’aria: Esercizio che io adempieva con industria tale, che mi attraeva gli applausi di tutti gli Spettatori.

Mi risovvengo, che una mattina che Glumdalclitch aveami adagiato sopra il margine d’una finestra, cosa che ella avea in costume tutti i giorni di bel sereno, per farmi prendere un poco d’aria, (essendo che io non mi arrisicava di lasciar appendere il mio cassettino ad un chiodo fuor del balcone, come noi in Inghilterra attacchiamo le nostre gabbie,) mi risovvengo, dissi, che avendo alzata una delle mie invetriate; e messomi a sedere alla mia tavola per far con un marzapane la mia colezione, più di venti vespe, invitate dall’odore, s’introdussero nella stanza, facendo più rumore col loro ronzio, che far nol potrebbono altrettante Cornamuse. Gettaronsi alcune sopra il mio marzapane, e a pezzi a pezzi se l’asportarono, si misero altre a svolazzare d’intorno alla mia testa, stordendomi col loro susurro, e cagionandomi uno spavento non mediocre co’loro pungoli. Ebbi, non ostante, il coraggio di levarmi, di dar mano alla spada, e di assalirle nell’aria. Quattro ne uccisi, andossene il resto, e chiusi la finestra dietro di loro. Erano quelle bestie così grandi come le nostre Pernici. Presi i loro pungoli, e trovai che essi erano lunghi un pollice e mezzo; e così aguzzi come le aguglie. Gli ho conservati tutti con somma cura, e con alcune altre curiosità gli ho mostrati in molti luoghi dell’Europa. Al mio ritorno in Inghilterra, tre ne ho regalati al Coleggio di Cresham, e il quarto l’ho ritenuto per me.

CAPITOLO IV.

Descrizione del Paese. Progetto per la correzione delle Carte Geografiche. Cosa fosse il Palagio del Re, e la Capitate. Maniera con cui l’Aurore viaggiava. Descrizione d’uno de’principali Templi di Lorbrulgrud.

MIO disegno al presente si è di esibire a’miei Leggitori una brieve descrizione di quel Paese; per lo meno, di ciò che ne ho veduto; non essendo io stato che a mille leghe in giro da Lorbrulgrud la Capitale; mercè che la Regina, la quala da me non era abbandonata mai, avea il costume di non accompagnar più lunge il Re ne’viaggj di lui, fermandosi nella mentovata distanza dalla Dominante fin al ritorno di Sua Maestà dalle frontiere. Tre mila leghe, più o meno, allungasi l’Imperio di quel Principe, e per due mila si dilata; cosa, che conchiuder mi fece, che i nostri Geografi di Europa an presi furiosi abbaglj, collocando una sola vasta estensione di mari fra il Giapone, e la California; poichè sempre fui d’opinione che esservi doveano Terre immense per contrappesare il Continente della Tartaria. Ecco perchè debbon eglino correggere le loro Carte Geografiche, unendo quel grande spazio di Regione al Ponente Libeccio dell’America; nel che io son prontissimo d’ajutar loro colle mie scoperte.

Il Regno è una penisola, circonscritta alla parte di Greco-Levante da una catena di monti alti quindici leghe, che è impossibile, a cagion de’Vulcani che nelle cime vi regnano, di sormontargli. Non è noto a chi che sia quale razza di gente sia abitatrice di que’dirupi; o se neppure vi si rinvengano uomini. Le tre altre parti an per confine l’Oceano. Non vi ha nel Regno Porto di mare di sorta; e i luoghi della Costa, ove le Riviere si gettano nell’Oceano stesso, son sì seminati di roccie, che di navigarvi co’più piccioli schifi non è possibile; e quindi ne proviene che quel Popolo non abbia assolutamente verun commerzio col rimanente dell’Universo. Ma ne’fiumi, che abbondano di pesci di squisìtissimo gusto, vi sono assaissimi Vascelli; conciossiacosache gli Abitanti pescano di rado nel mare, ove i pesci sono della grandezza medesima di que’d’Europa; non valendo per tal ragione la fatica di prendergli: nel che chiaramente apparisce, che il producimento di quelle piante, e quegli animali di mole sì smisurata, si è la Natura unicamente ristretta, a quel Continente, onde lascio a’Filosofi il discuterne la ragione. Di quando in quando, nulladimeno, prendono eglino delle balene che vanno ad urtare in quegli scogli, e con cui il Popolo minuto nobilmente si regala. Ne ho vedute alcune di grandezza sì sterminata, che un uomo sudava assai per portarne una sola in sulle sue spalle; e talvolta per curiosità se ne trasportano entro a panieri Lorbrulgrud. Una un giorno ne fu imbandita per la mensa del Re, e riputavasi per una rarità: io però osservai che egli non ne facea gran caso; immaginandomi che si trovasse nauseato dalla grossezza di quella bestia; comechè nella Nuova Zemhla di assai più grandi io vedute ne abbia.

E’popolatissimo quel Paese, contenendo cencinquanta Città, sì grandi che piccole, e un numero prodigioso di Villaggj. Per formar a chi legge una qualche idea di quelle Città, mi contenterò di fargli la descrizione della Capitale. Ella è traversata pel mezzo da una Riviera che la divide in due parti eguali. Vi si annoverano più di ottanta mila Case, e a un di presso secento mila Abitatori. Per tre Govglungs (che presso poco sono cinquanta quattro miglia Inglesi) stendesi la sua lunghezza; ed è larga due Gonglungs e mezzo; come io stesso in una Carta delineata per ordine espresso del Re, e che a tal effetto fu spiegata in terra, ne ho tolte le misure.

Il Palagio del Re non è già un Edifizio regolare; bensì molte fabbriche unite insieme, il cui circuito gira sette miglia, o circa. Dugento quaranta piedi di altezza, e lunghe e larghe a proporzione, sono le principali Stanze. Glumdalclitch, ed io, avevamo un Cocchio, entro il quale allo spesso la Governatrice di lei la prendeva per veder la Città, o le botteghe; ed io era sempre della compagnia accomodato nel mio cassettino; tutto che la buona ragazza mi togliesse fuori quante fiate io il desiderava; e mi tenesse in sua mano, perchè scorgere potessi le Case, ed il Popolo, quando per le strade noi passavamo.

Oltra il cassettino grande, in cui d’ordinario era io portato, la Regina lavorar ne fece per me un altro più picciolo, di circa dodici piedi in quadro, e di altezza di dieci, per viaggiare con maggior comodità: e questo, perchè il primo non potea ben addatarsi al grembiule di Glumdalclitch, e serviva di troppo imbarazzo nel Cocchio. Questa nuova moda di Gabinetto da viaggio, era un quadrato perfetto; tre lati di cui aveano, cadauno, una finestra nel mezzo, e ciascuna finestra una rete di fil ferro, per riparo di qualunque accidente ne’lunghi cammini. Nel quarto lato non aveavi finestra veruna; bensì due poderosi ritegni, onde il Cocchiere attaccava la mia piccola camera con un cinturone di cuojo a traverso del corpo di lui, quando mi prendeva la voglia d’uscirmene all’aria. Incombenza tale era appoggiata a qualche saggio e posato servidore; fosse che io accompagnassi il Re, e la Regina, ne’loro viaggj; o che visita facessi a qualche Ministro di Stato, o a qualche Dama della Corte, quando accadeva che Glumdalclitch indisposta si trovasse: essendo che guari non istetti ad essere conosciuto, e rispettato dagli Uffiziali della Corona; non tanto, secondo il mio credere, pel merito mio, quanto per la confidenza che mi testimoniava Sua Maestà. In viaggio, quand’io mi sentiva faticato dalla Carrozza, un servidore a Cavallo legava il mio cassettino con una fibbia, e collocava la innanzi a se sopra un guanciale; e allora poteva io vedere il paese da tre parti per le mie finestre. Io aveva in quello studiolo un letto da campagna, e un picciolo materasso appeso alla fronte, due sedie, e un tavolino, raccomandati con madrevitti al soffitto, perchè il muovimento del cavallo, o del cocchio, non gli rovesciasse. Tutto che violentissimi que’generi di muovimenti, men disagiavano me che chiunque altro, il quale non fosse stato avvezzo, come io l’era, agli agitamenti del mare.

Ogni volta che mi prendeva l’umore di veder la Città, sempre ciò seguiva nel mio Gabinetto da viaggio, che Glumdalclitch entro una sedia portatile teneva nel suo grembiule. Da qua tr’uomini era portata questa sedia, e scortata da due altri con la livrea della Regina. Il Popolo che frequentemente avea inteso a parlar di me, affolavasi d’intorno alla mia lettiga; e la mia balietta molto spesso si compiaceva di ordinar a’portatori di arrestarsi, mi pigliava in sua mano, perchè più distintamente ognuno mi ravisasse.

Io moriva di voglia di ammirare un famoso Tempio situato nella Capitale; e in ispezieltà la Torre, la quale passava per la più eminente del Regno. Mi vi condusse un giorno Glumdalclitch, ma cosa vera posso asserire, che molto restai deluso nella mia espettazione; mercè che l’altezza non trascendeva i tre mila piedi; il che, ben riflettutasi la differenza che vi ha fra il taglio di quel Popolo, e quel o degli Europei, non è poi un grande argomento di stupore; anzi, se non m’inganno, in fatto di proporzione col campanile di Salisbury, è quella molto inferiore. Ma, per non inferire torto veruno a una Nazione, a cui per tutta la mia vita professerò grand’obblighi, confessar si dee, che ciò che in altezza manca a quella famosa Torre, sofficientemente è risarcito dalla bellezza, e dalla fortezza di lei. Presso che cento piedi sono grosse le sue muraglie, e son costrutte di pietre dure; essendo ogni pietra di quaranta piedi in quadro, e tutte da tutti i lati adorne di simulacri degli Dei, e degl’Imperadori. Misurai un dito auriculare che era caduto da una di quelle statue, e il trovai appuntino di quattro piedi e un police di lunghezza. Inviluppollo Glumdalclitch in un fazzoletto, e lo portò in casa per unirlo ad altre bagattelluzze ond’ella diveniva pazza, come è solito delle fanciulle di sua età.

E’forza convenire che la Cucina del Re è un magnifico Edifizio, eretto in forma di volta, ed alto quasi che secento piedi. Il forno maggiore non è però sì largo come la cupola della Chiesa di S. Paolo; avendo io a bella posta, dopo il mio ritorno, prese le misure di questa. Che se entrar volessi in una specifica relazione delle suppellettili di cucina, de’pignati, de’caldaj, de’pezzi di carne che giravano agli spiedi, e d’altre cose di simil genere, si stentarebbe a credermi; per lo meno, una critica alquanto rigida taccerebbemi di esagerazione; che è solita della maggior parte de’Viaggiatori. Con tutto ciò, ben lungi dal meritarmi questa spezie di censura, temo di aver urtato nell’altro eccesso: e che se mai questo viaggio è traddoto nella lingua di Brobdingnag, (chè è il nome generale di quel Regno) e trasferito nel Paese, il Re ed il Popolo non si lagnino che io ingiuriati gli abbia, impicciolendogli in grazia della verisimilitudine. Di rado sua Maestà, nelle sue stalle ha un maggior numero di secento Cavalli; i quali, generalmente parlando, an cinquanta e quattro, e sessanta piedi di altezza. Ma, quando ella esce in certi giorni solenni, e scortata da cinquecento cavalli, che certamente era il più magnifico spettacolo onde io essere stato possa testimonio di vista; avendo ancora veduta una parte delle sue milizie schierate in battaglia, come nel progresso avrò l’opportunità di narrare.

CAPITOLO V.

Differenti Avventure ch’ebbe l’Autore. Sentenza d’un criminoso eseguita. L’Autore dà saggio della propia abilita nell’Arte Nautica.

IN un modo aggradevolissimo passato avrei il mio tempo in quella Regione, se la mia picciolezza non mi avesse esposto a parecchie Avventure per me pericolosissime, tutto che assai ridicole in se medesime. Ne farò il racconto di alcune. Ricreavasi sovente Glumdalclitch ne’Giardini della Corte portandomi nel mio più picciolo cassettino, donde ella talvolta mi traeva per mettermi a terra. Mi rammento che il Nano della Regina ci seguì un giorno in que’Giardini; e che avendomi la mia balia messo a terra, come trovavami solo con esso lui accosto di alcuni alberi nani, (eran questi de’pomieri,) non potei trattenermi dal praticargli qualche malizioso motteggio sul rapporto che aveavi fra quegli alberi e lui, chiamandosi eglino, a caso, in loro lingua, nel modo stesso che nella nostra. Per tutta risposta, colse il bricconcello la congiuntura che io mi stessi sott’una di quelle piante; e allora si mise egli a scuoterla sì forte, che una dozzina di mele cadde d’intorno a me: ma fra tutte, una ve ne fu, che piombando sulla mia schiena in tempo che io mi abbassava, fece che in sul terreno io dessi ben bene del naso: nè occorre farsene le maraviglie; poichè que’pomi anno co’nostri la proporzione medesima, che gli Abitanti del Paese anno con noi. Ecco tutto il male ch’ebbi; ed io stesso implorai a favore del Nano, perchè gastigato ei non fosse a motivo di un tale scherzo, da me medesimo, per altro, promosso.

Un altro giorno Glumdalclitch lasciommi sopra una motta di prato assai liscia, tempo che ella se ne stava spasseggiando in qualche distanza con la sua Governatrice; ed ecco nello stesso instante una grandine sì gagliarda, che ne fui improvvisamente gettato a terra. In tale costituzione, operava essa grandine le più dolorose contusioni per tutto il mio corpo; nulladimeno procurando di mettermi al coperto, mi ricovrai in quattro zampe sotto una spalliera di Cedri, ma così ammaccato da’piedi perfino alla testa, che vi volle più di dieci giorni innanzi che senza dolore potessi muovermi. Che se vi ha qualche incredulo di questo fatto, spero che sia per prestarvi fede, quando gli avrò detto che in quel paese i grani della tempesta son mille, e ottocento volte più grossi di que, che cadono in Europa: cosa più che certa, poichè io medesimo gli ho pesati, e misurati.

Ma nel Giardino stesso mi accadde un accidente, di gran lunga più pericoloso, un giorno che la piccola mia Nutrice, supponendo di avermi adagiato in un luogo ove io nulla dovessi temere, del che assai spesso ne la pregava; affine di darmi in preda con libertà a’miei pensieri; ed avendo collocato il mio cassettino a terra per non aver l’incomodo di portarlo, erasi renduta in un altro sito del Giardino con la sua Governatrice, ed altre Dame di sua conoscenza. In tempo di sua lontananza, un picciolo braccio, che apparteneva a un de’principali Giardinieri, entrato a fortuna nel Giardino, venne alla mia volta. Mi fiutò appena, che corse sopra di me, mi prese in bocca, mi portò al suo padrone, e mi pose bellamente a terra. Per la più grande delle buone fortune, e gli era stato sì bene instruito, che in portandomi fra i suoi denti, non mi cagionò verun male, e neppure daneggiò i miei vestiti. Ma il povero Giardiniero che ben mi conosceva, e che mi amava assaissimo, non se la passò senza una furiosa paura. Mi pigliò fra le sue mani, e mi chiese come me ne stessi; ma era sì enorme il mio spavento, e mi trovava così sfiatato, che una sola parola pronunziar non potei. Pochi minuti dopo me ne rinvenni; ed egli mi portò sano e salvo alla mia Nutrice, che in quel tempo si era restituita al luogo ove lasciato mi avea, e che stava in una terribile angoscia per non vendermi comparire, e perchè io non rispondeva alle sue affannose chiamate. Acremente rimbrottò ella il Giardiniero, per aver lasciato andar il Cane; ma la cosa restò sepolta, nè alla Corte mai si seppe cosa veruna del successo, temendo Glumdalclitch che la Regina non si adirasse contra di lei: e per quello tocca a me, usai di discretezza, perchè sembravami che l’Avventura non mi facesse troppo onore.

Un tal accidente risolver fece la mia Nutricina di non perdermi mai più d’occhio. Era già molto tempo che io temeva d’un somigliante disegno di lei: e perciò mi era indotto ad occultarle alcuni minuti miei sgraziati avvenimenti, in tempo che mi trovava solo. Un Nibbio che volava sopra il Giardino, piombò un giorno sopra di me; e se, dopo di aver data coraggiosamente mano alla spada, cacciato non mi fossi in un folto cespuglio, senza altro, asportato egli mi avrebbe fra suoi artigli.

Un altra volta mi sprofondai fino al collo in un buco di topinara, e fui costretto di dire una bugia per mascherare il vero motivo, onde i miei vestiti si erano tutti guasti. E infine un altra volta mi ruppi la dritta gamba urtando in un guscio di lumaca, su cui ebbi la disgrazia di cadere in tempo che me ne stava spassegiando solo, e che pensava alla mia povera Patria.

Non saprei dire quale de’due prevalesse in me, il piacere, o la mortificazione, quand’io osservava ne’miei solitari passeggj che i più piccioli Uccelli non ispaventavansi nel vedermi; anzi in distanza d’una sola verga andavano in busca di vermi, e di altri alimenti, con tanta sicurezza, come non avessero assai vicino anima vivente. Non mi dimenticherò mai che un tordo fu così sfrontato, che col suo becco mi asportò fuor delle mani un pezzo di focaccia, che Glumdalclitch data mi avea per farmene la merenda. Quand’io volea prendere alcuno di quegli Uccelli, essi coraggiosamente mi risistevano, procuravano di pugnermi le dita, e un momento dopo rintracciavano d’intorno a me de’vermi, o delle lumache, con l’indifferenza medesima, e con la medesima tranquillità di prima. Ma un giorno dato di piglio a un grosso bastone, colsi un fanello con un colpo sì forte, e di misura sì giusta, che rovesciatolo a terra, il presi con le due mani pel collo, e in aria di trionfo alla mia Nutrice il recai. Con tutto questo, come l’uccello non era che stordito dalla percossa, si riebbe, e con tanta forza si dibattè, che più d’una volta fui al cimento di abbandonare la preda; ma accorso subito in mio ajuto un servidore, torcè il collo al fanello, che per ordine della Regina fu il giorno dietro imbandito pel mio pranzo: Quest’Uccello, per quanto può la memoria servirmi, era poco pochetto, più grande che i Cigni nostri Inglesi.

Le Damigelle d’onore pregavano sovente Glumdalclitch di andare ne’loro Appartamenti; e di condurmi con esso lei, per goder del piacere di vedermi, e di toccarmi. Talvolta mi adagiavan elleno per lungo nel loro seno; cosa, che enormemente mi disgustava; mercè che per vero dire, non suonavano di troppo buon odore; il che non asserisco con la malizia di discreditare quelle amabili Fanciulle, per cui nodrisco la più possibile considerazione; ma credo che la mia picciolezza la cagion fosse della finezza del mio odorato; e che quelle illustri persone sembrassero sì saporose agli Amanti loro, quanto a’giovani Inglesi le nostre Donzelle. E in fine, io trovai che il loro naturale odore riusciva assai più soffribile di quello de’loro profumi. Sempre mi rammenterò, che uno de’miei intimi amici di Lilliput, un giorno che faceva un grandissimo caldo, e che io avea fatto molto esercizio borbottava d’un odore eccessivamente ingrato che esalava dal mio corpo, tutto che al pari di chi che sia io non patisca d’una somigliante incomodità. Ma conghietturo che l’odorato di lui fosse altrettanto fino a riguardo mio, come il mio l’era a riguardo degli Abitanti di Brobdingnag. E su tal proposito non posso dispensarmi dal rendere una sonora giustizia alla Regina mia Signora, e alla picciola mia Nutricina Glumdalclitch; e dal dichiarare amplamente che in Inghilterra non vi ha Dama, più ch’esse esente dal diffetto testè mentovalo.

Il più che mi spiaceva di quelle Damigelle d’onore quando la mia balia mi conduceva nel loro Appartamento si è, che elleno mi trattavano senza nè pur ombra di complimenti, e come una Creatura assolutamente senza conseguenza. Non vi ha foggia di libertà che non la prendessero me presente: e ben mi sarebbe cosa impossibile l’esprimere il disgusto che la maggior parte di quelle libertà mi cagionava. Una di loro fra l’altre la qual era d’un umore estremamente allegro, facea di me tutto ciò che le saltava in capo, e avvisavasi delle più scherzevoli pazzie del mondo; onde io tuttavia ne prendeva poco gusto, che pregai Glumdalclitch a non più espormivi.

Un giorno un Gentiluomo, che era Nipote della governatrice della mia balia, venne; e pregò entrambe di andar a vedere una Esecuzion di giustizia. Avea il reo ucciso un intimo amico di quel Gentiluomo. Glumdalclitch finalmente si lasciò cogliere dalla proposizione, tutto che contra suo genio, perchè per natura era molto compassionevole: E per quanto tocca me, non ostante che in ogni tempo io abbia avuto dell’orrore per ispettacoli di questa sorta, la curiosità di vedere qualche co a di assai straordinario la vinse sopra la mia inclinazione. Stava il paziente legato ad un sedile sopra il palco, e con un solo colpo di spada, lunga quaranta piedi, fugli levata la testa. Il sangue, che delle vene, e delle arterie uscì, era in tanta quantità, ed elevavasi a una tale altezza, che in suo confronto si sarebbono svergognati i getti d’Acqua di Versailles ed il campo, in cadendo sovra del palco, diede un sì gran colpo, che io ne tremai, ancorchè lontano un mezzo miglio Inglese.

La Regina, la quale assai sil compiaceva del racconto de’miei Viaggj di Mare, e che non perdeva opportunità di divertirmi quando me ne stava di mala voglia, mi dimandò un giorno se m’intendessi del reggere una vela, un remo, e se converrebbe alla mia sanità l’esercitarmi alcuna volta nel vogare. Le risposi che io me ne intendeva assai bene; e che non ostante che il mio impiego stato sia quello di Chirurgo del Vascello, nientedimeno, chiedendolo la necessità, io sovente avea fatta la funzione di semplice Marinajo. Ma che concepire io non poteva come ciò si avesse dovuto eseguire nel suo Paese, ove i più piccioli Navilj erano del caglio de’nostri maggiori Vascelli di guerra. Ella mi replicò che io solamente pensassi come il mio picciolo bastimento costruto esser dovesse, che il suo falegname adempierebbe gli ordini miei in tal proposito; e che ella stessa si piglierebbe la cura di farmi allestire un luogo addattato alla mia navigazione. L’Operajo, che era espeito nel suo mestiere, compiè nello spazio di dieci giorni una Scafa, tale che io ordinata l’avea, e agevolmente capace di dieci Europei.

Tanto se ne compiacque, e trovolla sì gentile la Regina, che collocata la nel suo grembiule, corse a mostrarla al Re, che comandò fosse riposta in una cisterna piena d’acqua, e se ne facesse, standovi io dentro, la pruova. Ma la Regina fatto avea per l’addietro un altro progetto. Avea ella ordinato al Falegname di formare una spezie di Truogolo che avesse trecento piedi di lunghezza, che cinquanta fosse largo, ed otto profondo. Questo Truogolo, dopo di essere stato ben impeciato perchè tenesse all’acqua, fu messo a terra in un Appartamento esteriore del Palazzo. In minore spazio di mezz’ora poteano facilmente due servidori empiere d’acqua quella macchina; e quivi entro me ne stava ricreandomi a far andar avanti, e indietro, a forza di remi, la mia Scafa; non potendosi, per altro, esprimere il godimento della Regina, e delle Dame; in ammirando la mia destrezza, e la mia agilità. Alcune volte io mi metteva alla vela; e allora l’unica mia occupazione si era di tenermi al timone, in tempo che le Dame, co’ventaglj loro, mi somministravano il vento a misura del mio bisogno; e quando erano stanche; i Paggj andar facevano la mio Scafa col soffiar nella vela, nel mentre che io faceva pompa della mia abilità, governando ad orza, e a poggia, secondo che me ne dava il capricio. Finito il mio esercizio, Glumdalclitch portava sempre il mio Vascello nel suo stanzino, e il pendeva a un chiodo per asciugarsi. Un giorno, uno de’servidori che erano incaricati di riempire due volte per settimana d’acqua fresca il mentovato Truogolo, senza avvedersene, misevi un grosso ranocchio, che, secondo tutte le apparenze, si era intruso nella secchia di lui, nell’attignere l’acqua. Il ranocchio non si lasciò mai vedere innanzi che io fossi posto entro il Truogolo con la mia Scafa; ma scopertossi da esso un luogo ove poteva riposarsi, vi si rampicò, e talmente fecela piegare da un fianco, che perchè non si rovesciasse sossopra, fui obbligato di gettarmi all’altro fianco per servirle di contrappeso. Entrato che fu il ranocchio, venne con un solo salto da una estremità della Scafa perfino al mezzo, e poscia sopra la mia testa dal davanti al di dietro spruzzando sulla mia faccia, e su’miei vestiti di quella vischioso materia, onde sempre abbondano questi Animali. La mole delle sue membra fece io il trovassi la bestia più spaventevole del Mondo; non ostante, supplicai Glumdalclitch di lasciarmi terminare, solo, la querela che io avea con esso. Per un mese continuo lo stregghiai molto bene con un de’miei remi; e alla fine a saltar fuori della Scafa lo sforzai.

Ma il maggior pericolo che in quel Regno io abbia corso, mi venne da una una Scimal, la quale apparteneva ad uno degli Scrivani d’Uffizio. Glumdalclitch, avendo qualche cosa a fare, o a rendere qualche visita, nel suo Gabinetto rinchiuso mi avea. Come regnava un gran calore, avea ella lasciata la finestra del Gabinetto aperta, e altresì le finestre e la porta del mio cassettino più grande, in cui per ordinario io mi tratteneva; essendo molto spazioso, ed eziandio assai comodo. Me ne stava asportato da un profondo pensiero; quando all’improvviso intesi qualche cosa che all’uscio del Gabinetto faceva strepito, e che saltellava da un luogo all’altro. Con tutto lo spavento che io aveva indosso, procurai, senza levarmi dal mio sedile, di spirare ciò che fosse: e vidi allora quell’infame bestia, che dopo di aver fatti alcuni salti, e molte sgambettate, accostossi al mio cassettino, che mi parve che ella risguardasse con suo piacere. Ritirai mi nell’angolo più rimoto del cassettino medesimo; ma la Scimia che non lasciava una finestra che per mettersi, un instante dopo, in su d’un’altra, tanta paura ella mi fece, che non ebbi la prontezza di spirito di nascondermi sotto il letto, come avrei potuto assai facilmente. Finite le sue contemplazioni frammescolate di morfie, finalmente mi ravvisò; e avanzando per la porta una delle sue zampe, come appunto fanno i gatti quando si trastullano con un sorcio, tutto spesse volte cambiassi di luogo per non essere afferrato, mi colse alla fine pel lembo del mio vestimento, (ch’era d’un panno fortissimo, ed assai massiccio del Paese,) e mi trasse fuori del cassettino. Mi pigliò nella sua zampa d’avanti, e mi tenne come una balia il suo bambino in positura di dargli il latte; e precisamente come vidi fare la razza, medesima d’animale co’gattucj in Europa: e quando io cercava scuotermi, sì forte colei mi teneva, che giudicai miglior partito il non fare un menomo muovimento. E’assai probabile cosa che ella mi prendesse per qualche scimmiotolo della sua spezie, mercè che in tempo che mi teneva con una zampa, mi accarezzava con l’altra. Uno strepito che la bestia sentì alla porta del Gabinetto, come se alcuno volesse entrarvi, interuppe cotale divertimento: ed ella presto saltossene sulla finestra ond’era entrata, quindi su’tegoli e sulle grondaje, camminando in tre zampe, e tenendomi nella quarta, finchè all’alto del Palagio arrivata fosse. Glumdalclitch l’avea veduta saltando fuori della finestra, e aveva gettato un grido che fu da me sentito. Trovavasi la povera ragazza in una furiosa commozione. Tutta la Regia in un istante si mise sossopra; e i servidori si affrettavano di rintracciar delle scale. Molte centinaja di persone scorgevano distintamente la scimia sul tetto del Palagio che mi teneva fralle sue braccia, e mi accarrezzava come un piccino de’suoi. Uno spettacolo sì curioso rider faceva la maggior parte degli astanti; e, per dir vero, non saprei troppo biasimargli, perchè egli è certo, che all’eccezione di me, ognuno rinveniva la cosa perfettamente ridicola. Pensarono alcuni di voler gettar delle pietre all’animale per isforzarlo a venir a basso; ma espressamente fù ciò proibito: e gran buona sorte per me; poche senza questo, per un eccesso di amore, avrebbesi potuto ben accopparmi.

Inalberatesi le scale, molti uomini vi salirono per soccorrermi, il che appena vedutosi dalla scima, ed altresì l’impossibilità di fuggirsene con la sua preda camminando con sole tre zampe, mi adagiò ella sopra un bucato tegolo, e se ne andò. Ivi me ne ristetti per qualche tempo in distanza di trecento verghe da terra, aspettando ad ogni momento che il vento mi gittasse a basso, oppure che qualche capogiro rotolar mi facesse da’tegoli in una grondaja. Ma un de’servidori della mia Nutrice, il qual era un obbligantissimo giovane, si rampicò perfino a me, e dopo di avermi posto in una saccoccia de’suoi calzoni, mi portò a terra sano, e salvo.

Lo sbigottimento, e il dolore, cagionatimi da quella brutta bestia, mi produssero una malattia, che per quindici giorni mi tenne obbligato al letto. Il Re, la Regina, e tutti i principali Signori della Corte, mandavano, tutti i dì, per sapere dello stato mio, e la Regina in persona, in tempo della mia infermità, volle avere la compiacenza di farmi molte visite.

Quando dopo il mio ristabilimento fui presso il Re per attestargli i propj miei doveri, e ringraziarlo di tutte le sue beneficenze, fecemi egli qualche motteggio sopra l’Avventura, unica cagione dell’incomodo mio. Mi dimandò ciò che pensassi, e quali specolazioni fossero le mie, in tempo che la Scimia mi teneva fralle sue zampe; e di qual tempera avessi trovata l’aria che respirasi in su del tetto del Palazzo? Qual partito avreste preso, egli aggiunse, se somigliante cosa fossevi accaduta nel Paese vostro? Risposi a Sua Maestà, che in Europa non abbiam noi la razza di simili bestie; e che altre non ve ne sono, fuor di quelle che per curiosità vi si trasportano; ma che erano tuttavia sì picciole, che agevolmente avrei potuto tener faccia con una dozzina, se avuta avessero la temerità d’assalirmi. Che quanto al mostruoso animale, (poichè senza esagerazione egli era del taglio d’un Elefante,) che aveami praticato uno scherzo così incivile; se il mio spavento mi avesse lasciato l’uso libero della mia spada, (nel così dire io messi la mano sull’impugnatura, non senza un’aria d’intrepidezza,) quando egli avanzava la sua zampa nella mia camera, gli avrei forse impressa una tal ferita, che ci non avrebbe mancato di ritirarla, per lo meno così presto, come sporgevala. Fu espressa con un tal tuono questa risposta, che bastevolmente spiegava la mia indignazione per la proposta ingiuriosa che mi si faceva: E pure non servì ella che ad eccitare uno schiamazzio di ridere vie più oltraggioso. Patj la tentazione di andar in collora; ma le ne diedi lo sfratto; riflettendo che il presumere di farci valere presso que’con cui è impossibile in qualunque modo di misurarci, è la più pazza di tutte le follie.

Non passava giorno ond’io non regalassi di qualche ridicola scena la Corte, e tutto che Glumdalclitch mi amasse teneramente, non lasciava di narrar alla Regina tutto ciò che poteva promuovere il riso di lei a sole mie spese. Un giorno la sua Governatrice l’avea condotta a una lega dalla Città, per farle prendere un poco d’aria, trovandosi alquanto incomodata. Ancor io tenni accompagnata la mia Nutricina in quel Viaggio; ed ella essendo uscita della Carrozza, ripose il mio picciolo cassettino a terra in un viottolo. Spasseggiar io volea; ma per disgrazia mi abbattei in una bovina, sopra cui m’era forza di far un salto, per superarla. Mi accinsi ad effettuarlo; ma sì mal ci riuscj, che precisamente vi saltai nel mezzo, e mi vi profondai perfino alle ginochia. Me ne trassi nella maniera migliore; e un servidore a piedi, così così col suo fazzoletto mi asciugò; mercè che sì diabolicamente io mi trovava letamato, che Glumdalclitch mi tenne nella mia cassetta finchè a casa fummo ritornati: ove immediate ne fu reccato alla Regina il ragguaglio della mia Avventura; il che per alcuni giorni a costo mio, fece scoppiar dalle risa tutta la Corte.

CAPITOLO VI.

L’Autore, con ogni sorta di mezzi procura di guadagnarsi la benevolenza del Re, e Della Regina. Da saggio della propia abilità nella Musica. Informasi il Re dello stato dell’Europa, e l’Autore soddisfa ampiamente alla curiosità di lui. Riflessioni del Re sopra quanto gli ha raccontato l’Autore.

UNa, o due volte per settimana mio costume si era di trovarmi al levarsi dal letto del Re; e con poche fiate fui presente quando il suo barbiere il radeva; il che, innanzi che mi avvezzassi, mi sembrava uno spettacolo orribile: poichè il raso io era triplicamente luogo quanto una falce comune. Secondo il costume del Paese. Sua Maestà si facea radere due volte in sette giorni. Ottenni, una volta, dal barbiere un poco della saponata che adoprata egli avea, e trattine quaranta, o cinquanta peli, gli accomodai in un pezzo di legno che era formato in ischiena di pettine; ove, un’aguglia, io avea profondati alcuni buchi in eguale distanza. Si industriosamente assettai gli peli in questi bucci, che mi riuscì di farmi un pettine, onde servir mi potenva in difetto del mio, i cui denti, poco men che tutti, erano rotti: non essendovi per altro, verun Artefice nel paese, che avesse l’abilità di lavorarmene un altro. Quest’esperimento un secondo me ne suggerì, che mi tenne a bada per molti giorni. Pregai le Dame della Regina di mettermi a parte alcune pettinature de’capelli di Sua Maestà, onde in poco tempo n’ebbi una quantità ragionevole. Dopo ciò, feci venir da me il Falegname mio amico, il quale già, una volta per sempre, ricevuto avea l’ordine di travagliarmi in picciolo qualunque cosa che fosse di mio gusto, e gli dissi di far due sedie, della grandezza stessa di quelle del mio cassettino, ma che non avessero nè il fondo, nè lo schienale. Aveva io l’intenzione d’intrecciar i capelli in maniera che servir potessero di spalliere, e di sedili; a un di presso, come le sedie a fondo di canna che si praticano in Inghilterra. Compiuta che fu ogni cosa, ne regalai la Regina, che ripor le fece nel suo Gabineto, ove ella mostravale come rarità, e per dir vero, ni un vi fu che di maraviglia non ne restasse preso. Dissemi la Regina che mi sedessi sopra una di quelle scranne; ma a patto veruno ubbidirle non volli, protestando che piuttosto sofferte avrei mille morti, che di collocaro una parte sì indecente del mio corpo, sopra que’preziosi capelli, che servito aveano d’ornamento alla testa di Sua maestà. De’capelli medesimi formai altresì una galante picciola borsa, che in lunghezza non tirava più che cinque piedi, col nome della Regina a lettere d oro, di cui con permissione della Principessa ne feci un presente a Glumdalclitch. Veramente, anzi che per l’uso, serviva quella borsa per sola mostra, non avendo forza bastevole per sostenere il peso delle più massicce monete, e perciò la fanciulla alcune picciole leggierissime bagattelluzze solamente vi riponeva.

Il Re, che di Musica si dilettava all’ultimo grado, ordinava frequentemente de’concerti alla Corte, a’quali talvolta assisteva ancor io, accomodato sopra una tavola entro il mio cassetino. Ma era sì confusamente strepitosa quella Musica, che mi riusciva impossibile di distinguerne i tuoni. Ardisco pur di asserire, che tutte le trombe, e tutti i tamburi d’un Esercito, quando si suonassero, e si battessero tutti in una volta in un Appartamento medesimo, non arriverebbono a far tanto strepito, quanto ne fanno quelle sorte di armonie. Il mio metodo si era di far mettere il mio cassettino il più lungi che era possibile da’Musici; e poscia di chiuderne le porte, e le finestre; dopo di che io trovava assai sopportevole la loro Musica.

Essendo giovane, io aveva alquanto appreso a suonar di spinetta: Una ne tenea in sua camera Glumdalclitch, e un Mastro andava a darlene la lezione due volte per settimana. Dico che era una spinetta; perchè quel musicale strumento molto le rassomigliava, e per la figura, e pel modo di servirsene; mi venne in pensiero di ricreare il Re, e la Regina, suonando su quello strumento un’arietta Inglese. Ma, oh quanto sudai per riuscirvi! mercè che la spinetta era lunga più di sessanta piedi, e ogni chiave, d’un piede larga; cosicchè in istendendo tetto il mio braccio, io non ne poteva scorrere più che cinque, e oltracciò sarei stato obbligato di dare de’furiosi colpi di pugno per abbassarle, e tanto e tanto non ne avrei ottenuto l’intento. Ecco quale fu la mia invenzione. Allestj due bastoni tondi, più grossi da una parte che dall’altra, e ricoprj la loro estremità più grossa con un pezzo di pelle di sorcio, affinchè in battendo non restasse danneggiata la parte superior delle chiavi, e che lo strepito de’colpi, ingratissimamente non si confondesse col suono che la spinetta renduto avrebbe. Al d’avante di quello strumento collocossi un banco più basso di quattro piedi che le chiavi, ed io fui adagiato su questo banco. Vi scorsi sopra, ora da un canto, ora dall’altro battendo co’miei due bastoni le chiavi necessarie, e procurando di suonare una Giga, che parve fosse intesa con gran piacere dalle loro Maestà: ma posso realmente dire che a’giorni miei non ho praticato un sì violento esercizio; e pure mi fu impossibile di scorrere più di sedici chiavi, e per conseguenza di toccare il basso, ed il soprano insieme, come fanno altri Musici; il che avrebbe aggiunta una nuova gentilezza alla mia Giga.

Il Re, che, come il dissi, era un Principe di somma abilità, e spiritosissimo, spesse volte mi facea portare nel mio cassettino, e riporre sopra una tavola nel Gabinetto di lui; dopo di che mi comandava di prendere un de’miei seggi, che i faceva mettere con esso meco al di sopra del cassettino, in distanza di tre verghe dalla sponda; il che più o meno, mi costituiva a livello della faccia di Sua Maestà. In questo modo godei di molte conversazioni con esso lei. Presi un giorno la libertà di dirle, che il dispregio che Ella testimoniava per l’Europa e pel rimanente della Terra, non mi sembrava va accordarsi con quel maraviglioso discernimento, che io sempre avea in lei ravvisato. Che i gradi d’intelligenza non erano regolati secondo la grandezza de’corpi: Che pel contrario osservavasi nel mio Paese, che le persone più grandi, per ordinario, n’erano le men provvedute: Che fra gli animali, le Api, e le Formiche, passavano per le più industriose, e le più sagaci. E che tal che io le pareva, mi lusingava di poter renderle qualche segnalato servigio. Mi ascoltò il Re con attenzione, e di là in poi, egli formò di me un giudizio del tutto opposto. Pregommi di dargli una idea, la più esatta che potessi, del Governo dell’Inghilterra; imperocchè, diceva egli, per quanto sieno comunemente intestate le Nazioni de’propj loro costumi, sarebbegli un gran piacere di apprendere qualche cosa che egli imitare potesse.

Quante volte, e con quale brama io non mi sono augurata in quel momento l’eloquenza d’un Cicerone, o d’un Demostene, per celebrar degnamente tutte le lodi, onde è degna a sì giusto titolo la cara mia Patria!

Cominciai il mio discorso dall’informanre Sua Maestà, che i nostri Stati consistevano in due grand’Isole, che formavano tre possenti Regni sotto un solo Sovrano, non comprese le nostre Colonie d’America. Insistei lungo tempo sopra la fertilità del nostro Territorio, e sopra la tempera del nostro Clima. La trattenni poscia sopra la Costituzione d’un Parlamento Inglese, formato, in parte, da un Corpo illustre, dinominato, la Casa de’Pari, che era d’Uomini d’un Sangue il più nobile, e di Famiglie le più antiche del Regno. Le parlai della straordinaria sollecitudine che sempre prendevasi della loro educazione, affin di rendergli idonei ad essere Consiglieri nati del Re, e del Regno; ad aver parte nella Potestà Legislativa; ad esser Membri della Corte più alta di Giustizia, le cui decisioni sono inappellabili; e a difendere con la loro saggezza, e col loro valore la loro Patria, e il loro Re, contra tutti gl’imprendimenti de’loro nemici: Che eran eglino l’ornamento, e il Baluardo del loro Paese, degni successori degl’Illustri lor Avoli, la cui virtù non aveano giammai smentita: Che ad essi, come Membri ad un medesimo Corpo, erano uniti Personaggj d’una eminente pietà, sotto il titolo di Vescovi, onde la peculiar funzione si era d’invigilare al sostegno della Religione, e all’instruzione del Popolo: Che erano sempre scelti dal Re, e da’più saggj Ministri di lui, fra que’che si distinguevano nel Sacerdozio per la purità de’propj costumi, e per la profondità della propia erudizione.

Che l’altra parte del Parlamento consisteva in un’Assemblea, detta la Casa de’Comuni, e composta di Gentiluomini, e di ben agiati Borghesi, liberamente eletti dal Popolo medesimo, a cagion della loro abilità, e del loro zelo pel vantaggio della Patria: Che questi due Corpi formavano insieme una delle più Auguste Assemblee dell’Europa; e che in essi, congiuntamente col Principe, la Sovrana autorità risiedeva.

Le spiegai allora ciò che sieno le nostre Corti di Giustizia: Che que’che vi presiedono sono Interpreti venerabili delle Leggi, chiamati a mantenerci i nostri Diritti, e i nostri Possessi, a punir il delitto, e a proteggere l’innocenza. Le parlai della prudenza nell’uso de’nostri Erarj, e della grandezza delle nostre Forze, tanto marittime, che terrestri. Le feci l’enumerazione del nostro Popolo, calcolandone i molti milioni che aveavene di differenti Sette in materia di Religione, o di differenti Partiti in fatto di Politica. Non ommisi i nostri divertimenti; per dir brieve, nulla dimenticai di tutto ciò che io credeva poter far onore alla diletta mia Patria. E diedi fine con un Compendio Storico di quanto è accaduto, da un secolo in quà, o più o meno, di più riguardevole in Inghilterra.

Come si vede, era assai vasto l’Argomento: perciò vi vollero molte udienze; ognuna delle quali durò alcune ore, innanzi di poter votarla. Con grande attenzione mi ascoltò sempre il Re; e comechè non m’interropesse mai, non lasciò tuttavia passare cosa veruna senza riflessione, come con le quistioni susseguentemente propostemi, il diede a conoscere.

Detta che ebbi ogni cosa, mi fece Sua Maestà un gran numero di dimande, e di obbiezioni fu cadaun Articolo. M’interrogò sopra la maniera che praticavasi per coltivar i talenti dello spirito, e del corpo della nostra gioventù Nobile; e in qual genere d’occupazioni passava ella la prima, e la più disciplinabile parte della sua vita: Che si faceva, quando estinguendosi qualche Famiglia Nobile, bisognava riempiere il posto nella Casa de’Pari? Quali caratteri eran richiesti in que’che erano investiti del titolo di Lord: Se il genio della Corte, una somma di dannajo presentata a qualche Dama, o l’idea di rinforzare un partito opposto all’interesse pubblico, n’erano sovente le cagioni, creditrici di tali sorte di distinzioni? Fin a qual segno que’Signori eran versati nella conoscenza delle Leggi del loro Paese? Che conveniva che fossero ben eglino d’una grande abilità per poter decidere inappellabilmente quistioni, che risguardavano la vita, e i beni de’loro Concittadini: Se sempre rinvenivano molto esenti dalla taccia d’avarizia, e bastevolmente superiori al bisogno, perchè i regali, o altri criminosi motivi, non avessero la forza di corrompergli? Se i Signori, chiamati a mantenere la Religione, erano sempre innalzati al posto che occupavano, per motivo della loro capacità nelle materie che concernono la lor Professione, o della santità della loro vita? Se in tempo che essi non erano che semplici Cappellani, non disonoravansi mai con una vil compiacenza pe’soro Signori, di cui forse continuavano a seguir servilmente i sentimenti, dopo di essere stati ammessi a quell’Assemblea sì Augusta.

Il Re poscia desiderò d’essere instruito de’mezzi che si mettevano in pratica per essere eletto Membro della Casa de Comuni. Se uno Straniere non potea forse, a forza di denajo, farsi scegliere, con preferenza a un Signor del Paese, o a qualche Gentiluomo qualificato del contorno? Come poteva darsi, che ognuno sollecitasse con tanta premura il carattere di Membro di quella Ragunanza, (giacchè io gli avea detto che un tal intento sempre gli costava caro,) senza mercede di sorta, nè pensione veruna; essendo che, ei diceva, è troppo eminente un somigliante grado di virtù, perchè sempre possa essere sincero, e legittimo? Insiste poscia di sapere precisamente, se que’Gentiluomini zelanti, non istudiavano risarcirsi delle cure, e de’dispendj stati obbligati di fare, in sacrificando il Ben pubblico? A tali quistioni ei ne aggiunse un gran numero d’altre, che io penso non essere necessità di ripetere.

In proposito a quanto io gli avea detto delle nostre Corti di Giustizia, mi pregò Sua Maestà di darlene specificazioni sopra alcuni Articoli; nel che mi fu agevole di contentarla, perchè una volta mi trovai in risico d’essere interamente ruinato per una tediosa lite che ebbi nella Cancelleria, e che ho anche perduta con tutte le spese. Chiesemi quanto tempo s’impiegava, per ordinario, in decidere se giusta, o ingiusta fosse una cosa, e qual fosse il prezzo dell’ottenimento di questa decisione? Se gl’Avvocati aveano la libertà di difendere Cause notoriamente ingiuste? Se la Setta di Religione, o il Partito di Politica, non entrava mai nella bilancia della Giustizia, per farla chinare o dall’una, o dall’altra parte? Se tutti gli Avvocati eran uomini generalmente conoscitori delle Leggi dell’Equità; o solamente di alcune particolari costumanze della Città loro, della loro Provincia, o della loro Nazione? Se in tempi diversi aveano talvolta sostenute due contrarie sentenze in medesimo affare? Se componevan eglino una povera o ricca Comunità? Se riceveano qualche pecuniario riconoscimento per aver trattata, o consultata una Causa? E particolarmente se nell’inferior Senato ammettevansi mai come Membri?

Passò in oltre ad altre quistioni sopra l’amministrazione del pubblico Erario. Convien certamente dicevami Sua Maestà, che vi abbia tradito la vostra memoria; poichè non faceste montare che cinque, a sei milioni per anno le vostre Tasse, e qualche volta al doppio le vostre spese. Ella avea in ispezieltà fatta attenzione a quest’Articolo, perchè sperava, così ella diceva, che la cognizione della nostra condotta potesse giovarle molto, e tenerla lontana dagli abbaglj ne’suoi calcoli. Mi dimandò chi erano i nostri Creditori? E dove prenderemmo dannajo per pagargli? Stupiva che spesse volte portata avessimo la guerra, sempre gravosa, sì lontano dal nostro Paese. E’forza, diceva, che siate un Popolo molto rissoso, o che abbiate confinanti molto cattivi, e che per necessità i vostri Generali, più ricchi divengono che i vostri Re. Mi dimandò quali affari noi avevamo fuori delle nostre Isole, se eccettuansi il Commerzio, e la difesa delle nostre spiagge? Soprattutto si faceva incredibili maraviglie per intendermi parlare d’un Esercito mercenario, mantenuto nel mezzo della Pace, e nel seno d’un Popolo libero. Opposemi, che se eravamo noi governati di nostro assenso da uomini non che servivano che a metterci in iscena, non poteva Sua Maestà concepire di chi avevamo noi paura, o contro a chi pensavamo di batterci: e m’interrogò da chi meglio fosse difesa la casa d’un Particolare; se da lui stesso, da’suo figliuoli, e dal resto di sua famiglia; oppure da una mezza dozzina di vagabondi a caso presi nelle strade, e miseramente pagati; in tempo che possono eglino guadagnar mille volte più, scannando coloro che anno l’imprudenza di destinargli in lor guardie.

Nulla di più ameno riuscivale quanto la mia Aritmetica, nel far entrare nell’enumerazione del nostro Popolo, le differenti Sette di Religione, e le Fazioni diverse dentro lo Stato. Prostava Sua Maestà di non iscoprirvi ragione veruna, perchè que’che anno opinioni pregiudiziali al Pubblico fossero obbligati di cangiare, o obbligati non fossero di occultarle: E che come sarebbe una Tirannia in un Governo l’esigere la prima di queste cose, era una debolezza il non far osservar la seconda: imperocchè è ben permesso a un uomo il tener in Casa de’veleni, ma non già di vendergli per Cordiali.

Ella notò, che fra’passatempi della nostra Nobiltà, e di altre qualificate persone, io del giuoco parlato avea. Desiderò di sapere a qual età si cominciava, per ordinario, a prendere un tale ricreamento, e quando vi si rinunziava? Quale porzione di tempo vi si perdeva, e se mai il giuoco arrivava a ruinare una famiglia. Se taluni della plebaglia con la loro desterità potevano alcune volte far acquisto di ricchezze immense, e riddure gli stessi Nobili nella lor dipendenza; altresì inspirar loro, con la loro amistà, ignobili e codardi sentimenti, e costrignerli, per le sofferte perdite, ad apprendere e a saggiare sugli altri l’infame industria cheruinati gli avea?

Inorridiva Sua Maestà per la Storia che io aveale rappresentata del mio Paese nel corso del passato secolo, aggiugnendo, che ciò non era che una concatenazione di conspirazioni, d’omicidj, di ribellioni, di stragi, di rivoluzioni, di esilj; effetti i più esecrabili, che l’avarizia, la fazione, l’ipocrisia, la crudeltà, la perfidia, la rabbia, la viltà, l’odio, l’invidia, e l’ambizione, produrre possano.

In un’altra Udienza, racapitolò il Re tutto ciò che io detto gli avea, e comparò le risposte che io gli avea fatte, con le dimande ch’egli mi avea promosse. Prendendomi poscia fralle sue mani, e piacevolmente accarezzandomi, mi disse queste parole che io non mai dimenticherò, e neppur la maniera onde furono pronunziate. "Picciolo amico mio Grildrig, voi avete fatto un eccellente Panegirico del vostro Paese. Dimostrativamente avete pruovato, che l’ignoranza, l’infingardia, e il misfatto, possono talvolta intrudersi per necessità nel governo d’un Regno: Che le Leggi son meglio interpretate da quegli che vi anno più d’interesse, e più di abilità nell’oscurarle, e nel diluderle: Scuopro fra voi altri, alcuni tratti d’un ottimo Governo nella prima sua instituzione; ma di molto scancellati dall’abuso, e dalla corruttela: Da tutto il vostro racconto si deduce, che nè pure una sola virtù fra necessaria per essere innalzato ad alcuna delle vostre Cariche, molto meno; che gli uomini vi sieno annobiliti da’propj lor meriti; che sia avanzato agli onori ri il Sacerdozio in considerazione della pietà o del sapere; i Soldati per la loro condotta, o pel loro valore; i Giudizi per la loro integrità; i Senatori pel loro amore verso la Patria, o i Consiglieri per la loro saggezza. Quanto a voi, continuò il Re, che passata avete la maggior parte della vostra vita nel viaggiare, penso che abbiate sfuggite molte di queste inconvenienze. Ma per quanto io posso raccogliere dalla vostra relazione, e dalle risposte che vi ho estorte con grande stento, costretto sono di conchiudere, che il grosso della vostra Nazione è il più tristo, e il più odibile picciol verme, e cui la Natura abbia mai permesso di strisciarsi sulla superficie della Terra."

CAPITOLO VII.

Amor dell’Autore per la sua Patria. Ei fu al Re un’assai vantaggiosa obblazione, la quale tuttavia è rigettata. Ignoranza del Re in fatto di Politica. Angusti limiti onde ristringonsi le Scienze di quel Paese. Leggi, e Militari affari di quel Regno. Quali turbolenze l’agitarono.

NON aveavi che un amor estremo per la verità, che indur mi potesse a rispondere alle quistioni del Re con tanta schiettezza, con quanta io l’avea già fatto. Vane sarebbermi riuscite le rimostranze del mio resentimento, perchè sempre sarei comparuto ridicolo, e perciò soffogar dovetti nel mio cuore la passione, e lo sdegno, in tempo che la cara, ed Augusta mia Patria era trattata in un modo così ingiurioso. Ne patì tanta Afflizione, quanta ne può patire chi legge. Ma era così curioso quel Principe; e con tanta precisione m’interrogava su cadaun articolo, che peccato avrei contra le Leggi della pulitezza, e soprattutto contra quelle della gratitudine, se non gli avessi data tutta la più possibile soddisfazione. Con tutto ciò, dir deggio per mia discolpa, che procurai di diludere industriosamente molte delle dimande di lui, e che sopra cadaun particolare, io dava un tornio assai più vantaggioso, di quel che il potea permettere l’esatta verità: avuta avendo io sempre pel mio Paese quella lodevole parzialità, che con tanta giustizia Diogini di Alicarnasso racomanda uno a uno Storico. Con tutto il mio cuore avrei voluto occultare i difetti della mia Nazione, e riporvi in loro luogo le virtù nella loro luce più luminosa. Questa si era la mia intenzione nelle moltiplici conversazioni che ebbi con quel Monarca; ma per disgrazia, nè al mio genio, ne agli sforzi miei corrispose l’avvenimento.

Ma ciò che perfino a un tal qual segno compor dee l’Apologia di quel Principe si è, ch’egli viveva interamente separato dal resto del mondo; dal che provenivano che non avea notizie di sorta delle maniere, e delle costumanze delle altre Nazioni. Questa spezie d’ignoranza e sempre una sorgente feconda di prevenzioni, e produce necessariamente non so quali limitazioni d’idee, e di concepimenti, onde noi, del pari che i più colti Popoli dell’Europa, siamo del tutto esenti. E, per vero dire, la cosa sarebbe ben dura, se le conoscenze, che un Principe sì rimoto ha della virtù, e del vizio, servir dovessero di regola per tutto il Genere umano.

Per confermar il mio detto, e per mostrar con maggior chiarezza i miserabili effetti d’una educazione circonscritta da termini troppo angusti, voglio in questo punto far parte a’miei Leggitori d’un fatto, che forse agevolmente essi non potranno credere.

Per insinuarmi di bene in meglio nella buona grazia di sua Maestà, le parlai d’un ritrovamento scoperto da tre, o quattro secoli, più o meno, in qua, consistente nella manipolazione di certa polvere, un cui intero ammassamento, fosse pur grande quanto una montagna, saltava in aria, e in un istante restava consumato, con un fracasso più terribile di quello d’un tuono; e ciò immediate che una sola, soletta, scintilla vi volava al disopra: Che una certa quantità di questa polvere sequestrata con uno stopacciolo entro una canna di ferro, era valevole di cacciare una palla, pur di ferro, o di piombo, con una violenza, e una sì prodigiosa velocità, che non aveavi cosa che ne potesse sostenere lo sforzo: Che parimente vi erano di queste palle, che essendo sparate, rovesciavano non solamente file di Soldati intere con un sol colpo, ma abbattevano altresì in ruina le più massicce muraglie e sprofondar facevano de’Vascelli montati da molte migliaja d’uomini: Che quando queste palle erano unite insieme con una catena, fracassavano gli alberi, le antenne; in una parola, tutto ciò ch’esse riscontravano: Che spesse volte mettiamo questa polvere entro gran palle di ferro votte, che con arte, e con l’ajuto d’una certa macchina, sappiam lanciare dentro una Città assediata, e che con tal mezzo restava ucciso un gran numero di assediati nemici, e quasi tutte le loro Case erano ridotte in cenere: Che mi eran molto ben noti gl’ingredienti nella composizione della polvere stessa; che essi non costavano troppo, e non erano rari; Che per altro io mi comprometteva d’insegnare agli Operaj di Sua Maestà l’Arte di costruire quelle canne, d’una grandezza proporzionata a tutti gli altri oggetti che erano nell’Imperio di lei; e che le maggiori, più che i cento piedi di lunghezza eccedere non dovevano: Che venti, o trenta delle canne stesse, cariche con quantità convenevole di polvere, e di palle, poteano rovesciare in poche ore le muraglie della più forte Città del suo Regno, o mettere sossopra la Capitale, se mai ella si staccasse dalla dovuta sommessione agli ordini supremi di Sua Maestà. Io feci al Re quest’obblazione; supplicandolo di accettarla come un fievole contrassegno di quel riconoscimento; che le beneficenze di lui eccitato in me aveano.

Il Re, in udire la descrizione di queste terribili macchine, e dell’uso che io gli proponeva di farne, fu sorpreso da un orrore che non può esprimersi. Concepir non potea come un insetto sì debole, e sì minuto come me, (furono queste le stesse espressioni di lui) avea l’animo di pascersi d’idee sì inumane, e sì poco restar commosso, in parlando della disolazione, e della strage, che aveagli io detto essere gli ordinarj effetti di queste macchine sterminatrici, di cui certamente, diceva egli, qualche maligno Genio, e nemico dell’Uman Genere, dovea esserne stato il primo ritrovatore: Che per quello apparteneva a lui, ei protestava, che tutto che i nuovi scuoprimenti, sieno nell’Arte, o nella Natura, gli cagionassero un singolare diletto, contenterebbesi piuttosto di perdere la metà del suo Regno, che di apprendere un arcano sì abbominevole, onde proibivami se mi era cara la vita, di tenergliene discorso mai più.

Strano effetto di quella limitazine d’idee e di quella picciolezza d’oggetti, di cui parlai! Chi mai potrà credere che un Principe, il quale, per altro, possiedeva tutte le qualità che producono la venerazione, l’amore, e la stima; e il cui sapere, la saggezza, e la bontà, il rendevano l’ammirazione, e le delizie de’suoi Suggetti; per un picciolo vano scrupolo, che noi in Europa non sappiamo neppur che sia, lascisi scappare l’inestimabile opportunità di rendersi il Signore assoluto della vita, della libertà, e de’beni del suo Popolo? Ciò però che io ne dico, non è con intenzione di censurare gli altri talenti di quel Monarca, il quale, a cagion del teste mentovato avvenimento resterà molto pregiudicato nello spirito d’un Leggitore Inglese. Ma solamente disegno mio si è, di far osservare quanto massiccj sono i granchj che si prendono, quando non si riduce la Politica in iscienza; come il praticano i più gran Genj dell’Europa. Mercè che molto bene mi risovvengo, che un giorno disputando col Re, gli dissi che fra noi si avea composta una infinità di Volumi sopra l’Arte di governare; ma che contro alla mia intenzione, io gli diedi una picciolissima idea della nostra capacità. Ei mi protestò di avere un sommo dispregio per tutto ciò che chiamasi Misterio, Raffinamento, ed Imbroglio, sia in un Principe, sia in un Ministro. Non potea comprendere cosa io intendessi per Segreti di Stato, purchè di qualche Nazione rivale, o nemica, non si trattasse. Ristrigneva la Scienza del Governo in limiti molto angusti, circonscrivendola al buon senio, alla giustizia, alla clemenza, e alla pronta spedizione delle Cause sì criminali che civili, con alcuni altri comuni luoghi che non meritano riflessione: e stranamente pensava, che chiunque potea fare che due cannelle di biada, o due festuche d’erba crescessero sopra un mucchietto di terra, ove per l’addietro non cresceva che un solo, prestava alla sua nazione il maggiore de’più essenziali servigi.

Sono assai difettuose le conoscenze di quel Popolo, non consistendo che nella Morale, nella Storia, nella Poesia, e nelle Matematiche; nel che confessar si dee ch’egli è eccellente. Ma l’ultima di queste Scienze non è impiegata che negli usi della vita, e nel miglioramento dell’Agricoltura, e di tutte l’Arti Meccaniche. Per quello concerne le Idee, l’Entità, e le Astrazioni, non fu possibile il fargli concepir ciò che esse fossero.

Niuna Legge di quel Paese dee eccedere in parole il numero delle lettere del loro Alfabeto, che non sono più che venti e due. Ma per dir vero, poche ve ne ha di una tale intera lunghezza. Ne più semplici e più chiari termini son elleno espresse; ed è così stupida quella Nazione, che non sa interpretarle che in un solo senso. Anzi è un Capitale delitto il presumere di spiegar una Legge con una comentazione. Quanto alla spedizione delle Cause civili, e criminali, son sì pochi presso lei gli processi, che contra ragione ella vanterebbesi d’essere abilissima nell’una, o l’altra di queste cose.

Da un tempo immemorabile quanto i Chinesi ebbero que’Popoli l’arte della Stampa; ma le Librerie loro non abbondano di Volumi, imperocchè quella del Re, la quale passa per una delle maggiori, non ne contiene a un di presso che mille, adagiati in una Galleria di mille e dugento piedi di lunghezza, avend’io la permissione di valermi di qualunque Volume. Il Falegname della Regina avea formata in una delle stanze di Glumdalclitch una maniera di scala alta venti e cinque piedi, e ogni gradino di cui, cinquanta piedi era lungo. Alla muraglia facea io appoggiare quel Libro che io volea leggere; salendo poscia alla sommità della scala, dava principio dalla prima linea della pagina, camminando per fianco, finchè fossi pervenuto al termine della linea; dopo di che, quando bisognava, io scendeva un gradino, facendo sempre l’esercizio medesimo perfino al fondo della pagina.

Chiaro, maschio, e sonoro è lo stile di quella Nazione, ma non fiorito; perchè ella sfugge di servirsi di espressioni soverchie. Furon da me letti molti de’loro Autori; particolarmente que’che trattano della Storia, o della Morale; e fra gli altri con mio inesplicabile gusto, scorsi da capo a’piedi un vecchio Trattatello che trovasi sempre nella camera da letto di Glumdalclitch, e che apparteneva alla Governatrice di lei, Dama di gravità, e che non leggeva se non libri di Morale, e di divozione. Trattava questo libro della debolezza del Genere umano, e non era tenuto in pregio che dalle Donne, e dal semplice Volgo. Portommi la curiosità a vedere ciò che dir poteva su quest’argomento un Autore di quel Paese. Per appunto questo Scrittore toccò que’medesimi comuni luoghi, che sì perfettamente son noti a’Dottori nostri in Morale; rimostrando come l’uomo è un picciolo animale, spregevole, ed incapace d’ajutarsi da se medesimo, e di difendersi contra l’ingiurie dell’aria, e contra il furore delle bestie feroci: Quanto egli e inferiore in forza a una creatura, in velocità ad un’altra, a una terza in prudenza, e a una quarta in industria. Aggiugne; che in questi ultimi tempi la Natura avea degenerato dal primo suo vigore, e che altro più non produceva che piccioli aborti in comparazione de’decorsi secoli. Dice, ch’è assai probabile, che non solo la spezie degli uomini primitivamente fosse più grande, ma che eziandio ne’primi tempi vi deggiono essere stati de’Giganti, come da un canto l’attestano la Storia, e la Tradizione, e come dell’ossa prodigiose che si son trovate, lo dimostrano dall’altra. Pretende che le Leggi della Natura ricercavano, che al principio noi fossimo stati fatti d’una molto più robusta costituzione, e molto men suggetti a restar distrutti da piccioli accidenti, da un tegolo cadente da una casa, o da una pietra lanciata da un fanciullo. Da somiglianti ragionamenti tra e l’Autore molte morali conseguenze, di grand’uso per la direzion del vivere, ma che farebbe inutile di quì registrare. Quanto a me; non potei di meno di ammirare quanto general fosse il talento di rigirar le letture in moralità, e l’inclinazione degli uomini a lagnarsi della Natura. E ben penso, che dopo una esatta perquisizione, tali sorte di lamentanze, sì poco fondate sarebbono fra noi, come l’erano fra gli Abitanti di Brobdingnag.

Per quello risguarda i militari affari di que’Popoli, mi an eglino assicurato che l’Esercito del loro Re consisteva in cento settanta e sei mila Fanti, e in trenta e due milla Cavali, se pure il nome di Esercito convenir possa a un Corpo formato di Mercatanti collettizj di differenti Città, e di Fattori di campagna, i cui Comandanti sono semplicemente persone di qualità, senza paga, e senza ricompensa. Negar non si può che eglino assai bene intendono l’Esercizio, e che in eccellenza sono disciplinati; nel che non si rinviene poi un gran merito; mercè che come mai potrebbe essere la faccenda altrimenti, in un Paese, ove cadaun Castaldo è sommesso al padrone della sua Terra, e ogni Cettadino a’Magistrati della sua Città, eletti per isquittino secondo la pratica di Venezia?

Vidi di frequente la milizia di Lorbrulgrud a fare l’Esercizio in un gran campo presso della Città. Vi si potea annoverare venti e cinque mila Pedoni, e a un di presso sei mila Cavalli: riuscendomi, per altro, impossibile di numerargli con esattezza, a cagion del terreno che essi occupavano. Un Cavaliere, montato sopra un Cavallo di ragionevole taglio, avea in altezza più di cento piedi. M’incontrai un giorno di vedere tutti i Cavalieri di quel Corpo, nell’istante che il Comandante loro ne dava l’ordine, sguainare le loro spade tutti in una volta, e vibrarle nell’aria. Uno spettacolo di tal fatta, avea un non sò che di sorprendente, superiore a qualunque esagerazione. Fra lo stesso, come se sei mila balini avessero lampeggiato in diverse parti del Cielo in un tempo medesimo.

Tentavami la curiosità di sapere, come mai quel Principe, nel cui Paese era impossibile di penetrare, potesse essersi avvertito di raccogliere Eserciti, o di far instruire il suo Popolo nella Militar Disciplina. Ma pel soccorso della conversazione, e per la letura delle loro Storie; ben presto ne restai appagato; imperocchè dopo moki secoli, quegli Abitanti sono stati assaliti dalla medesima malattia, onde tante altre Nazioni sono suggette; voglio dire, che la Nobiltà si era applicata a rintracciarvi troppo potere, il Popolo troppa libertà, è il Principe troppo assoluto dominio. Per vero dire, avevasi provveduto con sagge Leggi a tutte queste inconvenienze: ma queste Leggi sovente erano state infrante dal alcuno de’tre Partiti; dal che, più d’una volta, n’erano prodotte guerre civili; l’ultima delle quali era stata felicemente terminata dall’Avolo del Principe Regnante, con una generale composizione: e la Milizia, il cui numero allora si era fissato di consentimento de’tre Partiti, dopo quel tempo si era tenuta esattamente nel suo dovere.

CAPITOLO VIII.

Il Re e la Regina fanno un giro verso le Frontiere, e l’Autore ha l’onore d’accompagnargli. In qual modo ei ritirossi da quel Regno. Ritorna in Inghilterra.

IO sempre avea presentita una forte lusinga di dover un giorno ricuperare la mia libertà, tutto che impossibile mi riuscisse di concepire con quali mezzi, o di formare alcun progetto che avesse l’ombra menoma di apparenza di poter ottenerne l’intento. Il Vascello, su cui io era stato, era il primo che si fosse giammai veduto sopra le spiaggie di quel Paese, e il Re avea dati gli ordini più precisi, che se qualche altro ve ne comparisse, tutto si facesse per prenderlo, e che con tutta la ciurma, e tutti i passeggieri, si conducesse sopra una carretta a Lorbrulgrud. Desiderava con sommo ardore Sua Maestà di aver qualche femmina dello stesso mio taglio, pel cui mezzo si potesse conservar la mia spezie: Ma io credo che avrei piuttosto sofferte mille morti, che espormi al risico di lasciar dietro a me una posterità, che fosse stata, o messa in gabbia come uccelletti di Canaria, o forse venduta a persone di carattere; non tanto, veramente, per farne degli schiavi, quanto delle curiosità. Confesso che io era trattato assai gentilmente, essendo il Favorito d’un gran Re, e le delizie di tutta la sua Corte: Ma con tutto questo, la figura che io faceva non mi sombrava convenire alla dignità del mio temperamento. Riuscivami impossibile il dimenticare quegli altri me medesimo, che nella mia Patria io avea lasciati, e mi moriva di voglia di trovarmi in mezzo d’un Popolo, con cui avessi una spezie d’uguaglianza, e in un Paese, ove spasseggiar potessi con libertà, senza temere d’essere schiacciato come un cagnuolo, o come un ranocchio. Ma più presto di quell’avrei sperato, sopravvenne il momento della mia liberazione, in un modo onninamente straordinario. Eccone la Storia, e tutte le circostanze con la più esatta verità.

Due anni già erano scorsi da che mi trovava nel Paese; e nel principiar del terzo Glumdalclitch, ed io, accompagnammo il Re, e la Regina in un giro che fecero le loro Maestà verso la spiaggia meridionale del Regno. Secondo il solito, io era portato nel mio cassettino da viaggio, che come già il dissi, era un galantissimo stanzino di docici piedi di larghezza; ed io avea ordinato, che con funi di seta egualmente lunghe mi si appiccasse una picciola materassa all’alto de’quattr’angoli dello stanzino stesso, affine di non risentirmi tanto dello scuotimento, quando un servidore mi portasse d’innanzi a lui marciando a cavallo; e altresì per dormirvi con tutto l’agio, quando mi trovassi in cammino. Nel tavolato superiore del cassettino, verso il sito della materassa ove io adagiava il capo, avea fatto fare all’Artefice un buco, o finestrino d’un piede in quadro, donde mi venisse qualche respiro d’aria mentre dormiva in tempo di caldo, e potevasi questo buco chiudere, o aprire con una picciola tavola, che da me con una ribalta alzavasi, e si abbassava.

Compiuto che fu da noi il nostro giro, giudicò opportuno il Re di andar a spassarsi per alcuni giorni in un Palagio che egli aveva presso di Flanflasnic, Città situata a diciotto miglia Inglesi della Marina: Glumdalclitch, ed io, eravamo estremamente lassi: per la mia parte, avea guadagnata una buona infreddatura; ma la povera ragazza si trovava così male, che non poteva lasciar la stanza. Era grande la mia impazienza di rivedere l’Oceano, sola, ed unica strada che mai si poteste aprire al mio scampo. Feci sembiante d’essere incomodato più che non l’era, e chiesi la permissione d’andarmene al lido per respirarvi alquanto d’aria, con un Paggio che io molto amava, e con cui talvolta io avea stretta gran confidenza. Non mi si svanirà mai dalla memoria la repugnanza ch’ebbe Glumdalclitch all’assentire a questa mia andata; nè la maniera ond’ella raccomandommi al Paggio di aver cura di me, struggendosi nel tempo stesso in lagrime, come se presentisse qualche cosa di ciò che stava per avvenire. Mi portò il Paggio nel mio cassettino perfin che arrivammo alla spiaggia; e allora gli dissi di ripormi a terra; ove alzata una delle mie invetriate, per qualche tempo gl’infelici miei sguardi sopra il mare vagarono. Me la passava male; sicchè mi dichiarai col mio conducitore, che volentieri riposato avrei alquanto sopra la mia matterassa, sperando che un poco di sonno mi avrebbe molto giovato. Mi vi corcai, e il Paggio chiuse la finestra, per timore che entrandovi l’aria, non m’incomodasse. Poco stetti, che m’addormentai; e tutto ciò che posso conghietturare si è, che nel frattempo del mio dormire, il Paggio, non immaginandosi mai che potessi correre risico di sorta, stava spassandosi nell’andar in busca d’uova d’Uccelli nelle fessure delle roccie; ricreamento, che io già avea veduto prendersi da lui, in tempo che per anche stavamente alla finestra. Chechè ne fosse in tal proposito; fui all’improvviso risvegliato da un violento colpo che sentj sopra l’anello fitto sopra la superior parte della mia cassetta, perchè mi si potesse portare più agevolmente. Mi avvidi che il cassettino si elevava molt’alto nell’aria, e che poscia con una prodigiosa velocità discendeva. Pensai che il primo scuotimento mi gettasse dalla materassa; ma di poi fu più regolato il moto. Molti furono i gridi mie, ma egualmente inutili, e guatando dalle mie finestre, che Cielo e che nuvole veder non seppi. Intesi precisamente al disopra della mia testa uno strepito somigliante a uno sbattimento d’ale, e solo allora cominciai ad accorgermi dell’orribilità della mia situazione. Indovinai che un’Aquila preso avea nel suo rostro l’anello della mia cassetta, con disegno di lasciarla cadere sopra una rupe, come una testuggine nella sua scaglia, e dappoi trarne il mio corpo per divorarlo: Essendo che, è sì ammirabile l’odorato di quest’animale, ch’ei sente la sua preda in una distanza assai grande quando anche più nascosta ella fosse che non l’era io, infra tavole che non aveano di grossezza due pollici.

Alcuni momenti dopo intesi che lo sbattimento d’ale più ingagliardiva, e vidi chiaro che il cassettino alzava ed abbassava continuamente. Parvemi che l’Aquila, (poichè non ho mai potuto togliermi dalla fantasia, che una non ne fosse, che nel suo rostro tenesse l’anello del cassettino,) fosse incalzata da qualche altro uccello; e di là a un instante osservai che io perpendicolarmente cadeva, ma con una rapidità sì portentosa, che mi sentivi di gia sfiatato. La mia caduta, poco più o meno, durò un minuto, e allora il cassettino poggiò sulla superficie del mare, e fecevi, in cadendo, un sì enorme fracasso, quanto quegli della cateratta di Niagara; dopo di che, per lo spazio d’un altro minuto mi trovai fra le tenebre, ed indi il cassettino cominciò a riaversi tanto, che potei verso l’alto delle mie finestre ravvisar lume. Senz’altro mi accertai che io era caduto nel mare. La cassetta pel peso del mio corpo, ed eziandio per quello degli arnesi che ella conteneva, e per le lamine di ferro ond’era armata ne’quattr’angoli all’alto, e al basso perchè ne fosse la struttura più forte, ondeggiava nell’acqua, profondatavi per cinque piedi. Pensai allora, come al presente il penso, che l’Aquila, volandosene col mio cassettino, stata fosse assalita da due, o tre altri uccelli della medesima, o d’una diversa spezie; e che tentando difendersi contro ad essi, che probabilmente voleano la loro parte della preda, fosse stata costretta di laciarmi cadere. Le lamine di ferro fitte sull’inferior tavola del cassettino, come le più massicce, mantenuto aveano l’equilibrio nell’atto della caduta, e impedito che l’urto dell’acqua nol mettesse in pezzi, e oltracciò, egli era sì ben connesso, e chiuso da tutti i lati, che pochissimo mare vi entrò. Fu non picciolo lo stento mio per togliermi dalla materassa, dopo di aver avuta la cautela di prima ricevere alquanto d’aria fresca, onde estremamente io bisognava, pel finestrino, con tal intento già stato fatto al di sopra del mio Studiolo.

Quante volte allora desiderato non mi sono presso la mia cara Glumdalclitch, da cui m’era allontanato per un’ora sola: E ben posso realmente dire, che nel forte de’propj miei infortunj, non potei di meno di compiagnere la povera mia Nutricina, e d’essere sensibile a’crepacuori che probabilmente stava per cagionarle la mia perdita. Pochi forse rinvengonsi Viaggiatori, che si sieno abbattuti in congiuntura così sgraziata come la mia; aspettando io a cadaun momento di scorgere messo in pezzi il mio cassettino, o inghiottito da’flutti. Ella era spedita per me se una menoma parte delle mie invetriate si spezzava. Vidi che entrava l’acqua per molte picciole fessure, che procurai di turare alla meglio, ed ebbi la sorte di ben riuscirvi. Con tutto questo, era molto deplorabile lo stato mio: o a buon’ora, o tardi, non poteva non abissarsi il mio cassettino, e quando pure da un risico, tale fosse egli stato esente, il freddo, e la fame, dovevano, senz’altro, farmi morire. Per quattr’ore continue mi son trovato in sì lagrimevoli circostanze, attendendo, e per ispiegarmi nel vero senso, bramando che cadaun instante fosse l’ultimo del mio vivere.

Ho già instruiti i miei Leggitori, che a quella parte del cassettino ove non vi era finestra di sorta, aveavi annessi due poderosi ritegni, ne’quali colui che mi portava andando a cavallo, avea l’attenzione di passare un centurione di cuojo, ch’ei poscia affibiava d’intorno a se. Nel mezzo delle mie angustie, sentii, o per lo meno credei di sentire, verso la parte de’ritegni mentovati, qualche strepito, e un momento dopo m’immaginai che il cassettino tratto fosse sul piano del mare; mercè che di tempo in tempo io sentiva che l’onde percuotevano le mi finestre, nella giusa stessa che un Vascello in viaggiando, fonde l’onde medesime. Ristettè in me allora un raggio tenuissimo di speranza; tutto che per anche non concepissi la possibilità della mia salvezza. Levai le viti che univano al solajo uno de’miei sedili, e poscia feci alla meglio perchè il sedile saldo al di sotto della picciola tavola che io testè aperta avea; dopo di che vi montai sopra, ed avendo avvicinata la bocca al finestrino quanto potei, mi messi fortemente a gridare, e in tutte le lingue che mi erano cognite. Indi a un bastone, che per ordinario io aveva meco, appesi il mio fazzoletto, che cacciai fuori del finestrino a foggia di banderuola, girandolo, e rigirandolo molte volte, affinchè in caso che qualche Vascello, o qualche schifo vicino ivi fosse, potessero i Marinaj indovinare che nella cassetta stavavi rinchiuso qualche sgraziato mortale.

Per quanto mi pareva, tutti i miei schiamazzi, e tutti i miei segnali non furono nè veduti, nè intesi; ma non ostante, chiaro ravvisai, che il cassettino ad essere tratto continuava. Un’ora dopo, quella parte del cassettino ov’erano attaccati i ritegni, ed ove non erano finestre, urtò in qualche cosa di consistente. Temetti che non fosse una roccia; e più che prima io sentiva le scosse. Al di sopra della cassetta intesi distintamente uno strepito somigliante a quello d’una fune che traesi per un anello. Vidi allora che la cassetta insensibilmente sorgeva; e che prima di fermarsi, era più alta di tre piedi che per laddietro. In tal caso ricominciai a nuove spese a chiamar ajuto, e a vogliere il mio fazzoletto; e un grido, che molte voci rimescolate insieme rendevano confuso, mi servì di risposta, e mi cagionò un trasporto tale di gioja, che solo da chi il saggiò può essere conceputo. Un istante dopo, sentì camminare sulla mia testa, e qualcuno gridando pel finestrino ad alta voce in IngleseSe vi sta alcuno qui abbasso che parli. Immediate risposi, che io era un Inglese confinato dalla spietata mia sorte nella più spaventevole constituzione in cui ma i siasi trovato uomo; e che io pregava per tutto ciò che essere può valevole a muovere a compassione, di trarmisi da quel carcere. Replicò la voce che io nulla avea a temere, poichè la cassetta era attaccata al loro Vascello; e che ben presto sarebbe venuto il Falegname per farvi al di sopra un buco, bastevolmente capace per estrarmivi fuori. Risposi, che ciò era inutile, e bisognava di molto tempo; che era ben meglio che alcuno de’Marinaj mettesse un dito nell’anello, e così togliesse il cassettino dal mare, per riporlo poscia nel camerino del Capitano. Un linguaggio di questa fatta feci credere a chi l’intese, che io vaneggiassi; ma taluno di coloro si mise a ridere di buon gusto; dovendo io con mia vergogna confessare, che io non badava di ritrovarmi allora fra uomini di mia forza, e di mia statura. Venne il Falegname, e in pochi minuti formò un’apertura di quattro piedi in quadro; fecevi poscia passare una picciola scala, sulla qual montai per rendermi nel Vascello.

Stordiva all’ultimo segno l’Equipaggio tutto, facendomi mille quistioni, alle quali tuttavia non sentivami di dare risposta. Dal canto mio non restai men attonito nel ravvisare tanti Pigmei: tali eglino sembrandomi, per essere stato sì lungo tempo accostumato a non vedere che mostruosi oggetti. Ma il Capitano, che appellavasi Tommaso Vvilcolks, uomo generoso, ed obbligante, osservando che io veniva meno, mi prese nel suo Camerino, mi recò un Cordiale per guarentirmi da uno svenimento, e corcar mi fece nel proprio suo letto, affinchè col riposo alquanto mi ristorassi; e certamente ne avea io un gran bisogno. Prima però di effettuarlo, diedi gli a conoscere che nel mio cassettino esistevano alcune robicciuole che mi farebbe spiaciuto di perdere; e fra l’altre, una buona picciola materassa, un galantissimo letto da Campagna, due sedie, una tavola, ed uno studiolo. In oltre; che la cassetta stessa da tutti i lati era foderata di bambagia, e di seta; e che s’ei si compiaceva di farla trasferire da qualcuno de’suoi Marinaj nel suo Camerino, gli avrei mostrato quant’io dicevagli, ed altre cosucce altresì. Intesisi dal Capitano somiglianti assurdi, che io sognassi ei credè. Con tutto ciò, (a quel che ne penso, per acquietarmi,) mi promise di darvi l’ordine; e portatosi sul Cassero, fece scendere alcuno de’suoi nel cassettino, e toglierne, come di poi il trovai, tutto ciò che di buono entro aveavi; ma i sedidi e lo studiolo, essendo uniti con madreviti al solajo, restarono non poco danneggiati dall’ignoranza de’Marinaj, che vollero a forza di braccia levargli. Veduto ch’ebbero non esservi più cosa che meritasse a ricuperarsi, lasciarono andar al mare il cassettino, il qual essendo aperto in diversi luoghi, guari non istette a sprofondarsi. E, per vero dire, molto gradì di non essere stato testimonio di vista di quello spettacolo, che mi avrebbe rinnovata la più infausta, e la più angosciosa memoria.

Dormì alcune ore, ma d’un sonno ad ogni instante turbato dalla meditazione del luogo ond’era io uscito, e de’pericoli che aveva scorsi: Nulladimeno, destato che fui, mi trovai assai meglio. Erano allora circa le ore otto della sera; e poco dopo il capitano ordinò che si servisse la cena, credendo ei già che io avessi pranzato da molto tempo. Fu assai benigna la conversazione di lui; e rimasti noi soli, ei mi pregò di fargli la relazione de’miei viaggj, e di narargli per qual accidente in quell’enorme macchina di legno trovato mi fossi. Dissemi, che verso il mezzo giorno, risguardando col cannocchiale, avea scoperta la mia cassetta, e che immaginandosi che fosse un Vascello, formato avea il disegno di procurar di raggiugnerlo, con la speranza di provvedersi di poco biscotto, onde cominciava a penuriarne il suo bastimento: Che nell’accostarsi; si era accorto del proprio errore, ed avea inviato lo schifo per sapere ciò che galleggiasse sull’acqua: Che le sue genti se n’erano ritornate assai attonite, giurando di aver veduta una casa fluttuante: Che egli beffatosi della follia loro si era messo in persona nello schifo, avendo prima dato ordine di riporsi nello schifo stesso un buon cavo: Che essendo il mare in bonaccia, con l’ajuto de’remi avea egli molte volte fatto il giro della mia cassetta, e considerato le mie finestre: Che avea ravvisati due ritegni da una parte che era tutta di tavole, senza aperture di sorta che dessero passaggio al lume: Che avea allora comandato a’suoi Marinaj d’accostarsi col Caicco a quella parte stessa, di assicurar il cavo ad uno di que’ritegni, e poscia di tirar la Cassa, (così ei chiama va la) fin al Vascello. Compiuta tal opera, ordinò che si raccomandasse un’altra fune all’annello che stava fitto al di sopra del cassettino, e che il si levasse con carrucole; il che quegli uomini eseguir non poterono che per due o tre piedi. Mi disse che ben gli era caduto sotto l’occhio il mio bastone, e il mio fazzoletto; e che aveane conchiuso che in quella sì strana spezie di prigione, se ne stesse rinchiuso qualche sventurato. Gli dimandai, se verso il tempo onde io era stato discoperto la prima volta, egli, o alcuno de’suoi, veduti avesse alcuni uccelli d’una prodigiosa grandezza nell’aria? La sua risposta fu, che parlando su questo proposito co’suoi Marinaj in tempo che io dormiva, uno d’essi gli disse di aver osservate tre Aquile che volavano verso il Ponente; ma che non vi avea fatta riflessione se fossero maggiori delle Aquile ordinarie; il che, alla prodigiosa altezza, ond’elleno si trovavano, attribuisco: ed egli indovinar non potè il motivo d’una tale mia interrogazione. Saper poscia volli dal Capitano, in quale distanza da terra ei credeva d’essere: disse, che secondo la sua opinione, n’eravamo, per lo meno, a un centinajo di leghe. Gli protestai che egli prendeva abbaglio almeno per la meta; poichè non erano che due ore che io lasciato avea il Paese onde io veniva, quando cadei nel mare. Questa risposta fecegli di nuovo credere che avessi la fantasia stravoltra; il che bastevolmente ei diede a conoscere, dicendomi che me ne andassi a dormire in uno stanzino fattomi di già allestire. L’assicurai che la sua conversazione più mi giovava del riposo che prendere potessi; e che per altro io mi rinveniva nel mio buon senso, che non l’era mai stato per tutta la mia vita. Egli allora con un suono di serietà, mi dimandò in confidenza, se forse io avessi lo spirito intorbidito dal rimorso di qualche misfatto orribile, per cui, per ordine di qualche Principe fossi stato punito, coll’essere rinchiuso in cassa, e gettato in mare, nella guisa che in altri Paesi, entro una barchetta, senza provvisioni di sorta, espongonfi i criminosi di prima classe alla discrezione dell’onde? Soggiunse; che non ostante che gli spiacesse che il suo Vascello servito avesse di asilo a uno scellerato, impegnavasi nulladimeno di mettermi sano e salvo a terra nel primo Porto che afferrato avessimo. Aumentavano i suoi sospetti, ei proseguiva, da non so quali discorsi assurdi che io da prima tenuti avea co’Marinaj, e poscia con lui medesimo; ed eziandio dalla tetra mia aria, e da’torbidi miei atteggiamenti.

Il supplicai di soffrire il racconto della mia Storia; il che eseguì con la più esatta fedeltà, dalla mia partenza dall’Inghilterra, perfino al momento ch’egli mi avea discoperto. E come la verità possiede sempre una tale quale possanza sopra spiriti ragionevoli, non sudai molto nel persuadere il mio Capitano, il qual avea qualche tintura di sapere, un buon uso di ragione, della mia candidezza, e della mia veracità. Ma per maggiormente convincerlo, il pregai di dar ordine che mi fosse recato il mio Studiolo, la chiave di cui io già teneva in mia saccoccia, essendomi già stato notificato ciò che i Marinaj fatto aveano del mio cassettino. In presenza di lui aprì lo Studiolo, e gli feci mostra della picciola raccolta di rarità che io avea fatta nel Paese, donde in un modo sì miracoloso testè io era uscito. Gli posi sotto l’occhio il pettine che io avea formato co’peli della barba del Re; un gran numero di aguglie, e di spilletti, i più minuti  de’quali erano lunghi un piede; e i più grandi una mezza verga; alcune pettinature de’capelli della Regina: e un anello d’oro onde ella un giorno con la più galante maniera del mondo mi regalò, traendolo dal suo picciolo dito, e adatandolo al mio collo a guisa di collana. Sollecitai il Capitano ad accettare l’anello stesso come un tenue contrassegno della mia riconoscenza, ma ei non volle acconsentirvi mai. In fine, per non lasciare dubbio veruno sopra il punto della mia veracità, fecegli vedere i miei calzoni, che erano fatti della pelle d’un solo sorcio.

Non ci fu modo di fargli prendere cosa veruna, se eccettuisi il dente d’uno Staffiere, che vidi essere da lui disaminato con gran curiosità, e di cui ei mi sembrava molto invogliato. Il ricevè con ringraziamenti tali, che non erano, per nulla affatto, alla picciolezza del dono proporzionati. Questo dente, che era sanissimo, nè per sogno guasto, avea appartenuto a un Palafreniere di Glumdalclitch, a cui uno stolido Chirurgo strappato l’avea, in luogo d’un altro che gli doleva: mel feci dare per conservarlo nel mio Studiolo. Avea un di presso un piede di lunghezza, e quattro pollici di diametro.

Restò incantato il Capitano dal racconto della mia Storia, e disse, che sperava che io non mancassi di farne parte al Pubblico, giunto che fossi in Inghilterra. Gli risposi, che il numero de’Viaggi datisi alle stampe non era che troppo grande, e che per tal ragione, o conveniva tacere, e aver da narrare qualche cosa di straordinario; senza tuttavia seguir l’esempio di quegli Autori, che a spese della verità, rimescolano sempre del maraviglioso entro a’loro scritti: Che la mia Storia non conterrebbe che avvenimenti assai comuni, senza aver veruno di que’fregj che sono somministrati dalla descrizion delle piante, degli alberi, degli uccelli, e delle bestie feroci; oppur da quella delle costumanze barbare, e del culto idolatrio di qualche selvaggio Popolo; fregj tali, onde abbondavano tutti i Libri di Viaggj: Che non ostante gli era io molto tenuto della buona opinione che egli attestava di avere, e che penserei a quanto egli mi diceva.

Protestossi poscia meco di restar molto attonito nell’intendermi a parlar sì forte; chiedendo se il Re, o la Regina di quel paese, erano forse duri d’orecchia? Gli dissi, che erano trascorsi di già due anni che io mi era accostumato a un tale tuono, e che dal canto mio stavamene altrettanto sorpreso dall’intenderlo a parlar sì basso, quanto poteva esserlo lui dal mio gridar sì alto: Che in tutto il tempo del mio soggiorno in quel Regno, quand’io doveva parlar con alcuno, era stato costretto di tanto alzar la voce, quanto un uomo che standosene nella strada, avesse voluto farsi sentire da un altro collocato sull’alto d’un Campanile; eccettuato però, quand’io mi trovava sopra una tavola, o che taluno mi teneva in sua mano. L’informai altresì d’un altra cosa che io avea riflettuta; cioè, che sul punto del mio entrar nel Vascello, e che tutti i Marinaj stavano d’intorno a me, eglino mi son paruri le più picciole creature che avessi mai vedute: e che ciò era tanto vero, che nel Paese donde io era uscito, non aveva mai osato di affacciarmi allo specchio; mercè che avvezzo a vedere oggetti sì prodigiosi, il sentimento della mia picciolezza mi avrebbe molto mortificato. Soggiunsemi il Capitano, che in tempo che cenavamo, egli avea osservato che io risguardava ciascuna cosa con una spezie di stupore, e che più fiate io avea dati segni di volere scoppiar di ridere; il che egli attribuito avea allo sconvoglimento del mio cervello. Gli replicai che tale si era la verità, e che proveniva la mia sorpresa dall’infinita picciolezza di tutto ciò che io vedeva, e quì sopra mi messi a fare una descrizione di tutto ciò che si era trovato sulla tavola di lui, tale che un Abitante di Brobdingnag fatta l’avrebbe, se fosse stato nelle mie veci. Il mio uomo si pose a sogghignare, e per farmi gustar meglio il ridicolo di quanto testè gli avea detto, protestò, che di tutto il suo cuore pagate avrebbe cento Chinee, di aver veduta l’Aquila tenendo il mio Cassettino nel suo rostro, e lasciandolo poscia precipitar nel mare: Ch’era ben un peccato che niuno fosse stato oculato testimonio d’un avvenimento sì singolare, e la cui descrizione meritava d’essere trasmessa alla più rimota posterità. Dopo un tale scherzo venne in iscena la comparazione di Fetonte, per vero dire, troppo naturale, perchè egli la risparmiasse.

Di là a due giorni del mio imbarco in fu quel Vascello, il vento, che prima stato non era troppo favorevole, divenne eccellente, e rendè il nostro viaggio e più brieve, e più felice, di quelche non avremmo nè pur ardito di sperare. In un solo, o due porti diede a fondo il Capitano, e spedì lo Schifo a terra in traccia di alcune provvisioni, e per far acqua; e quanto a me, non uscì mai del bordo finchè non giugnemmo alle Dunes; il che seguì il terzo di Giugno 1706 nove mesi, o circa, dopo l’aver lasciato Lorbrulgrud. Offrì al Capitano di lasciargli in pegno, tutto ciò che io avea, in sicurtà del pagamento di quanto io gli potea dovere pel mio trasporto, e per avermi alimentato per tanto tempo: ma ei si dichiarò che non ne voleva nè pur un soldo. Ci congedammo con teneri abbracciamenti; e volli mi desse la parola di venir a vedermi in mia casa, quando si trovasse a Londra; Noleggiai un Cavallo, e una Guida, per prezzo, e somma di cinque schelini, presi a prestito dal Capitano.

In sul cammino, riflettendo io alla picciolezza delle case, degli alberi, de’bestiami, e degli uomini, mi credei transferito in un tratto nell’Imperio di Lilliput. Io temeva sempre di schiacciarmi sotto a’piedi chiunque io riscontrava; e gridai a molti e molti che si togliessero dal mezzo: Impertinenza che stette per suscitarmi delle querele, tutto che fosse involontaria.

Arrivato in mia casa, e apertomi l’uscio da uno de’miei domestici, mi abbassai per entrarvi: la moglie, correndo, mi venne incontro per abbracciarmi, ma io m’inchinai più basso che le ginocchia di lei, immaginandomi che in altro modo le sarebbe riuscito impossibile di giugnere con la sua alla mia bocca. Mia figliuola s’inginocchiò per chiedermi la benedizione, ma non la vidi, che quando se n’era levata, accostumato da tanto tempo di volgere la testa, e gli sguardi verso faccie, che erano in altezza alla distanza di sessanta piedi dalla mia. Risguardai i miei Domestici, e due o tre amici, a caso ivi presenti, come altrettanti Pigmei, in cui confronto io era un Gigante. Dissi a mia moglie ch’ella era vissuta con troppa frugalità; poichè, tanto essa che la Figlia, erano smagrate, ed impicciolite oltra qualunque esagerazione. In una parola: vomitai un sì gran numero di follie, che ad ognuno venne in pensiero quanto da principio già il Capitano credea; cioè che unanimamente si conchiuse che io aveva perduto il senno. Il che riferisco come un riguardevole esempio della forza prodigiosa dell’abitudine. Con tutto ciò guari non istetti a ricuperarmi da quella spezie d’infermità, ma protestò mia Moglie che non mi lascerebbe più andar in mare; e pure per mia disgrazia, era un destino che ella non avesse l’autorità d’impedirmelo, come i Leggitori ben presto potran vederlo.

Fine della Seconda Parte, e del Tomo Prima.

VIAGGI

DEL CAPITANO
LEMUEL GULLIVER

Tomo Secondo.

PARTE TERZA,

Contenente il Viaggio di Laputa, Balnibardi, Glubbdubdribb, Luggnagg, e del Giapone.

VIAGGIO

DI

LAPUTA, di BAUNIBARBI, di Lugnagh, di Glubbdubdribb, e del Giapone.

Parte Terza.

CAPITOLO I.

Imprende l’Autore un terzo Viaggio; vien preso da Corsali. Ribalderia d’un Fiamingo. L’Autore approda ad un’Isola, ed è ricevuto nella Città di Laputa.

DIeci giorni appena erano scorsi dopo il mio ritorno, che un tale Guglielmo Robinson, Capitan Comandante della Speranza, ch’era un Vascello di trecento botti, fu a visitarmi in mia casa. Era io già stato Chirurgo d’un altro Vascello che appartenevagli, e su cui fatto avevamo di buoni compagnia un altro Viaggio al Levante. Anzi che in basso Uffiziale, ei sempre in Fratello trattato aveami; ed inteso il mio ritorno, per motivo d’amizizia, a quel che io ne pensava, venne a riabbracciarmi; versata essendo in soli consueti complimenti, dopo una lunga assenza, la nostra conversazione. Ma dopo di avermi molte volte reiterate le sue visite, espresso il suo giubilo per rinvenirmi salvo e sano, e richiesto se pel resto della mia vita al viaggiare rinunziato avessi, mi palesò la sua intenzione di mettersi fra due mesi un’altra volta in Mare per l’Indie Orientali; e di compiacer mi d’essere suo Chirurgo di Nave mi pregò. Emmi ben noto, ei soggiunse, che l’offerta d’un somigliante impiego più non vi conviene; ma l’esibirvi, oltra i due ordinarj Ajutanti, un Cerusico subalterno, una doria paga, e la mia parola di rapportarmi a’vostri consiglj come foste un altro me stesso, forse accettabile potrebbe renderla.

Molte altre cose mi disse, e tutte obbliganti; e d’altra parte, io li conosceva per un galantuomo tale, che non mi bastò l’animo di ributtare il suo progetto. Il furore, onde mi trovava ingombro, di veder nuovi mondi, (a dispetto di tutte le traversie attrattemi dalla propia curiosità,) più che mai continuava in me violento: l’unica difficoltà consisteva nell‘opposizion della moglie; la quale, alla fine, rimasta persuasa dagli oggetti de’vantaggj che a’nostri figliuoli risultar ne potevano, mi accordò il propio consentimento.

Partimmo dunque nel 5. d’Agosto 1706., e arrivammo al Forte di San Giorgio gli undici d’Aprile 1707., ove a cagione di molte infermità sopravvenute sul nostro Bastimento, di fermarci tre settimane fummo costretti. Quindi pel Tunchino vela facemmo, nella qual Regione per qualche tempo il Capitano deliberato avea di restarsene; escendo che, molte delle Mercanzie di suo disegno non eran leste, e non potevan esserlo che per alcuni Mesi. Con la lusinga per tanto di rifarcirsi delle spese della dimora, fece compra d’una picciola Barca; che caricata di molti generi di merci di buono smaltimento presso gli Tunchinesi, egli armò di quattordici uomini, compresivi tre Naturali del Paese, dandone a me il comando; con facoltà, per lo spazio di due mesi che gli affari di lui obbligavanlo di trattenersi a Tunchino, di poter praticare qualunque traffico.

Non vi avea che tre giorni da che in mare ci eravamo posti, che insorse una furiosa burrasca, la qual per cinque dì continui portossi al Greco Tramontana, e di poi al Levante; dopo di che con un buon fresco di Ponente, avemmo bel tempo. Sul duodecimo giorno fummo cacciati da due Corsali, che ben presto raggiunti ci fecero loro preda; non potendo noi, pel poco numero, metterci in qualche stato di difesa; ed essendo troppo carica la Barca, per isperare, con lo sforzo delle vele, di sottrarci.

Nell’instante stesso ci abbordarono i due Corsali, e alla testa delle loro genti si gettarono nella nostra coperta: ma trovatici, secondo l’ordine che io ne avea dato, tutti prostesi, furon paghi di bel legarci, e comandato poscia ad alcuni di lor truppa di far di noi buona guardia, si misero a fiutare quanto vi avea nella Barca. Fra coloro mi venne fatto d’osservare un Fiamingo, che facea mostra di qualche autorità, tutto che non fosse Comandante di veruno de’due Vascelli. Al nostro portamento, e alla nostra vestitura ei per Inglesi ci riconobbe; e parlandoci in sua favella, giurò che legati a schiena con ischiena, lanciati in mare saremmo. Passabilmente io parlava il Fiamingo. Dissigli chi noi eravamo; e il pregai pel comune nostro carattere di Cristiani, di voler maneggiarsi a nostro favore presso il suo Capitano. Non servì la supplica che a vie più irritarlo, e che a rinforzare le sue minacce: rivoltosi ei poscia a’suoi compagni, con molta veemenza parlò loro in Giaponese: sovente, a quel che ne penso, valendosi del termine di Cristiani. Il maggiore de’due Corsali Vascelli, era comandato da un Giaponese Capitano, il qual parlava, comechè assai male, qualche poco Fiamingo. Si fece egli accosto di me, e dopo quistioni diverse, ond’io con somma umiltà soddisfeci, disse che noi non faremmo morti. Una profondissima riverenza fu la mia risposta, e al Fiamingo di poi indirizzatomi, mi lagnai di rinvenire più compassione in un Pagano, che in lui stesso, professore del Cristianesimo. Guari però non istetti a ripentirmi della mia imprudenza; mercè che quel tristo, intentato avendo, benchè invano, molte volte di persuadere entrambi i Capitani di farmi gettar in mare, (il che dopo la promession loro di salvarmi la vita, accordargli essi non vollero,) potè; non ostante, ottener da loro, che io fossi punito con una sorta di pena, più spietata della morte medesima. I miei uomini stribuiti furono su i due Vascelli; ed i Pirati incaricarono alcuni de’loro Marinaj di navigar la mia Barca. Quanto alla mia speziale persona; si decretò che io fossi posto in una picciola barchetta con remi, vela, e provvisioni per quattro giorni, (che furono raddoppiate dalla bontà del Capitan Giaponese,) e di poi abbandonato alla discrezione de’flutti. Calai dunque nella barchetta, regalato dal buon Fiamingo di tutti i termini più ingiuriosi, che il materno suo linguaggio suggerir gli poteva.

Un’ora, o circa, innanzi che i Corsali ravvisati avessi, io avea presa altezza, e avea trovato d’essere a’quaranta a sei gradi di Latitudine Settentrionale, e a’cento ottanta e tre di Longitudine. Staccato che alquanto fui da’Pirati, col vantaggio del mio Cannocchiale, alcune Isole dalla parte di Scilocco discoprj. Con l’intenzione di guadagnare la più vicina, il che credetti dovermi riuscire in tre ore, alzai la vela, e pervenutovi, non vidi che un ammassamento di picciole roccie fu cui di molte uova di uccelli tennimi provveduto: ed avendo accesi col battifuoco alcuni bronchi, e alcun’erbe inarridite, arrostì l’uova medesime. Fu questa tutta la mia cena; volendo io, al possibile, risparmiare le poche mie vittuaglie. Passai la notte al coperto d’una rupe con pochi strepiti sotto al mio capo, ed assai bene dormì.

Il giorno dietro guadagnai un’altra Isola, e quindi una terza, e susseguentemente una quarta, servendomi or della vela, or de’remi. Ma perchè il Leggitore stancato non resti da circostanze poco interessanti, solo dirò che nel dì quinto arrivai all’ultima dell’Isole discoperte, situata allo Scilocco-Levante della prima.

Più discosta di quello che io ne pensava era quest’Isola, essendosi da me consumate cinque ore e più, prima d’abbordarvi: Girai la poca men che tutta, innanzi di trovarvi un luogo allo sbarco assai propio, ch’era un picciolo seno, tre volte più largo della mia barchetta. Tutto pietroso mi apparve il terreno dell’Isola, comechè quà e là di molti cespi seminato. Tolsi dal picciolo mio Vascello le poche mie provvisioni; e dopo di essermi refiziato con un leggerissimo pranzo, messi gli avvanzi in una caverna, onde l’Isola n’era piena. Raccolsi una buona quantità d’uova e di sterpi, per farne e dell’une, e degli altri quell’uso stesso, che la sera innanzi fatto io già ne avea; mercè che io teneva meco una focaja, un fucile, della miccia, ed un cristallo ustorio. Nella caverna stessa, ove stavano riposte le mie vittuaglie, passai l’intera notte; e gli stessi bronchi che mi serviva no di legna da fuoco, di letto eziandio mi valeano. Non fu possibile che le barbare mie inquietudini, neppur per un instante, mi lasciassero chiuder gli occhi. Andava io riflettendo che un luogo tale ove io mi trovava, diserto ed arido, non potesse presentarmi che una morte sicura; cosicchè fortemente oppresso dalla tristezza de’miei pensieri, cuor non ebbi di levarmi, e non uscì della caverna che molte ore dopo del giorno. Spasseggiai qualche tempo fra quelle roccie: assai sereno era il Cielo, e cosi servido il Sole che fissarmivi non potei: quando all’improvviso oscurossi quest’Astro, a quel che mi sembrava, in un modo onninamente diverso, che allorchè il ricuopre una nuvola. Girai la faccia, e vidi fra me ed il Sole un opaco gran Corpo, che si accostava alla mia Isola. Pareami questo Corpo all’altezza di due miglia; e per lo spazio di sei minuti o sette, ei mi levò del Sole la vista. Non badai che nell’intervallo fosse l’aria molto più fredda, o molto più ottenebrato il Cielo, come me ne stessi all’ombra d’un alto monte. Continuando il Corpo sempre ad avvicinarsi, ravvisai ch’egli era una solida sostanza, e ch’era molto piana la parte sua inferiore. Me ne stava allora sopra un’eminenza discosta dalla spiaggia per dugento Verghe, (misura del braccio Inglese) e a un di presso per un miglio d’Inghilterra dal mentovato Corpo. Diedi di mano al mio cannocchiale; e distintamente raffigurar non potei molti uomini muoventisi sopra le coste di quel nuovo Pianetta, ma ciò che facesser eglino, non mi riuscì di disscernere.

L’amor della vita che sì di rado ci abbandona, eccitò in me non so quali sentimenti di gioja, e concepì qualche speranza di liberarmi in qualunque modo dalla spaventevole situazione in cui mi trovava: ma molto disagevole mi sarebbe di esprimere qual si fosse in un tempo stesso il mio stordimento, di scorgere nell’aria un’Isola abitata da uomini; i quali, (per quanto parer mi poteva) aveano la facoltà di alzarla, di abbassarla; in una parola, d’inserirle qualunque muovimento di grado loro: Ma trovandomi allora di non troppo umore di andar filosofando sopra quel Fenomeno, rivolsi tutta la mia attenzione a considerare qual cammino prenderebbesi dall’Isola, giacchè mi sembrava che arrestata ella si fosse. Un instante dopo continuò tuttavia ad accostarsi; ed io i suoi lati ravvisar potei, circondati da serie differenti di Logge, e da non so quali scale piantate a certe distanze, per discendere dall’una nell’altra. Nella Loggia più inferiore vidi alcune persone che stavan pescando con lunghe canne, ed altre puramente spettatrici: Feci lor disegno in girando la mia berretta (giacchè da qualche tempo io era privo del mio capello per essersi consumato) e il mio fazzoletto sopra la mia testa. Giunte ch’esse furono a portata d’intendere la mia voce, gridai con tutta la forza; e dagli sguardi che fissavano alla mia volta, e dagli atteggiamenti loro scambievoli, conobbi che scoperto mi aveano, tutto che al mio gridare non rispondessero. Chiaramente bensì ravvisai quattro o cinque di quegli Abitatori che salivano con gran fretta la scalla la quale all’alto dell’Isola conduceva, e che disparvero ben presto. Indovinai che fosser eglino spediti a ricever ordini a riguardo mio; e veramente, mal non mi apposi, come il seppi dappoi.

Da un momento all’altro aumentava il numero degli spettatori; e in minor tempo d’una mezz’ora trovossi l’Isola in tal maniera situata, che la Loggia più inferiore, tutto che lontana quasi che cento verghe, all’eminenza, ove io me ne stava, compariva paralella. Mi misi allora nell’attitudine di supplichevole, e parlai loro con un tuono di voce il più rispettoso, ma risposta di sorta non ebbi. A giudicarne da’vestiti, que’che stavano più a rimpetto di me, aveano l’aria di persone ragguardevoli: mi guatavano sovente, e mostravano di quistionar insieme con applicazione. Uno d’essi alla fine mi disse alcune parole in un linguaggio che avea qualche rapporto coll’Italiano. Con la lusinga che per lo meno il suono ne riuscisse più gradevole alle loro orecchie, espressi in quest’ultima favella la mia risposta. Benchè punto non c’intendessimo, si avvider eglino nulladimeno, e assai facilmente, di che andasse in traccia la mia costituzione.

Mi fecero segno di scendere dalla traccia, e di portarmi alla spiaggia, il che incontanente eseguì: e dopo ciò fu l’Isola volante diretta nel suo muovimento in un modo tale; che calatasi dalla Loggia più bassa una catena con un sedile appeso all’estremità, mi vi adagiai, e con un carrucolo fui tirato ad alto.

CAPITOLO II.

Descrizione de’Lapuziani. Quali scienze presso loro sieno più in voga. Compendiata idea del Re, e della sua Corte. Maniera con cui evvi ricevuto l’Autore. Timori ed inquietudini a quali quegli Abitanti sono suggetti. Descrizione delle Donne.

IL piede appena io posi a terra, che fui attorniato da una folla di popolo; ma que’che più a me si avvicinavano, parevano qualche cosa di maggior distinzione. Mi contemplarono con tutti i più chiari indizj di stupore; ed io credo ch’ebbero il motivo di asserire la stessa cosa di me; non avendo io, per tutta la mia vita, veduti uomini più singolari, sia nelle vestiture, o nelle maniere, o ne’sembianti. Chinan tutti la loro testa o alla dritta, o alla manca parte: uno degl’occhi loro è rivolto verso la Terra, e l’altro verso i loro Zenit. Sono adorne le loro vestimenta di figure di soli, di Lune, di Stelle, di Violini, di Flauti, d’Arpe, di Trombe, di Chitarre, di Gravicembali, e d’altri molti Strumenti incogniti in Europa. Alcuni uomini quà e là vidi che l’aria aveano di servidori, e che all’estremità d’un corto bastone, che tenevano in mano, legata aveano una gonfiata vescica, a modo di frusta. In cadauna vescica si contevano alcuni ceci secchi, o alcuni sassolini, per quanto fummi riferito dappoi. Valevansi coloro di quelle vesciche per battere la bocca, e le orecchie di que’che erano lor vicini; pratica, onde allora mi riuscì impossibile di concepirne l’utilità; ma seppi poscia ch’è sì avvezzo quel Popolo a profondarsi, e ad immergersi in cupe meditazioni, che a patto veruno non può parlare, o ascoltare i discorsi altrui, se in qualche modo non se gli percuote la bocca, o gli organi dell’udito. Ecco la ragione perchè coloro che si trovano in istato di fare questa spesa, an sempre nella loro Famiglia un somigliante Destatore (il chiaman essi Climenole (a guisa di domestico, e da cui incessantemente sono accompagnati quand’escono di casa, o che rendono qualche visita. Il suo impiego si è, in una compagnia di tre persone o quattro, di passar leggermente la sua vescica sopra la bocca di quegli che vogliono parlare, e sulla destra orecchia altresì di colui, o di coloro, a quali essi parlano. E’obbligo pure di questo Destatore, d’accompagnare il suo Padrone quand’ei stassene spasseggiando, e di dargli in certe occasioni un picciolo colpo sopra gli occhi: mercè che assiduamente egli è occupato sì forte dalle sue meditazioni, che senza ciò, si troverebbe in risico di piombare in qualche precipizio, e di dar la testa in qualche tronco; oppure di cadere in qualche rivolo, o di farvi cascar gli altri.

Era necessaria una tale specificazione; imperocchè se io non vi fossi entrato, i miei Leggitori, al pari di me si sarebbero rinvenuti molto imbrogliati nel comprendere il procedimento di quelle genti, quando pel mezzo di molti gradini elleno salir mi fecero per fin alla sommità dell’Isola, e che quindi alla Reggia mi condussero. In tempo del nostro ascendere, dimenticarono molte volte il suggetto di lor commissione; ed ivi mi piantarono, finchè pel soccorso degli Svegliatori loro, rivennero a se medesime: poichè veruna d’esse non dava il medesimo segno d’essere attratta da qualunque stravaganza de’miei vestiti, e del mio portamento; e neppure da quali si fossero acclamazioni del Volgo, non essendo la lor anima sì suggetta ad astratte specolazioni.

Arrivammo finalmente al Palagio, ed entrammo nella Sala di fronte, ove vedemmo il Re sul suo Trono, circondato da ambi i lati da molti grandi. Dinanzi al Solio stava piantata una gran tavola tutta coperta di Globi, di Sfere, e di Strumenti di Matematica d’ogni sorta. Tutto che il concorso di que’che appartenevano alla Corte rendesse l’ingresso nostro tumultuoso, neppur baddovvi Sua Maestà; essendo ella profondamente immersa nel rintracciare lo scioglimento d’un proplema, che solamente un’ora dopo riuscille di ritrovare. A cadaun fianco di lei v’era un Paggio con la vescica alla mano: veduto ch’ebbero questi Paggi che si era rinvenuta la Dimostrazione; uno d’essi di edele un picciolo colpo sopra la bocca, e l’altro sopra l’orecchia dritta; il che la fece scuotersi, nella guisa appunto che qualcuno che dorme viene all’improvviso destato: dopo ciò ella, gettato lo sguardo sopra di me, e sopra coloro che m’attorniavano, si risovvenne del motivo del nostro arrivo, onde da prima n’era stata istruita. Disse alcune parole; che pronunziate appena, un giovane tenente in mano una vescica, tale che io la descrissi, adaggiossi accosto di me, e diedemene alcuni colpi su la destra orecchia; ma a forza di segni comprendere gli feci, che io non avea bisogno dell’ajuto di quello strumento; il che, per quanto dappoi ne seppi, impresse nel Re, e nella Corte tutta, una idea del mio genio poco vantaggiosa. Per quello che congetturar ne potei, fecemi Sua Maestà alcune quistioni; ed io dal mio canto le parlai in tutte le lingue che mi erano cognite. Persuasi amendue che non potevamo intenderci, ordinò il Re che io condotto fossi in un Appartamento della sua Reggia, (avendo questo Principe superati tutti i suoi Predecessori in ospitalità o i riguardo degli Stranieri,) ove due Staffieri, al mio servigio destinati furono. Mi si reco a pranzare; e quattro Signori, che mi ricordava di aver veduti accanto della persona del Monarca, m’impartirono l’onore di mangiar meco. Due serviti avemmo, cadauno di tre piatti, Consisteva il primo in uno spalletto di Castrato tagliato in triangolo Equilatero, un pezzo di Bove in Romboide, ed un Sanguinaccio in Cicloide. Di due Anitre in figure di Violini era l’altro servito, d’alcune Salsicce in forma di Flauti, e d’un Petto di Vitello in guisa d’Arpa. I Servidori trinciarono il nostro pane in Coni, in Cilindri, in Paralellogrammi, e in molte altre Figure di Matematica.

Standocene in talvola, presi la libertà di domandare i nomi di diverse; cose; e que’Signori, mediante l’assistenza de’Destatori loro, compiacquesi di dirmigli, con la speranza che se io avessi si una infinita ammirazione per la loro abilità, pervenir potessi a legare con esso loro una buona conversazione. Mi trovai ben presto in istato di chiedere del pane, a bere, ed altre cose che mi erano necessarie.

Dopo il mio desinare la mia Compagnia mi lasciò; e per ordine del Re fummi inviato un non so chi, assistito da uno Svegliatore. Egli avea con se penna, carta, inchiostro, e tre o quattro libri, dandomi a conoscere con atteggiamenti, che veniva per ammaestrarmi del linguaggio del Paese. Quattr’ore me stetti con esso lui; nel corso delle quali registrai alcuni termini in forma di colonna disposti, con la loro traduzione accanto. Procurai altresì d’apprendere alcune brievi frasi. A tal effetto il mio Maestro facea fate differenti cose al mio Servidore; per esempio, ordinavagli di federe, di tenersi ritto in piedi, di spasseggiare, o di fare una riverenza: e a misura che il Servidore eseguiva cadaun degli ordini, mi dettava il Maestro la frase che dovea esprimerlo. Mi mostrò eziandio in uno de’suoi libri, le Figure del Sole, della Luna, delle Stelle, del Zodiaco, de’Tropici, de’Circoli Polari, e d’un gran numero di Piani, e di Solidi. Notar mi fece i nomi di tutti i Musicali Strumenti che sono in uso appo quel Popolo, e con esatezza me gli descrisse. Partito che fu, disposi tutti i miei vocaboli con le loro spiegazioni in ordine d’Alfabeto, e in questo modo, in pochi giorni, col soccorso d’una buona memoria, feci gran progressi nella loro favella.

Il termine che io rendei per quello d’Isola Volante, o Fluttuante, trovasi in loro lingua Laputa; termine, onde non e sì agevole di riconoscerne la vera etimologia. Lap in vecchio idioma significa alto; ed Untuh un Governatore; donde, dicon essi, è derivato corrottamente il termine di Laputa: questa derivazione però non mi sembra naturale. Feci parte un giorno ad alcuni Letterati di loro, d’una mia conghiettura su questo proposito; e dimandai se forse Laputa da Lap outed venir potesse; Lap significando propiamente il muovimento de’raggi Solari nel Mare, o outed un’Ala: conghiettura, su cui permetto a’miei Leggitori di pronunziare.

Riflettutosi da coloro, a’quali mi aveva affidato il Re, che trovavami assai male in arnese, ordinarono essi ad un Sarto di venire il giorno dietro, e di prendermi la misura per un abbigliamento compiuto. L’eseguì quest’Artefice, ma in una foggia onninamente diversa da quella ch’è dell’uso comune in Europa. Valsesi di primo tratto d’un’quarto di Cerchio, per la misura della mia altezza; e poscia col mezzo d’una Regola, e d’un Compasso, descrisse in carta tutte le dimensioni del mio corpo, portandomi sei giorni dopo i miei vestiti perfettamente mal fatti, per avere sbagliato in una Figura: tuttavia mi consolai, avendo io osservato ch’erano assai ordinari gli accidenti di questa fatta, e che non se ne prendeva la menoma inquietudine.

Nel frattempo che si lavorava dietro le mie vestimenta, e durante una piccola indisposizione, che susseguentemente mi confinò alcuni giorni in casa, accrebbi d’un gran numero di vocaboli il mio Dizionario; cosicchè portatomi di poi alla Corte, fui in istato d’intendere molte cose che mi diceva il Re, e taliter qualiter di rispondergli. Avea comandato Sua Maestà, che il movimento dell’Isola al Greco-Levante diretto fosse verso il punto verticale al di sopra di Lagado, la Capitale di tutto il Regno. In distanza di novanta leghe trovavasi questa Città, e il nostro viaggio più che quattro giorni e mezzo non durò: con tutto questo, posso fare un ampia protesta che in quel tempo tutto del menomo muovimento della nostra Isola non mi avvidi.

Fermossi ella, secondo gli ordini del Re, sopra alcune Città, i cui Abitatori presentar dovevano diverse suppliche. A tal effetto si calavano molti funicelli tenuti tesi da qualche peso nella loro estremità inferiore. Legava il Popolo le sue suppliche a questi funicelli, che poscia si traevano ad alto; e talvolta, col mezzo d’alcune carrucole, e vino, e provvisioni di qualunque sorta ritiravamo dal basso.

Ciò che io sapeva in Matematica fummi d’un grande ajuto per apprendere la loro favella, i cui termini, per la maggior parte, an rapporto con questa Scienza, e con la Musica, onde vantarmi posso di non essere tutto affatto ignorante. Son continui oggetti delle loro meditazioni le Linee e le Figure. Se voglion essi, per esempio, lodar la bellezza d’una Donna; o di qualche altro animale, fanno entrare nel loro Elogio, Romboidi, Circoli, Parallelogrammi, Ellisi, ed altre Geometriche Figure; ovvero de’Musicali termini. Osservai nella Cucina del Re ogni sorta di Strumenti di Matematica, e di Musica, le cui figure servono di modello alle vivande della mensa di Sua Maestà.

Son mal costrutte le loro Abitazioni; e notai che non aveavi in veruno degli Appartamenti neppur un angolo retto; il che proviene dal disprezzo che an essi per la Geometria pratica, che come troppo meccanica riggettan; e per disgrazia, gli Architetti loro non anno lo spirito di comprendere le loro astratte Dimostrazioni; stupidezza, a cagione di cui patiscono i loro edifizj.

I Lapuziani generalmente son cattivi Ragionatori, e molto contraddicenti, se eccetuisi quando lor avviene d’aver ragione, il che è cosa assai peregrina. Immaginazione ed Invenzione sono termini ch’eglino non conoscono, e pe’quali non an neppure vocaboli in loro lingua; essendo circonscritti, e in qualche modo consecrati alle due Scienze testè da me mentovate, tutti i pensieri delle lor anime.

I più di essi, e principalmente que’che si applicano allo studio dell’Astronomia, sono gran Fautori dell’Astrologia Giudiciaria: comechè arrossiscano di professarla in pubblico. Ma ciò che in ispezielta ammirai, e che nel tempo stesso parvemi incomprensibile, si è l’estrema loro curiosità per gli Politici affari, e il loro eterno furore di formar giudizi, e disputar sopra qualunque cosa al Governo ed agli Stati attinente. Per vero dire, riflettei ch’era questa un infermità assai comune del maggior numero de’Matematici di mia conoscenza in Europa; ma non per tanto non siegue che io non sappia qual relazione esservi possa tra una somigliante smania, e la loro professione; purchè essi non suppongano, che come un picciolo cerchio non ha più gradi che un grande, ne venga in conseguenza che non abbisogni maggior abilita per governar il mondo, che per girar un Globo in sensi diversi. Ma più inclino a credere, che una tale irregolarità provenga da un difetto comune alla Natura umana, che renderci più curiosi delle cose che ci concernono meno, e per cui men di talento noi possediamo.

E’suggetto quel Popolo ad inquietudini perpetue, non gustando mai d’un solo instante di riposo; e derivano le sue inquietudini da cagioni tali che non sono affettate dal rimanente degli Uomini. Ei teme che ne Corpi Celesti non succedano certi cangiamenti. Per esempio, che la Terra, se il Sole continui sempre ad accostarsene, non resti un giorno inghiottita da quest’Astro: Che la superficie del Sole non sia poco a poco ricoperta d’una crosta, che gl’impedisca alla fine di farci parte del suo calore, e del suo lume. Racconta, che molto poco vi vuole che l’ultima apparuta Cometa non siasi urtata con la Terra, il che se seguito fosse, doveva questa, senz’altro, ridursi in cenere; e che secondo tutte le apparenze resterà infallibilmente distrutta dalla prima Cometa che si lascerà vedere; il che avverrà da quì a trenta e un anno, secondo il suo calcolo: essendo che questa Cometa, nel suo perielio dee molto avvicinarsi al Sole, per concepire un grado di calore dieci mila volte più grande di quello d’un ferro rovente; e dopo di aver lasciato il Sole, strascicar dietro se una fiammeggiante coda, che eccederà la lunghezza di quattrocento mila leghe; da cui, se la Terra passa in distanza di trenta mila leghe dal Corpo della Cometa, non può certamente non restar incendiata, e ridotta in cenere. Che il Sole, perdendo ciascun giorno una porzion de’suoi raggi senza ricevere qualche alimento che ne compensi la perdita, a guisa di candella si smorzerà alla fine: dal che per necessità ne proverà il distruggimento della nostra Terra, e de’Pianetti tutti che da lui il lume ricevono.

Sì fattamente sono inquietati que’Popoli da fomigliantti spaventi, che non trovano luogo e quiete di sorta, nè san gustare delle comuni soavità della vita. Quando la mattina si abbattono in alcuni de’loro Amici, versa la prima lor quistione sopra la sanità del Sole, come par ch’ei si porti nel suo tramontare, e nel suo risorgere, e se vi ha raggio di speranza di poter isfugire della prima Cometa il rincontro. In trattenimenti di questo genere, si lascian vedere a prendere il piacere medesimo onde gustano i fanciulli, quando intendono Storie di Fantasmi, e d’Apparizioni: Storie, ch’essi ascoltano con la più avida curiosità, ma che imprimendo loro del terrore, lor non lasciano trovar la strada d’andar a letto.

Le Donne dell’Isola sono molto vivaci, spregiano i propj Mariti, ed impazziscono per gli Stranieri. Scelgono fra questi i lor Cicisbei; ma il mal si è che con troppo agio, e troppa libertà coltivano i loro amori; piochè trovasi sì profondato nelle sue meditazioni lo Sposo, che gli Amanti potrebbono in presenza di lui appigliarsi alle maggiori confidenze senza timore del suo accorgimento, purchè solamente egli avesse della carta, e i suoi strumenti, e che non gli fosse a’fianchi il suo Risvegliatore. 

Le Femmine e le Donzelle si lagnano amaramente d’essere rinchiuse in quell’Isola, non ostante che, a mio credere, sia quegli il più bel Paese del Mondo: e tutto che vi vivan elleno in tutta l’abbondanza più immaginabile in un modo il più magnifico, e che sia lor permesso di far ciò che vogliono, muojon di voglia di veder il mondo, e di gustar i piaceri della Capitale; il che non è lor permesso, senza, perlomeno, una particolare licenza del Re, e sì facile ad ottenersi non è questa licenza; poichè la maggior parte de’Mariti, quanto sia difficile il quindi far rivenire le mogli, bastevolmente saggiò. Mi fu detto che una Dama del primo Carattere che avea molti figliuoli, e ch’era maritata con un Ministro di prima sfera, uno de’principali Signori del Regno, il qual amavala fin ad essere pazzo, e con cui ella soggiornava in un de’più bei Palagj dell’Isola, imprese il viaggio di Lagado col pretesto che spiravavi Un’aria migliore per la sanità di lei; che vi si tenne per alcuni mesi occultata, finchè li Re mandovvi un ordine di carcerazione; che fu rinvenuta in una bettola, tutta cenciosa, impegnate avendo tutte le sue vestiture per mantenere un vecchio laidissimo facchino, il qual la batteva ben bene ogni giorno, e da cui ella altresì con infinita ripugnanza si separò. La ricevè lo Sposo con tutta la bontà possibile; e senza che le ne facesse il menomo rinfacciamento: e perciò ella guari non istette ad eseguire una seconda scappata, a sportando seco tutte le sue gioje, per andar a riunirsi all’Amante suo, senza che poscia se ne abbia avuta contezza di sorta. Non è improbabile che alcuno de’miei Leggitori s’immagini che io gli narri una Storia Europea, ovver Inglese: Ma lo scongiuro di riflettere, che i capriccj del bel sesso non ristringonsi a qualche Clima, o a qualche particolare Nazione: bensì che anno una uniformità più generale, che tutto ciò che si possa dire.

Nello spazio d’un mese io avea fatti bei progressi nella loro favella, e mi trovava in istato di rispondere alla maggior parte delle quistioni del Re, quand’io avea l’onore di vederlo. Non dimostrò Sua Maestà curiosità veruna in proposito delle Leggi, del Governo, della Storia, della Religione, o de’Costumi de’Paesi che io avea visitati; ridusse bensì tutte le sue ricerche alle sole Matematiche, ed ascoltò con molto sprezzo, e con molta indifferenza ciò che le dissi su quest’argomento, tutto che i due Destatoti ch’ella teneva accosto, diligentemente le proprie incombenze effettuassero.

CAPITOLO III.

Fenomeno spiegato col soccorso della filosofia, e dell’Astronomia Moderna. Abilità de Lapuziani nell’ultima di queste due Scienze. Metodo del Re per reprimere le sedizioni.

DImandai permissione a quel Monarca d’andar a vedere le curiosità dell’Isola, ed egli graziosissimamente aderì a’miei desiderj, ordinando nel tempo stesso al mio Maestro d’accompagnarmi. Mia principale premura si era di sapere a qual Cagione, o nell’Arte, o nella Natura, fosse debitrice quell’Isola de’suoi diversi movimenti: ed ecco di che or ora voglio far parte a’miei Leggitori.

L’Isola volante, o fluttuante, esattamente è circolare: il suo Diametro è di 7837. Verghe, e vale a dire, a un di presso di quattro miglia e mezzo, e per conseguenza contiene dieci mila Campi Italiani. Ha trecento verghe di grossezza, e la parte sua inferiore è una spezie di piano di diamante assai liscio, che perfino allaltezza di più di dugento verghe si stende. Al di sopra di questo letto di Diamante trovansi i differenti minerali nell’ordine consueto, e poscia un inviluppo di terreno assai grasso, di dieci o dodici piedi di grossezza. Il pendio della parte superiore, della circonferenza perfino al centro, e la natural cagione che le rugiade e le pioggie che cadono sopra l’Isola, si rendano per piccioli rivoli verso il mezzo, donde si gettano in quattro dilatati Bacini, ognun de’quali ha di circuito un mezzo miglio, ed è lontano dal centro per dugento verghe. L’acqua di questi Bacini si cangia ogni giorno pel calore del Sole in vapori, il che impedisce ch’eglino non isgorghino; senza metter in conto, che siccome è in arbitrio del Monarcha di far ascendere l’Isola al di sopra della Regione delle nuvole e de’vapori, così è in potere di lui, quando il voglia, di guarentirla dalle piogge e dalle rugiade; mercè che, a confessione di tutti i Naturalisti, non sono che alla distanza di due miglia le più alte nuvole. Ciò che vi ha di certo si è, che in quel Paese più che a quest’altezza non ascendono elleno mai.

Nel centro dell’Isola avvi un’apertura di cinquanta Verghe di diametro, per cui calano gli Astronomi in un gran concavo, che a cagion di ciò nomasi Elandola Gagnole, o la Caverna degli Astronomi, situato in profondità di cento Verghe più abbasso che la superior superficie di Diamante. Ardono di continuo in questa Caverna venti lampade, il cui lume sopra muraglie adamantine riflettuto, tramanda uno splendore che non può esprimersi. E’empiuto il Luogo di Quarti di Cerchio, di Telescopj, d’astrolabj, e d’altri strumenti Astronomici. Ma il più curioso oggetto, e donde ne dipende il destino dell’Isola, si è una calamita d’una prodigiosa grandezza, e d’una figura a una navicella di Tessitore, assai somigliante. Sei verghe di lunghezza e tre di grossezza ha questa calamita. Ella è sostenuta da un cardine fortissimo di Diamante che le passa pel mezzo, e su cui ella si aggira; ed è sì esatto il suo equilibrio, che il tocco più leggiero è valevole a muoverla. Di più: è attorniata da un voto Cilindro di Diamante, il qual ha quattro piedi di profondità, altrettanti di grossezza, e dodici verghe in diametro, situato orizzontalmente, e sostenuto da otto piedi di Diamante, ognun de’quali ha in altezza sei verghe. Nel mezzo della parte concava, evvi un incavo di dodici piedi di profondità, ove son collocate l’estremità del Cardine, e girano quando il bisogna.

Non vi ha forza che toglier possa questa pietra dalla sua situazione; piochè il cerchio che la circonda, e i piedi ond’ella sta appoggiata, fono una continuazione di quel Corpo di Diamante che forma la parte superiore dell’Isola.

Pel mezzo di questa calamita, si fa alzarsi, e bastarsi, e muoversi, l’Isola da un luogo all’altro: Essendo che, per rapporto a quella parte della Terra su cui si stende l’Imperio di Sua Maestà, e la pietra in una delle sue parti dotata d’una facoltà attrattiva, e d’una facoltà repulsiva nell’altra. In girando l’estremità attrattiva della calamita verso la Terra, discende l’Isola: e pel contrario ella monta direttamente ad alto, quando la Terra è risguardata dall’estremità repulsiva. Quando è obbliqua la posizion della pietra, lo è pure il movimento dell’Isola, mercè che in questa calamita, le forze operano sempre in linee paralelle alla sua direzione.

Con quest’obbliquo movimento, è trasportata l’Isola verso i differenti luoghi del Dominio del Monarca. Per meglio spiegar ciò, poniamo che A B sia una linea tirata a traverso del Regno di Balnibarbi; che la linea C D rappresenti la calamita, di cui D sia l’estremità repulsiva, e C l’attrattiva essendo l’Isola situata sopra C; che la posizion della pietra sia C D con l’estremità repolsiva al basso; allora io dico, che salirà l’Isola in linea obbliqua verso D. Pervenuta ch’ella sarà al punto D, che la pietra sia girata sopra il suo Asse finchè la sua attrattiva estremità sia appuntata inverso E, io dico che l’Isole sarà portata obbliquamente verso E; o se la pietra è di nuovo aggirata sopra if suo Asse finchè ella si trovi nella posizione E F con la sua estremità repulsiva al basso monterà l’Isola obbliquamente inverso F, o se diregesi l’attrattiva estremità in verso G, e da G inverso H, in girando la pietra, in modo che la sua estremità repulsiva sia direttamente al basso. E così cangiandosi la situazion della pietra tanto sovente quanto egli è necessario, l’Isola o monta, o discende, o muovesi in Linee più, o men obblique; e in questo modo dall’uno all’altro luogo del Dominio è trasferita.

Ma convien riflettere che quest’Isola non potrebbe essere portata più lunge di quel che si dilata l’Imperio del Re, nè salire a maggior altezza di quattro miglia. Del che gli Astronomi, che an composti grossi Volumi per ispegiare le maraviglie di questa pietra, recano la seguente ragione: Che la virtù magnetica non si diffonde al di la di quattro miglia; e che il Minerale il qual opera sopra la pietra nelle viscere della Terra, e nel Mare perfino a sei leghe o circa dalla spiaggia, non è sparso per tutto il Globo; bensì ha i limiti medesimi che il Dominio del Re: e agevole riuscirebbe a un Principe, pel gran vantaggio ch’egli ritrarrebbe da una somigliante situazione, di ridurre alla sua ubbidienza tutti i Paesi, a riguardo de’quali la calamita della sua Isola avrebbe le proprietà medesime.

Quando questa pietra è paralella all’Orizzonte, viene arrestata l’Isola; imperocchè in un tal caso, le due estremità trovandosi in egual distanza dalla Terra, operano con forza eguale, traendo l’una al basso, sospignendo l’altra all’alto, donde ne siegue che non può esservi muovimento.

E’affidata questa calamita all’attenzione di certi Astronomi, che di tempo in tempo le adattano quelle posizioni che più vuole il Monarca. Impiegan essi la maggior parte del viver loro nell’osservare i Celesti Corpi; il che fanno con cannocchiali infinitamente più eccellenti de’nostri. Un tal vantaggio gli ha messi in condizione di stendere le scoperte loro assai più lunge che i nostri Astronomi in Europa; perchè an essi formato un Catalogo di dieci mila Stelle fisse; laddove la più compiuta lista delle nostre, non ne continue che incirca la terza parte di questo numero. An discoperto due satelliti di Marte, un de’quali è lontano dal centro di questo Pianeta di tre de’suoi Diametri, e di cinque l’altro: aggirasi questo sopra il suo centro in ventun’ora e mezzo, e quegli in dieci; cosicchè: Quadrati de’loro Tempi periodici sono presso poco nella proporzione medesima co’Cubi di loro distanza dal Centro di Marte: il che dimostra con evidenza che son governati dalla Legge medesima di gravazione, onde son suggetti gli altri Corpi Celesti.

Hanno osservate novanta e tre Comete differenti, e notati con grand’esattezza i ritorni loro periodici. Se ciò è vero, come con gran franchezza l’assicurano, sono a desiderarsi estremamente le lor Opere rendute pubbliche, perchè servir potrebbono a portar la Teorica delle Comete, che fin al presente è molto difettuosa al punto medesimo di perfezione, ove le altre parti dell’Astronomia sono pervenute.

Sarebbe il Re il più assoluto Principe dell Universo, se solamente potesse rendere persuasi i suoi Ministri d’unirsi strettamente a lui: ma come son situati al Continente i Beni di questi, e che d’altra parte, spaccian eglino l’impiego di Favorito come cosa la più fragile del Mondo, assentir non vollero mai che ridotta fosse in ischiavitù la Patria loro.

Quando si ribella qualche Città, ch’è squarciata da violente Fazioni, o che niega di pagare gli ordinarj tributi al Re, servesi questo Principe di due metodi per rimetterla nel propio dovere. Il primo è il più soave si è, di situare l’Isola al di sopra di quella tal Città, e del circostante Paese, affin di toglierle la pioggia, ed il calore del Sole: il che immediate produce una generale consternazione, e cagiona infermità negli Abitatori. Che se il merita il loro delitto, si lancian loro dall’Isola delle grosse pietre, da cui non han essi che un solo mezzo per guarentirsi; ed è di cacciarsi entro caverne o concavità, in tempo che i tetti delle loro Case ruinano. Ma se a dispetto di tutto questo restan tenaci nella loro perfidia, o presumono di rivoltarsi: il Re ne viene all’ultimo de’rimedj, il qual è di lasciar cadere direttamente sull e loro teste l’Isola; il che in un tempo stesso e le Case della Città, e gli Abitatori distrugge. Con tutto ciò, molto di rado a un’estremità di questa fatta vuole ridursi il Monarca; anzi non ha egli mai una vera intenzione d’effettuarla: d’altra parte non ardirebbono i suoi Ministri consigliargli un’azione, che non solamente renderebbelo odioso al Popolo, ma eziandio ruinerebbe le propie loro Tenute, le quali sempre son collocate nel Continente, essendo l’Isola il Dominio del Principe.

Ma vi ha altresì una più importante ragione, perchè i Re di quel Paese cotanto ripugnino all’eseguimento d’una vendetta sì formidabile, se pure non vi son costretti da una estrema necessità: Essendo che, se nella Città che si vorrebbe distrutta, sienvi solamente alcune gran roccie, come ve ne sono quasi in tutte le gran Città, che, secondo tutte le apparenze sono state costrutte in luoghi idonei ad impedire una somigliante Catastrofe, una caduta alquanto gagliarda danneggiar potrebbe la superficie inferiore dell’Isola; la quale, tutto che consiste, come già il dissi, in un sol Diamante di dugento verghe di grossezza, potrebbe frangersi per un urto troppo violento, oppur fendersi in accostandosi troppo a’fuochi accesi nelle abitazioni della Città; come allo spesso cio avviene alle lastre di ferro, o di pietra ne’nostri Focolari. A maraviglia, di tutto cio n’è informato il Popolo; ed ha egli l’abilità di portar precisasmente la sua ostinazione al punto ove bisogna, quando si tratti della propia libertà, o de’propj Beni. E il Re, allor quando è più sdegnato, è più risoluto di rovesciare sossopra la Città, commanda che adagio adagio facciasi scender l’Isola, col pretesto della somma tenerezza di lui inverso il suo Popolo: ma in sostanza, per timore di spezzare la superficie del Diamante: nel qual caso son persuasi tutti que’Filosofi, che la calamita a sostenerla più non varrebbe.

Per una Legge fondamentale di quel Regno, nè al Re, nè a veruno de’suoi Primogeniti, non è permesso di distaccarsi dall’Isola: Quanto alla Regina, non l’è proibito, purchè ella non sia più in istato d’aver figliuoli.

CAPITOLO IV.

L’Autore parte da Laputa, è condotto a Balnibardi, e arriva alla Capitale. Descrizione di questa Città, e del sue Distretto. Ospitalità con cui egli è ricevuto da un Gran Signore. Sua conversazione con esso lui.

TUtto che non avessi un giusto motivo di lagnarmi della maniera con cui io era trattato in quell’Isola; un po troppo, non ostante, io vi era trascurato: ed era la trascuranza alquanto disprezzante: mercè che nè il Principe, nè chi che fosse de’Suggetti di lui, non avea la menoma curiosità per veruna Scienza, eccettuatene le Matematiche, e la Musica, che in confronto di loro molto poco io intendeva: dal che provenivane che molto poco pure a me si badasse.

Da un’altra parte, avendo io vedute tutte le rarità dell’Isola, mi moriva di voglia d’abbandonarla, non potendo più soffrire a patto veruno la compagnia di quel Popolo. Ma vero è ch’è lui eccellente in due Scienze che in ogni tempo furono molto da me apprezzate, ed in cui, ardisco di dirlo, io non sono onninamente ignorante; ma in ricompensa, stava egli di continuo sì forte profondato nelle sue specolazioni, ch’è impossibile di ritrovar uomini di un commerzio più disaggradevole. Io non frequentava che Donne, che Mercatanti, che Destatori, e che Paggj di Corte per gli due mesi del mio soggiorno colà; cosa, che alla fine in un generale dispregio gettommi. Ma che farvi? Eran costoro l’uniche persone, ond’io potea ricevere una risposta ragionevole.

A forza d’applicazione, mi era molto avanzato nella conoscenza della loro favella: mi trovava lasso d’essere confinato in un’Isola ove io faceva una sì sciocca figura; ed era risoluto a tutto costo con prima opportunità di lasciarla.

Aveavi alla Corte un Gran Signore parente assai stretto del Re, e rispettato per questa sola ragione. Fra coloro ei passava pel personaggio il più stupido, e il più ignorante di tutto il Regno. Molte volte renduti aveva segnalati servigj alla Corona, e possedeva qualità egregie di cuore e di spirito; ma in riguardo alla Musica, egli avea un’orecchia così cattiva, che i suoi nemici, d’aver allo spesso battuta a falso la misura, accusavanlo. Creder non si potrebbono gli stenti sofferti da’Precettori di lui in dimostrargli una sola proposizione di Geometria, ed anche delle più facili. Diedemi molti contrassegni di benevolenza, sovente mi onorò di sue visite, e mi pregò d’instruirlo degli Affari dell’Europa, e altresì delle Leggi, delle Costumanze, e delle Scienze del bell’uso ne’differenti Paesi, ove viaggiato io avea. Mi ascoltò con estrema applicazione, ed eccellentemente riflettè su tutto ciò che gli dissi. Il posto da lui tenuto in Corte, l’obbligava ad avere due Svegliatori a sue spese; ma non se ne serviva mai se non in presenza del Re, o in alcune visite di cerimonia, e gli faceva sempre uscire, quando soli insieme ci trovavamo.

Pregai questo Signore d’intercedere a favor mio dal Re la permissione d’andarmene: ei ricevè l’impegno della commissione, comechè contra genio, a quel che meco con bontà se ne spiegò, poichè statemi da lui avanzate molte vantaggiose proposizioni, io, con mille proteste d’un eterno riconoscimento, le ricusai.

Nel decimo sesto di Febbrajo presi congedo da Sua Maestà, e da tutta la sua Corte. Fecemi un regalo il Re pel valore di dugento Ghinee; e il mio Protettore, di lui parente, un più ragguardevole ancora, aggiugnendovi una lettera di raccomandazione per un Amico ch’egli avea in Lagado, la Capitale. Stando allora situata l’Isola al di sopra d’una Montagna in distanza di sole due miglia da questa Città, ne fui calato dalla Loggia più inferiore, nella guisa stessa con la quale io avea salito.

La Terra Ferma, per quanto dilatasi il Dominio del Monarca dell’Isola Fluttuante, porta il nome generale di Balnibarbi, e la Capitale, come già il dichiarai, si appella Lagado. Non fu mediocre la mia consolazione di ritrovarmi sul Continente. Essendo io abbigliato come un Naturale del Paese, e sapendo abbastanza il linguaggio per farmi intendere, spasseggiai senza timore di sorta per la Città. Fummi facile di rintracciare l’abitazione di quegli a cui io era raccomandato, e la lettera del suo Amico gli presentai. Non può darsi ricevimento più obbligante del praticatomi da quel Signore, il qual chiamavasi Munodi: ei mi assegno un Appartamento in sua casa, ove restai per tutto il tempo del mio soggiorno a Lagado.

Il giorno dietro del mio arrivo, ei mi prese nel suo Cocchio per veder la Città, la qual è grande poco più, poco meno per la metà di Londra; ma i suoi edifizj sono mal costrutti, e cadono, quasi tutti in ruina.

E affrettato il Popolo in camminando per le strade, egli ha un portamento distratto, ed è quasi tutta cenciosa la sua vestitura. Noi passammo per una delle porte della Città, e per tre miglia c’innoltrammo nel Distretto, ove vidi molti Campajuoli che con diverse sorte di strumenti la terra smuovevano, ma indovinar mai non seppi il loro disegno; nè in luogo veruno, o frumento, od erba non ravvisai, tutto che il Territorio apparisse eccellente. Ciò che testè veduto io avea in Città, e ciò che sul fatto stesso io vedeva in Campagna, rendemmi ardito per chiedere al mio Conducitore la spegazione di quel, che il prodigioso numerò di teste, e di mani occupate, tanto nelle strade che ne’Campi, significar volea; imperciocchè non poteva io figurarmi che qualche cosa risultar ne dovesse; ma che, pel contrario, in alcun tempo non mi era caduto sotto l’occhio un Territorio più mal coltivato, Case sì pessimamente fabbricate, o un Popolo, la cui aria, e il cui vestimento esprimessero una più profonda miseria. Era Munodi un Signore del primo carattere, ed era stato per molti anni Governatore di Lagado; ma un imbroglio de’Ministri tolsegli quel Governo. Con tutto ciò con molta bontà il trattava sempre il Rè, come un suddito assai ben intenzionato, ma di pochissimi talenti.

Fatta che gli ebbi la censura del Paese e degli Abitanti, ei non mi rispose nulla; dissemi solo che la brieve mia dimora non poteva per anche mettermi in istato di formarne qualche giudizio, e che ogni Nazione del Mondo ha i suoi peculiari costumi; con alcuni altri comuni luoghi del genere medesimo. Ma ritornati che fummo al Palagio di lui, mi dimandò cio che sembravami di quell’Edifizio, quai difetti vi avessi osservati, e qual fosse il mio pensiere sopra il portamento e la vestitura de’suoi domestici? In farmi somiglianti quistioni, ei non correva gran risico; con ciò sia che tutto ciò che si rinveniva in una sua Casa, passar potea per cosa assai regolare, e dell’ultima magnificenza. Gli replicai, che la saggezza, la qualita e le ricchezze di sua Eccellenza, aveanla messa al coperto da’difetti che la follia, e la meschinita prodotti aveano negli altri. Si espresse egli, che se io gradiva d’accompagnarlo alla sua Casa di Campagna, che per venti miglia era discosta dalla Capitale, ed ove stavano situate le Tenute di lui, avuto avremmo il piacere di disputar a nostr’agio su quest’argomento. Fu la mia risposta che io dipendeva interamente da’cenni suoi; cosicchè non fu differito che al dì seguente il nostro picciolo viaggio.

Nel frattempo del nostro cammino, egli osservar mi fece i metodi differenti, onde per render colte ed ubertose le loro terre, servonsi i Fattori di Campagna: Metodi, che mi parvero assolutamente incomprensibili; poichè, toltine alcuni luoghi in picciolissimo numero, cannello di biada di sorta non vidi in qualunque parte, e neppure il menomo filo d’erba. Ma tre ore dopo, più così non passò la faccenda: ci trovammo in un Paese il più bello del Mondo. Ben fabbricati Edifizj di Castalderie, in corta distanza gli uni dagli altri, regnavanvi. I Campi cinti di siepi, contenevano de’vigneti, de’seminati, o delle praterie. Non mi ricordava d’aver mai veduta cosa più deliziosa. Notò bene l’Eccellenza Sua la giocondità che dipignevasi sulla mia faccia, e dissemi sorridendo, che quivi cominciavano i suoi Poderi, e che sempre vi avremmo camminato sopra, finchè alla sua abitazione pervenuti fossimo: Che le Genti del Paese lo spacciavano per uno sciocco, e il dispreggiavano, perchè egli non badasse con più attenzione a’propj affari, e recasse a tutto il Regno un esempio sì pernizioso, il qual tuttavia era seguito da picciol numero di persone.

Arrivammo finalmente alla Casa, ch’era un superbo Edifizio, costrutto secondo le migliori regole dell’antica Architettura: Fontane, Giardini, Passeggj, Viali, Grotte, tutto era fatto e disposto con discernimento, e con gusto. Io lodava qualunque cosa, senza che Sua Eccellenza mostrasse d’avvedersene; ma dopo cena, restati soli che fummo, con uno stile di maninconia ei mi disse, che trovavasi in una grande apprensione, dubitando d’essere costretto di gettar a basso tutte le sue Case di Campagna, e di Città, per rifabbricarle alla nuova moda: di distruggere tutte le sue piante, per formarne dell’altre nella figura prescritta dall’uso corrente, e d’ingiugnere gli ordini medesimi a tutti i suoi Fattori: che senza questo egli si esporrebbe alle imposture d’orgoglio, di spirito, di singolarità, d’affettazione, d’ignoranza, e di capriccio, ed eccitarebbe forse contra di se lo sdegno, e la disgrazia di Sua Maestà.

Aggiunse; che svanirebbe ben presto la mia maraviglia, quando informato fossi d’alcuna particolarità, che, secondo tutte le apparenze, io non aveva apprese alla Corte, essendo colà gli uomini troppo ingombri dalle propie loro speculazioni, per doversi prender cura di quanto quì abbasso si pratica.

Sono quarant’anni, o circa, ei mi disse, che taluni, o per piacere, o per affari, il viaggi di Laputa impresero; e dopo d’esservi soggiornati per cinque mesi, furono di ritorno con una leggerissima tintura delle Matematiche, ma ricolmi di spiriti volatili, in quell’aerea Regione conceputi: Che cominciarono costoro dal biasimare ogni cosa senza eccezione veruna, e che il disegno di mettere l’Arti, le Scienze, la Favella, e le Meccaniche sopra un nuovo piede, formarono: Che a tal effetto, fecero in modo che ottennero un Diploma per l’erezione in Lagado d’un’Accademia di Manipolatori di progetti, e che spezie tale di malattia fu sì contagiosa, che ben presto non vi ebbe neppur una sola Città del Regno, anche delle men ragguardevoli, che non avesse la sua Accademia particolare: Che ne’Collegj di questa fatta, inventano i Professori nuovi metodi di coltivar le terre, e di fabbricar le Case; ed altresì nuovi strumenti per tutti i mestieri, e per le manifatture: Strumenti sì stupendi, che in servendosene un sol uomo, è capace di far l’opera di dieci, e un Palazzo può esser fabbricato in una settimana con materiali sì durevoli, che non vi abbisogni la menoma riparazione mai più: Che studian eglino eziandio le maniere perchè in qualunque stagione maturino tutte le frutte della terra, e perchè ingrossino cento volte più che al presente: Che vi ha, non ostante, una sola inconvenienza, che niun di questi progetti trovasi per anche ridotto a perfezione, e che nel frattempo, il Paese se la passa in una deplorabile costituzione, che gli edifizj ruinano, e che il Popolo muore di fame, e non ha con che ricoprirsi. Il che, anzi che disanimargli, vie più rinvigorisce in loro il furore de’progetti: Che quanto a lui, che non era uno spirito intraprendente; stavasene; egli pago di calcare il cammin battuto, di soggiornar nelle Case state costrutte da’suoi Antenati, e di niente innovare nella maggior parte delle cose della vita: Che certi qualificati Signori, ed alcuni altri di minor carattere aveano i sentimenti medesimi, ma ch’erano vilipesi, e trattati come tanti ignoranti, e pessimi Cittadini, che all’universal vantaggio la propia particolar comodità preferivano.

Aggiunse Monodi; ch’egli introducendosi in una più distinta specificazione, scemarmi non volea il piacere che avrei risentito nel visitare la loro grande Accademia, come Consigliavami di fare. Mi pregò solamente di gettar lo sguardo sopra un disolato edifizio, che in distanza di tre miglia da noi scoprivasi sulla declività d’un monte, di cui eccone la precisa storia. Io avea, ripigliò egli, a una mezza lega dalla mia abitazione un Mulino assai buono, il qual col benefizio d’una grossa Riviera continuamente girava, e donde io traevane, e i miei Fattori altresì, quel miglior uso che desiderar potevamo. Sono sett’anni, o circa, che una Società di questi Manipolatori di proggetti venne a propormi di distruggere questo Mulino, e di costruirne un altro sul fianco di questo Monte; sulla sommità di cui, dicevan coloro, conveniva far un canale, che fosse una foggia di Serbatojo; nel quale, pel mezzo di molti cannoni si sarebbe fatta scorrere l’acqua, e quindi se ne sarebbe somministrata al Mulino: mercè che il vento, e l’aria imprimevano nell’acqua, quand’ella si trova sopra una eminenza, un nuovo grado d’agitamento, e per questa stessa ragione, più idonea al moto la rendono; ed eziandio, perchè discendendo l’acqua in maggior declività, potea più facilmente far girare il Mulino, che nol farebbe un fiume, il quale scorre con maggior livello. E come allora, continuò Monodi, io non mi trovava troppo bene in Corte, e che d’altra parte molti miei Amici mi stimolavano, soscrissi al progetto: Ma dopo di aver per lo spazio di due anni fatto travagliare un centinajo d’uomini se ne ristette l’opera, e i Manipolatori di progetti si ritirarono, ribattendo sopra di me il mal successo, e scongiurando tutti i possessori di Mulini ad acqua sopra le Riviere, di farne fabbricare sopra qualche monte, per convincermi coll’esperienza del torto che io mi faceva.

Pochi giorni doppo fummo di ritorno alla Città, e riflettendo Sua Eccellenza di non trovarsi ella in troppo buon odore presso l’Accademia, non volle andarvi in mia compagnia, ma ad uno de’suoi Amici mi raccomandò. Dipinsemi a quest’Amico come un grande ammiratore di progetti, straordinariamente curioso, e di buona fede; il che tuttavia era alquanto vero, avendo io medesimo in qualche tempo fatti de’progetti assai ridicoli.

CAPITOLO V.

L’Autore ha la permissione di vedere la Grande Accademia di Lagado. Ampia descrizione di quest’Accademia. Arti nelle quali vi c’impiegano i Professori.

NON è quest’Accademia un solo Edifizio, bensì una serie di molte Case  d’ambo i lati d’una strada, la qual divenuta disabitata, in domicilo degli Accademici destinossi.

Fecemi il Rettore un graziosissimo accoglimento. Ciascuna stanza conteneva uno o più Manipolatori di progetti, e ben credo che vi fossero da cinquecento stanze in tutto.

Il primo uomo, in cui mi abbattei, era smunto e squallido, avea la faccia, e le mani tutte fuliggine, i capelli rabbuffati, la barba lunga, ed era per sopra più tutto lacero. I suoi vestiti, la sua camiscia, e la sua pelle, erano precisamente del colore medesimo. Otto anni consumati avea nel preparar de’cocomeri per attraerne i raggj Solari, che disegnava di riporre in vasi ermeticamente suggellati, affin di valersene a riscaldare l’aria nelle Stati poco favorevoli. Dissemi, ch’ei punto non dubitava, nel termine d’anni otto di non trovarsi in istato di somministrare una ragionevole quantità di questi raggj al Giardino del Governatore; ma lagnavasi dell’estrema mediocrità del suo stipendio, e mi pregò di dargli qualche picciola cosa per incoraggirlo nel suo lavoro, e per compensarlo alquanto dell’eccessivo caro prezzo, onde l’anno precedente erano stati i cocomeri. Gli feci un picciolo presente; avvegnachè il Signore che mi albergava, provveduto aveami a tal oggetto di qualche danajo, ben sapendo ch’era lor costume di chiedere onestamente la limosina, a tutti que’che andavano a visitargli.

Entrai in un’altra stanza; ma fui sul punto di tornarmene immediate addietro, a cagione del puzzo orribile che mi diede nelle narici, nell’atto di porvi il piede. Sospinsemi avanti il mio Conducitore, e mi accennò di non dare il menomo indizio d’aversione, o di nausea, perchè avrebbesi ricevuto per un’offesa mortale. Il credei, e violentai la mia pulitezza perfino a non otturarmi neppur il naso. Era il più vecchio Studente dell’Accademia colui che in quella cella abitava. Tutte impeciate di lordure erano le mani e le vestimenta di lui. Presentato che me gli ebbi, fu ad abbracciarmi con ogni sorta di tenerezza; civiltà, da cui l’avrei dispensato ben volentieri. Dal primo istante del suo aggregamento all’Accademia, si era gli applicato a rimettere nel loro stato primitivo gli escrementi umani, separandone quella spezie di tintura che vi è influita dalla bile, facendone svaporare l’odore, e il salivale togliendone. Pagavagli ogni settimana la Società una sorta di diritto, consistente in un vase riempiuto di umane fecce, perchè gli esperimenti suoi egli proseguire potesse.

Vidi un altro, tutto intento a calcinar del ghiaccio per formarne polvere da cannone. Mostrommi costui un Tratto da lui composto sopra la Malleabilità del Fuoco, già tutto in pronto per mettersi alla luce. Quivi pure stavasene un Architetto ingegnosissimo, inventore d’un nuovo metodo di frabbricar le Case, cominciando dal colmo, e terminando per le fondamenta, il che con l’esempio di due prudentissimi insetti, l’Ape, e il Ragnolo, egli giustificava.

In un altro Appartamento mi venne sotto l’occhio un uomocieco nato, e con esso seco molti allievi, parimente ciechi. Consisteva il loro impiego nel frammescolar de’colori per uso della Dipintura; e il Maestro lor insegnava a distinguerli pel mezzo del tatto; o pel mezzo del gusto. Ma per tutto il tempo che io fui presente, assai male vi riuscirono; essendosi il Professore medesimo quasi ogni volta ingannato.

Ma nulla sono i progetti tutti or ora da me mentovati, in paragone di quegli che in questo punto participar voglio a’miei Leggitori. Da uno di quegl’industriosi Accademici si era ritrovata l’Arte di lavorar la terra con porci, per risparmiare la spesa degli aratri, de’buoi, e degli operaj. Ecco il metodo di lui. In un campo di terra convien sotterrare a sei pollici di distanza l’une dall’altre, e ad otto di profondità, un buon numero di ghiande o di datteri, che i porci cercano con grande avidezza; dopo ciò, convien condurre sopra luogo cinque o secento di questi animali: or eglino, arrivati appena, smuoveranno co’grugni loro tutta la terra rintracciando il lor nutrimento, e la renderanno idonea ad essere seminata, ingrassandola nel tempo stesso col loro letame. Per vero dire, dopo molti reiterati esperimenti, si è rinvenuto che il travaglio era non poco, senza che tuttavia ricolto di sorta se ne fosse veduto. Con tutto questo non si dubita che il ritrovamento non abbia un giorno ad essere estremamente perfezionato.

Rendeimi in un’altra Camera tapezzata d’ogni intorno di tele di ragnolo, se si eccettui un picciolo passaggio molto angusto, per cui l’Artista entrare ed uscire poteva. Ravvisato ch’ei mi ebbe, gridò con forte tuono che non toccassi le sue tele. Qual fatal errore, mi disse, che per un tempo sì sterminato ci siam prevaluti de’bachi da seta, quando in tanta copia abbiamo animaletti domestici, di que’vermini infinitamente migliori! Oltracciò, aggiunse, servendoci de’ragnoli, a temer non avremmo l’incomodità che cagiona la morte de’bachi; del che interamente ne restai convinto, quand’ei mi fece mostra d’un numero prodigioso di mosche a maraviglia colorate, ond’egli nutricava i suoi ragnoli, assicurandosi che le tele ne concepirebbono qualche tintura, e che come avevane di tutti i colori, si lusingava di ritrarne gran profitti da un tale ritrovamento, immediate che riuscito gli fosse di nutrir le sue mosche con certe gomme, con certi olj, e con altre glutinoso materie, per inserir nelle sila della forza, e della consistenza.

Un altro Accademico, ch’era Astronomo, impreso avea di collocare un Orivolo da Sole sopra la girandola del Palazzo di Città, aggiustandone il muovimento annuale e giornaliero della Tera e del Sole, in modo, che esattamente corrispondesse a tutti gli accidentali muovimenti, che il vento facesse fare alla girandola.

Mi accadde di dovermi lagnare col mio Conducitore per un picciolo assalimento di colica, ed egli mi guidò nell’Appartamento d’un famoso Medico, rendutosi tale pel modo di guarire questa sorta di malattia. Ecco il suo metodo. Una sciringa di misura enorme, era da lui riempiuta d’aria: scaricava egli quest’aria nel corpo del paziente, e dopo ciò, ritiravane lo strumento per rimpierlo di nuovo d’aria; cosicchè replicato appena per tre volte, o quattro, quest’esercizio; il vento, onde il corpo del paziente era riempiuto, forzava quello che cagionato avea il male ad uscirne, e quindi seguivane la guarigion dell’infermo. Ei ne fece un saggio sovra un cane in presenza mia, il qual cane, per dir vero, non si lagnava d’aver la colica; ma in ricompensa ne fu preservato per sempre; mercè che alla seconda scarica della sciringa, il povero animale crepò. Noi lasciammo il Dottore molto occupato a restituirgli la vita, facendone uscire il soverchio d’aria: ma dubito del riuscimento dell’operazione.

Diedi una scorsa per molti appartamenti; ma non avendovi ritrovata cosa così importante come il narrato fin quì mi scuserà chi legge se la passo sotto silenzio.

Fin allora io non avea visitata cbe una parte dell’Accademia, essendo abitata l’altra da que’che si applicano all’avanzamento delle Scienze specolative, di cui ne farò parola, dopo di aver fatta menzione d’un illustre Personaggio, dinominato fra coloro l’Artista Universale. Ei ci notificò d’essersi occupato pel corso di trent’anni in rintracciar i mezzi di prolungare la vita umana. Due gran camere egli avea ripiene di mille curiosità, e cinquanta uomini operavano sotto di lui: entro a un vase condensavano questi l’aria; e que’avean l’arte di togliere da quest’aria tutte le particelle di nitro o d’acqua; ed altri ammollivano pezzi di marmo per formarne de’cuscinetti, e de’guanciali. L’Artista medesimo si trovava allora molto impegnato in due gran progetti. Consisteva il primo in seminare una terra di paglia, in cui, diceva egli, contenevasi la vera virtù producitrice; il che egli dimostrava con molti ragionamenti, che io non ebbi la capacità di comprendere. La seconda invenzione tendeva ad impedire che gli agnellini non si ricoprissero di lana; lusingandosi l’Artista di poter ciò effettuare col mezzo d’alcune gomme, ed’alcuni minerali applicati esteriormente sopra la loro pelle, e che nello spazio di qualche tempo si sarebbe sparsa per tutto il Regno una razza di pecore totalmente ignude.

Facemmo un giro all’altra parte dell’Accademia, ove, come già il diceva, i Manipolatori di progetti in i scienze specolative, la loro Residenza aveano.

Il primo Professore che io vidi, se ne stava in un grande Appartamento, ed avea quaranta Scolari d’intorno a se. Dopo i primi complimenti, osservando egli che io risguardava con attenzione una macchina, che, poco men che la stanza tutta teneva ingombra, disse che io forse mi trovava sorpreso, che egli formato avesse il disegno di servirsi di meccaniche operazioni, per l’aumentazione delle conoscenze specolative: ma che il Pubblico troppo tardato non avrebbe a risentirne l’utilità di cotale metodo: e che vantavasi senz’altro, che uomo al Mondo inventata non avesse più bella cosa. E noto ad ognuno, continuò il Professore, quanto sia laborioso l’ordinario metodo di far acquisto di certe scienze; laddove con l’invenzione, onde io vi parlo, l’uomo, il più ignorante, può, con poco stento, e quasi con niuna spesa, scrivere sopra la Filosofia, la Poesia, la Politica, le Leggi, le Matematiche, e la Teologia; e ciò senza avere nè genio, nè studio. Mi fece allora avvicinare alla macchina attorniata da tutti i lati da’discepoli di lui, disposti in ordine. Ella avea venti piedi in quadro, e ne stava collocata nel mezzo della Camera. Era composta la sua superficie di diversi pezzi di legno, presso poco, della grossezza d’un dado ma gli uni alquanto più larghi che gli altri. Tutti questi pezzi erano uniti insieme con sottilissime fila, ed era coperti di carta esattamente applicata sopra cadaun quadrato; e sopra queste carte stavano scritti tutti i termini di loro Lingua ne’loro differenti Modi, Tempi, e Declinazioni, ma senza regolarità veruna. Pregommi il Professore di star attento, perchè ei accignevasi a far operar la sua macchina. Aveavi quaranta manichi di ferro d’intorno alla macchina stessa confitti; ed ognuno de’Discepoli, per ordine del Maestro, impugnava un manico: dopo ciò, per un giro di mano ch’essi lor diedero, vidi che interamente si era cangiata la disposizione de’termini. Il Maestro allora comandò a trenta e sei de’suoi Discepoli di leggere a bassa voce le differenti linee che erano apparute sopra la macchina: che se eglino trovavano tre o quattro termini insieme che una parte di frase compor potessero, erano obbligati di dettargli agli altri quattro giovani ch’erano i Segretarj. Tre volte o quattro era ripetuta quest’operazione, ed ogni volta in nuovo modo si trovavano disposti i termini. Sei ore del giorno erano impiegate dagli Scolari in questo studio; e il Professore molti fogli mi mostrò da lui composti di diverse imperfette frasi, che disegnava di cucir insieme, per formarne poscia un dì di tutti questi ricchi materiali un compiuto sistema di tutte l’Arti, e di tutte le Scienze: Disegno, diceva egli, potevasi metter in eseguimento con assai maggior facilità, e con assai maggior prontezza, se il Pubblico determinato si fosse a crear un Fondo per far costruire, e metter in opera in Lagado cinquecento di queste macchine, e ad ordinare a’Direttori di unir insieme tutte le loro collezioni.

Ei mi assicurò di aver fin dalla prima sua giovinezza consecrati tutti i suoi pensieri a cotale ritrovamento; che nella sua macchina non era ommesso termine veruno del suo linguaggio; e che avea egli formato il più scrupoloso calcolo della general proporzione che vi è fra’numeri delle particole, de’Nomi, de’Verbi, e delle altre Parti della Favella.

Rendei i più umili ringraziamenti a quel Personaggio illustre, per la facilità con cui egli d’un sì bel progetto facea mi parte; e gli promisi che se mai per buona sorte la mia Patria riveder dovessi, defraudato non l’avrei della giustizia di riconoscerlo per l’unico Inventore di quella Macchina maravigliosa. Gli dissi, che tutto che sia ordinario costume de’nostri Letterati in Europa di farsi onore degli altrui ritrovamenti; donde, per lo meno, riveniva lor l’avvantaggio di piantar una controversia, qual fosse l’Inventore vero; ei, non ostante, potea accertarsi, che quanto alla macchina testè da me veduta, chi che sia non gli contrasterebbe la gloria dell’invenzione.

Alla Scuola di Lingua di poi passammo, ove tre Professori unitamente deliberavano sopra i mezzi di perfezionare il Linguaggio del loro Paese.

Il primo progetto si era d’abbreviare i Ragionamenti, non lasciando che una sillaba a tutti i termini che ne aveano molte, e troncando i Verbi ed i Participi; mercè che a ben riflettervi, tutte le cose immaginabili non sono che nomi.

Ma, dice uno degli altri, non sarebbe meglio di troncare assolutamente tutti i termini? Per far meglio gustare un somigliante progetto, ei pruovo che la sanità, ell’amore del parlar breve, troverebbonvi egualmente il loro conto; essendo incontrastabile, che ciascuna parola che noi pronunziamo, per quanto poco il faccia, logora i nostri polmoni, e per conseguenza a corcia il nostro vivere, E per tal ragione ei proponeva come ottimo espediente, che poichè i termini non sono che i nomi delle cose, sarebbe più ragionevole che ognuno con se portasse le cose, onde ei volesse discorrere. E senz’altro avrebbe avuto luogo questo ritrovamento, con somma vaghezza del Ritrovatore, se le Donne, collegate col profano Volgo, minacciata non avessero una rivoltura, se lor si togliesse l’uso di loro favella per parlare alla foggia degli Avoli loro. Tanto è vero che la Plebaglia è un nemico implacabile di tutto ciò che Scienza si appella. Non ostante, molti saggissimi ed eruditissimi uomini sieguono il nuovo metodo d’esprimersi per cose: metodo, a cui tuttavia opponesi una picciola inconvenienza; ed è, che quando un uomo ha molti affari, e di differenti spezie, egli è costretto di portar con esso seco una quantità molto più considerabile di cose, purchè non gli manchino i mezzi di mantenere alcuni servidori che da tal fastidio l’esimano. Vidi talvolta due di questi Saggi poco men che oppressi sotto il peso de’lor fardelli, come appunto i merciajuoli delle strade fra noi. Quando questi Signori si rifcontravano fuori di casa, adagiavano i loro fagotti a terra, e traendone le merci l’una dietro l’altra, si trovavano in istato di trattenere per un’ora intera la conversazione; dopo di che, ciascheduno raccoglieva le sue, ed essendosi l’un per l’altro ajutati a riporsi in sulle spalle le loro cariche, si licenziavano.

Ma quanto a men lunghi trattenimenti, puossi agevolmente mettere sotto il braccio o nelle propie tasche tutto ciò ch’è bisognevole; e quando si sta in casa, non vi ha imbarazzo di sorta. Ecco la ragione, perchè la Stanza ove si assembiano coloro che una tal Arte mettono in uso, è ripiena di tutte le cose, che sono necessarie per far sussistere sì ingegnose conversazioni.

Un altro gran vantaggio che ritrar si potrebbe cotal invenzione si è, che quindi ne proviene un Linguaggio Universale, ben inteso da tutte le colte Nazioni, le cui masserizie, e suppellettili generalmente, alle nostre affatto rassomigliano. Con questo mezzo pure gli Ambasciadori trattar potrebbono co’Principi Stranieri, o co’Ministri di Stato, se di essi ne ignorassero la favella.

Fui susseguentemente alla visita della scuola di Matematica ove ravvisai un Maestro, che per insegnar questa Scienza a’suoi Discepoli, valevasi d’un metodo, alquanto, al parer mio, bizzaro. La Proposizione e la Dimostrazione sono scritte in caratteri assai leggibili sopra una Cialda sottilissima, con inchiostro composto d’una tintura Cefalica. Questa Cialda o pasta, dev’estere tranguggiata a digiuno dallo Studente; nè può egli per tre susseguenti giorni cibarsi con altra nutritura che d’un poco di pane ed acqua. A misura che se si esse: tua la digestione della Cialda, monta la tintura al cervello, e la Proposizione è obbligata d’accompagnarla. Ma fin al presente non ha il successo, del tutto, corrisposto all’espettazione dell’Inventore; in parte, per qualche sbaglio nel componimento della tintura; e in parte, per la malizia de’giovanetti, a’quali un tal boccone promuove tanta nausea, che la maggior parte d’essi procura di renderlo innanzi l’operazione: e oltracciò, non si è potuto per anche far loro osservare la regola del vivere, sì necessaria, secondo questo metodo, per apprendere le Matematiche.

CAPITOLO VI.

Continuazione del medesimo Argomento. Propone l’Autore alcuni nuovi Ritrovamenti, che con grandi applausi sono ricevuti.

NOn troppo mi ricreai in visitar la Scuola de’Manipolatori di progetti Politici, perciocchè coloro mi sembravano onninamente insensati; spettacolo, che in me produce una incessante maninconia. Formavano que’Visionarj, de’progetti di persuader a’Monarchi di non badare nella scelta de’loro Favoriti, che alla Saggezza, alla Capacità, e alla Virtù, di non prendere de’Ministri che per travagliare con miglior successo al vantaggio Pubblico; di non disgiugnere mai il loro interesse da quello del loro Popolo; di non conferire gl’impieghi che a persone idonee ad esercitargli, con altre chimere molte, onde in verun tempo non si è chi che sia avvertito, e che mi an fatto toccar con mano l’aggiustatezza d’un’antica Massima, la qual dice: che cosa non vi ha sì assurda, che alcuni Filosofi avan, zara non abbiano come vera.

Per rendere, non ostante, giustizia a quegli Accademici di Politica, confessar deggio che tutti non sono eglino Visionarj. Si trovava fra coloro un uomo, che parevami a maraviglia conoscitore della Natura, e del Sistema del Governo. Quest’illustre Personaggio si era applicato con molta utilità in rintracciar sovrani rimedi contra tutte le malattie, cui soggiacciono le differenti spezie di Pubbliche Amministrazioni, tanto per gil vizzi, o per le debolezze di que’che governano, quanto per gli difetti di que’che debbono ubbidire. Per esempio: giacchè tutti que’che applicati si sono allo studio del governo degli uomini, unanimi accordano che vi è un’universale rassomiglianza fra il corpo naturale, e il corpo politico; non è forse un’evidenza, che le infermità d’amendue questi corpi guarite esser deggiono, e che co’rimedj medesimi la lor sanità dev’essere conservata? Egli è certo, che talvolta alcuni Consigli sono incomodati da peccanti umori, e molestati da molti mali di capo, e più ancora da mali di cuore, con gagliarde convulsioni, e con violenti raggrinzamenti di nervi in ambo le mani, comechè principalmente nella destra. Talvolta sono assaliti da vertigini, da deliri, da una fame canina, o da indigestioni, e da altri morbi di questo genere. Il Piano di questo Dottore era dunque; allorchè si assembiasse un Consiglio, v’intervenissero, i tre primi giorni della Sessione, alcuni Medici, i quali all’ultimo de’dibattimenti di ciascun giorno, tastassero il polso a ciascun Consigliere; dopo di che, avendo maturamente deliberato sopra la natura de’diversi mali, e sopra il modo di guarirgli, potessero il quarto giorno restituirsi al luogo del Assemblea, accompagnati da Speziali provveduti d’ottime medicine, i quali avessero la cura, prima che si fossero assisi i Membri, di dispensare ad ognuno d’essi, Lenitivi, Apertivi, Astersivi, Corrosivi, Ristrignenti, Palliativi, Lassativi, o qualunque altra Droga lor necessaria: pronti pel giorno dietro, a ripetere, a cangiare, o ad ommettere i rimedj stessi, secondo l’effetto che essi prodotto avessero.

L’eseguimento d’un tal progetto non costerebbe gran cosa al Pubblico, e sarebbe molto utile, a quel che io penso, per ispedire prontamente gli affari in que’Paesi, ove i Consiglj fin qualche parte nell’Autorità Legislativa. Ei produrrebbe l’unanimità; abbreviarebbe le discussioni; aprirebbe quelle poche bocche che al presente son chiuse, e suggellarebbe il numero prodigioso di quelle che sono aperte; reprimerebbe la petulanza de’giovani, e correggerebbe l’ostinazione de vecchj; imprimerebbe vivacità negli stupidi, e ritegno ne’balordi.

Di più: come generalmente si ha il motivo di querelarsi che i Favoriti de’Principi son dotati d’una memoria la men felice, il Dottore medesimo proponeva come un rimedio ad un tal male, che chiunque andasse a ritrovare un Primo Ministro, dopo di avergli esposto in brievi e chiari termini il propio affare, in partendosi, tra esse questo Signore pel naso o per l’orecchio, gli desse qualche colpo di piede nel ventre, gli pizzicasse ben bene le braccia, ogli cacciasse un’aguglia nelle natiche; il tutto, perche meglio del negozio onde si tratta, ei si risovvenisse: Rimedio, che converrebbe ripetersi tutte le volte che il si vedesse, finchè la cosa fosse fatta, o rigettata assolutamente.

Egli era eziandio di parere, che ogni Membro del Gran Consiglio della Nazione, dopo di aver proposto e difeso il propio sentimento, obbligato esser dovesse a dar il suo voto in favore dell’opinione contraria; mercè che ciò facendosi, ne proverrebbe infallibilmente la conchiusione in vantaggio pubblico.

Quando da violente Fazioni è lacerato lo Stato, egli avea rinvenuto un maraviglioso mezzo per accordarle. Eccolo questo mezzo. Convien prendere un centinajo di Capi di cadaun Partito, e mettere l’una contra l’altra le teste che poco più o meno sono della figura medesima; che dopo ciò, due peritissimi Chirurgi seghino l’occipizio di ciascun pajo in un tempo stesso, cosicchè il cervello sia diviso in due parti eguali: Che cadauno di questi occipizj così tagliati, applicato sia sopra quella testa a cui gli non appartiene. Egli è ben vero che somigliante operazione richiede una gran destrezza, ed una esatezza somma; ma assicuravasi il Professore, che se il Chirurgo vi faceva ben le sue parti, la curagione riuscirebbe infallibile; imperciocchè così gli la discorreva: Dibattendosi insieme le due eguali porzioni di cervelli, le materie che formano il suggetto della Disputa non potrebbono non convenire ben presto; e per ciò che risguarda la differenza de’cervelli in quantità e in qualità fra coloro che sono i Direttori delle Fazioni, protestava in sua coscienza il Dottore, ch’era una chimera.

Intesi due professori che stavano disputando con molto fuoco sopra il miglior metodo d’impor Tasse senza aggravio del Popolo. Affermava il primo che il modo più sano sarebbe di tassare i vizzi e la follia; e d’appossare in cadauna strada un certo numero di Soprastanti, che adducessero testificazione de’gradi di stravaganza, e di corruttela de’loro Vicini, su’quali regolar si potrebbe la somma che ognuno a pagare tenuto fosse. Direttamente opposta era l’opinione del secondo, il qual volea che si mettesse una gabella sopra quelle qualità del Corpo e dell’Anima, onde gli uomini il più si pregiano da se medesimi; e che questa gabella fosse più o men grande, a misura del grado più o men eminente onde si eleverebbono queste qualità: grado, a riguardo di cui, sarebbe ognuno sulla propia parola creduto.

L’imposta più gravosa concerneva i più segnalati Favoriti del Bel sesso, ed erano regolate le tasse secondo il numero e la natura de’ricevuti favori; nel che si doverebbe pure rapportarsi alle loro propie dichiarazioni. La vivacità dello spirito, il valore e la pulitezza, doveano soggiacere altresì a pesanti imposizioni, le quali ingiunte sarebbono nel modo stesso, passandosi ognuno da se medesimo. Ma da un altro canto, l’onore, la Giustizia, la Prudenza, ed il Sapere non doveano costar un soldo a colui che possedeva cotali qualità, poichè sono d’un genere sì singolare, che niuno le riconosce nel suo Vicino, e in se medesimo non le pregia.

Dovean le Donne esser tassate a misura della loro bellezza, e della loro abilità nel ben comparire, e dovean godere dello stesso privilegio degli Uomini; voglio dire, determinar la somma ch’esse obbligate si credono di pagare. Ma il Senno, la Fedeltà, la Castità, e la Bontà del Cuore, esser doveano cose onninamente esenti da gabelle; essendo che il poco che avrebbesi potuto ritrarne, non varrebbe il fastidio che si sarebbe preso per iscoprire quelle che risguardate sono da questa Tassa.

Per rendere ben affetti i Senatori agli interessi della Corona, il Professor medesimo volea che si tirasse a sorte per gl’Impieghi, impegnandosi a prima giunta ognuno d’essi, con giuramento, d’essere parziale della Corte, fosse che la Carica profittasse, o no; dopo di che, que’che avessero messo del proprio, potessero di bel nuovo tentar fortuna a prima opportunità. In questo modo la speranza, e l’espettazione gli renderebbono fedeli ne’loro impiegi; nè veruno d’essi lagnar si potrebbe di quale siasi inganno, bensì imputerebbe la sua disgrazia alla Fortuna, le cui spalle son più robuste, e più larghe di quelle d’un Ministero.

Un gran foglio, tutto riempiuto d’instruzioni per lo scuoprimento delle congiure che si tramano contra il Governo, fummi mostrato da un altro Professore. In tutte le annotazioni di lui appariva una somma profondità di genio, e un estremo discernimento di politica; tutto che, a mio credere, vi si potesse aggiugnere qualche altra cosa. Quest’è ciò che mi feci lecito di dire all’Autore; esibendomi nel tempo stesso di fargli parte di quanto aver potessi di lumi su quest’argomento. Con più di civiltà ricevè egli la mia offerta, di quel che non son soliti di praticare gli Autori, particolarmente que’che lavorano in progetti; assicurandomi che molto gradita gli avrebbe la comunicazione delle mie osservazioni.

Gli dissi; che se mai accadesse di soggiornare in un Regno ove le cospirazioni fossero in voga pel genio inquieto della Plebaglia, o servir potessero allo stabilimento del credito, o all’avanzamento della fortuna di alcuni Grandi, mi applicherei immediate a incoraggiar la rozza degli Accusatori, de’Dinunzianti, e de Testimoni: Che allor quando ne avessi raccolto un sufficiente numero di tutte le condizioni, e di differente capacità, gli porrei sotto la direzione di alcuni abili Personaggi, bastevolmente possenti per proteggergli, e per ricompensarli. Personaggj di questa fatta, dotati di talenti e del potere testè mentovati, potrebbono far servir le congiure ad usi più eccellenti; sarebber atti a farsi valere e a spacciarsi in profondi Politici; a rassodare un vaccillante Ministro; a soffogare, o a scemare una generale scontentezza; ed arricchirsi di confiscazioni, e ad aumentare o a diminuire il credito pubblico, a misura che il privato lor avvantaggio il richiedesse. Quest’è ciò che può farsi, col convenir primieramente di coloro, su cui cader dee l’accusa d’aver parte in una cospirazione. Dopo ciò; convien assicurarsi di tutti gli scritti loro, del pari che delle loro persone: Deggiono questi Scritti passar nelle mani d’una Ragunanza d’uomini di grande abilità, perchè possan essi interpretare i sensi misteriosi de’vocaboli, delle sillabe e delle lettere; ma Affinchè sia fruttuosa cotale loro industria; si dee lor permettere d’addattare alle lettere, alle sillabe ed ai vocaboli, il significato che più lor piace, tutto che sovente questo significato non v’abbia alcun rapporto, oppure sembri direttamente opposto al fine, che quegli, di cui si disamina lo scritto, si propone. Così, per esempio, se il credono a proposito, possono intendere per un Vaglio una Dama di Corte; per un Cane stropio un Usurpatore; per una Frusta un Esercizio in piedi in tempo di pace; per un Nibbo un Gran Politico; per la Gotta un Sommo Pontefice; per un Orinale una Ragunanza di Signori per una Scopa una Rivoluzione; per una Trappola una Carica; per un Abisso senza fondo il Tesoro&nnbsp;Pubblico; per una Grondaja la Corte, per una Barretta con sonagli un Favorito; per una Canna spezzata una Corte di Giustizia; e per un Barile voto un Generale.

Che se questo metodo non conseguisse il suo riuscimento, se ne potrebbero metter in pratica di più efficaci, e gli Acrostici e gli Anagrammi sarebbero d’un grande ajuto. Spiegaigli allora ciò che io intendessi per Acrostici, e gli mostrai evidentemente l’utilità di questa spezie di scienza per iscoprire il senso politico, nelle iniziali lettere contenuto. Essendo che; senza questo, io gli dicea, avrebbesi mai potuto sapere che N, per esempio, significa una Macchinazione; B un Regimento di Cavalleria, ed L un’Armata; Ma se a caso, (il che quasi non è possibile) questo metodo non basta per venir in cognizione de’disegni del malcontento Partito, si potrebbe riuscire nella loro scoperta, trasponendone le lettere dell’Alfabeto che si trovano in qualche Scritto sospetto; trasponendole, dissi in tante differenti maniere, che finalmente se ne rinvenga il senso che vuolsi in esse imprimere. E quest’è ciò che si dinomina Anagrammatico metodo.

Con eccessivi complimenti mi ringraziò il Professore per le mie curiose comunicategli osservazioni; e mi promise che nel suo Trattato farebbe di me una menzione onorevole.

Null’altro vidi in quel Paese che allettarmi dovesse a un più lungo soggiorno; e cominciai a pensare di ritornarmene in Inghilterra.

CAPITOLO VII.

L’Autore lascia Lagado, e arriva a Maldonada. Non essendovi pronto alla vela verno Vascello, fa un giro a Glubbdubdrib. Accoglimento che gli fa il Governatore.

IL Continente, di cui n’è una parte quel Regno, stendesi, per quanto mi pare, al Levante verso le Regioni incognite dell’America, al Ponente verso la California, e a Tramontana verso il Mar Pacifico, il qual non è che a cencinquanta miglia da Lagado, dove vi ha un buon Porto; praticandovi gli Abitanti un gran commerzio con gli Isolani di Luggnagg, situati al Ponente Maestro, a un di presso a’venti e nove gradi di Latitudine Settentrionale, e a’cenquaranta di Longitudine. Quest’Isola di Luggnagg si trova allo Scilocco del Giapone, in distanza d’un centinajo di leghe. Evvi una stretta Confederazione fra l’Imperador del Giapone, e il Re di Luggnagg; dal che ne viene che vi sono frequenti occasioni di passaggj da una di quest’Isole all’altra. Un tal motivo mi determinò ad imprendere il cammino per quella parte, per quindi rivenirmene nell’Europa. Noleggiate per tanto due Mule pel trasporto del picciolo mio bagaglio, e una Guida per additarmi la strada, presi cogendo dal generoso mio Protettore, il qual dati aveami tanti contrassegni di sua compitezza; e sul punto del mio partire, un nuovo ragguardevole regalo ne ricevei.

Per tutto il mio Viaggio non mi accadde cosa che meriti d’essere riferita. Arrivato che fui al porto di Maldonada, non aveavi Vascello lesto alla vela per Luggnagg; e con certezza mi venne detto che conveniva attendere alcune settimane innanzi che ve ne fossero. Può essere questa Città della grandezza, o circa, di Portsmouth. Poco tardai ad acquistarmi molte amicizie, e non poche furono le civiltà che usate mi vennero. Un Gentiluomo di gran distinzione mi dice; che poichè mancherebbono per un mese, almeno, le aperture d’imbarco per Luggnagg, dovrei risolvermi ad andar a vedere la piciola Isola di Glubbdubdribb, ch’era al Libeccio di Maldonada, non più lontana che cinque leghe. Mi esibì la sua compagnia e quella d’un suo Amico; e d’aver cura promisemi di tutto il bisognevole per tal intento.

Glubbdubdribb, per quanto puossi rendere in nostra favella un somigliante termine, significa l’Isola degli Stregoni. Non ha quest’Isola che il terzo della larghezza di quella di Vvight, ed è straordinariamente fertile. E’governata da un Capo d’una certa Tribù, di soli Maliardi composta.

Costoro, non contraggono mai maritaggi che con persone di loro Tribù, e il più Anziano di loro razza, è il loro Principe, o il loro Governatore. Allogia questo Principe in un Palagio magnifico, dietro di cui vi è un Parco tre mila Campi d’estensione, e cinto d’un muro di pietre dure, di venti piedi di altezza. Molti Chiusi differenti per biade, per erbaggj, o per mandre, contiene questo Parco.

Da Domestici molto straordinarj e servito il Governatore con la sua Famiglia. Per la sua esperienza nella Magia, egli ha il potere di richiamare alla vita tutti que’che vuole, e il diritto altresì di Dominio sovra d’essi per lo spazio d’ore venti e quattro, ma non già per più lungo tempo: e di più, non gli è permesso di scongiurar due volte di seguito una persona medesima, se non si frapponga un interstizio di tre mesi, o pure ch’ei vi sia costretto da qualche importantissima ragione.

Messo piede a terra, il che seguì verso le undeci della mattina, uno degli amici che mi accompagnavano, avviossi alla visita del Governatore, e gli dimandò se uno straniere potea aver l’onore d’inchinare l’Altezza Sua? Accordogli immediate il Principe la richiesta: e noi, tutti, e tre, entrammo nel Palagio fra due file di Guardie armate all’antica, e che nella loro fisonomia spiravano un non so che, che tremar mi faceva. Passammo poscia a molti Appartamenti pel mezzo di Domestici tali, che alle Guardie non male rassomigliavano, e che, com’esse, erano disposti in ala d’ambe le parti, finchè pervenuti fossimo alla Sala di fronte; ove, dopo tre profonde riverenze, ed alcune generali quistioni, ci fu permesso l’adagiarci su tre sedili, accosto del più basso gradino del Trono di sua Altezza. Possedeva quel Principe la favella di Balnibarbi, non ostante che diversa fosse da quelle che si parlano nell’Isola di lui. Mi pregò raccontargli una parte de’miei Viaggi, e per farmi comprendere che trattarmi voleva senza complimenti, licenziò il suo corteggio con un solo muovimento di testa; che appenna fatto, con orrido mio stordimento svanirono tutti i Cortigiani in aria, nella guisa che dispajono gli oggetti da noi veduti in sogno, quando all’improviso ci risvegliamo. Me ne ristetti qualche tempo innanzi di rimettermi dal terrore: me come il Governatore mi assicurò che non aveavi nulla a temere; e che d’altra parte io osservava che i miei due compagni manifestavano intrepidezza, (il che succedeva perchè non riusciva lor nuovo un somigliante spettacolo,) cominciai a incoraggirmi, e feci a Sua Altezza una compendiata Storia delle diverse mie Avventure, non senza tuttavia incantarmi qualche volta; e non senza, di tempo in tempo, gettar gli sguardi sopra i luoghi testè lasciati voti da que’domestici Fantasmi.

Ebbi l’onore di pranzar col Principe, e summo serviti in tavola da certe larve differenti da quelle che io già vedute avea. Riflettei che la mia paura d’allora era assai inferiore a quella della mattina.

Quivi consumammo tutta la giornata, ma dovetti supplicar il Governatore di compiacersi scusarmi, se io non accettava l’offerta sua perchè allogiassi nel suo Palaggio. I miei due Amici ed io fummo a dormire in Città, e di poi ritornammo presso il Principe, per ubbidire a’suoi obbligantissimi cenni.

In questo modo ce la passammo in quell’Isola per dieci dì, conversando in Corte la maggior parte del giorno, e standocene la notte nella nostra abitazione. Mi rendei ben presto talmente familiare cogli Spiriti, che io più non gli temeva; o se restavami qualche impressione di terrore, la curiosità me ne toglieva in un tratto il sentimento. Un giorno mi ordinò Sua Altezza di scongiurare tal morto che più volessi di tutti quegli, che secondo la Legge erano passati all’altra vita dal principio del Mondo perfino al momento ch’ella mi parlava; e di comandar loro di rispondere alle mie quistioni; a condizione però che le quistioni stesse non verserebbero che sopra cose accadute al loro tempo: Che per altro, io certo esser poteva, ch’essi non mi direbbono nulla che non fosse vero, non essendo l’Arte del mentire di verun uso nell’altro Mondo.

Umilissimamente ringraziai Sua Altezza per una grazia sì segnalata. Ci trovavamo in una Camera risguardante il Parco; e e come primo mio desiderio fu di veder qualche cosa di pomposo e di magnifico, mi prese la voglia d’ammirare Alessandro il Grande alla testa del suo Esercito, immediate dopo la battaglia d’Arbela. Pronunziate, ebbe appena il Governatore alcune parole, che ravvisammo quel Conquistatore sotto la finestra ove noi eravamo, alquanto più discoste le sue Falangi. Fu ingiunto ad Alessandro di rendersi nel nostro Appartamento: per vero dire, il suo Greco io non capì bene. Ei mi giurò sul suo onore che non era stato avvelenato; bensì ch’era morto di febbre ardente, che gli eccessivi disordini del vino cagionata gli aveano.

Dopo lui comparve Annibale passando l’Alpi, il qual mi protestò che nel suo campo non si trovava neppure una goccia sola d’aceto.

Vidi Cesare e Pompeo alla fronte delle loro Legioni, tutti lesti per venir alle mani. Bramai che il Senato di Roma mi si affacciasse in una gran Sala, e un’Assemblea un poco più moderna in opposto in un’altra. Parvemi la prima di queste Adunanze, composta di soli Eroi o Semidei; laddove l’altra non assomigliava che a una Truppa di Miserabili, di Banditi e di Sgherri. A mia instanza fece cenno il Principe a Cesare ed a Bruto d’accostarsi a me. Inspirommi la vista di Bruto una profonda venerazione; e veramente non vi volle un grande stento per riconoscere in lui la più consumata virtù, una fermezza di spirito, un cuore intrepido eccedente qualunque esegerazione, e un Amore il più efficace per la sua Patria. Con sensibile mio piacere osservai che que’due grand’uomini davan segni di scambievole buon’amicizia; e Cesare, nobilmente ingenuo, confessò che la gloria di Bruto per averlo ucciso, superava quella ch’egli Cesare si aveva acquistata per tutto il corso della sua vita. Godei dell’onore d’una lunga conversazione con Bruto medesimo; e mi fu detto che Giunio, Socrate, Epaminonda, Catone il Giovane, Tommaso Moro e lui erano sempre insieme: Sextumvirato, a cui tutte l’Età del Mondo aggiugnere un settimo non saprebbono.

Non vi ha dubbio che si annojerebbe il mio Leggitore se gli rapportassi i nomi di tutti coloro, che la brama, per dir così, di veder il mondo in tutti i punti di sua durazione, fece che io scongiurassi. Soprattutto mi appigliai a considerare i Distruggitori de’Tiranni e degli Usurpatori, e quegli altresì che rimesse aveano delle Nazioni nella lor libertà. Spettacoli di questa fatta una gioja sì sensibile in me producevano, che il volerla esprimere sarebbe lo stesso che tentar l’Impossibile.

CAPITOLO VIII.

Curioso specificato racconto sopra la Città di Glubbdubdribb. Alcune correzioni dell’Antica e della Moderna Storia. 

VOglioso di veder gli Antichi che si erano renduti famosi pel loro spirito o pel loro sapere, destinai loro una intera giornata. Dimandai che Omero ed Aristotile comparissero alla testa di tutti i loro Comentatori; ma eran questi in un numero così grande, che molte centinaja nella Corte, e negli esteriori Appartamenti del Palagio se ne ristettero. Alla prima occhiata conobbi e distinsi questi due Eroi non solo dalla moltitudine, ma eziandio l’un dall’altro. De’due, era Omero il più grande e il più ben fatto, si teneva ben ritto per un uomo di sua età, ed aveva un pajo d’occhj così vivaci, che di somiglianti non ne vidi mai. Aristotille estremamente incurvavasi, e si appoggiava insù d’un bastone. Avea la faccia smunta, i capelli lunghi, infiacchita la voce. Mi avvidi a prima giunta che veruno di loro non aveva mai più veduto il resto della Compagnia, e neppure inteso mai a parlarne: E uno Spirito, il qual io non voglio nominare, dissemi all’orecchio, che nell’altro mondo questi Comentatori tenevansi il più che potevano, lontani da que’due grand’Uomini, di cui vanamente intentato aveano di dilucidarne gli Scritti; e ciò per la vergogna e pel rimorso che rodevagli, di aver fatto lor dire mille contraddizioni e mille assurdi, che per sogno non avevan eglino mai pensato. Io presentai Didimo ed Eustazio ad Omero, il quale, in grazia mia, fece loro miglior accoglimento ch’essi non meritavano; essendo che subito conobbe che niun di loro aveva il genio ch’è necessario per rendersi parziale di quello d’un Poeta. Ma Aristotile perdè affatto tutta la sua pazienza, allorchè dopo d’averlo instruito degli obblighi ch’egli aveva a Scot ed a Ramo, io messi alla sua presenza questi Saggj, ed ei mi dimandò se così stolti come questi, fossero gli altri suoi Comentatori?

Pregai allora il Governatore di scongiurare Descartes e Gassendi; i quali sulla mia faccia spiegarono ad Aristotile i loro Sistemi. Ingenuamente confessò questo Filosofo che si era ingannato spessissime volte, per non essersi fondato, a riguardo di molte cose, che su semplici conghietture; e dichiarò, che il Vacuo d’Epicuro, onde Gassendi n’era il Restauratore, e i Vortici di Descartes, erano egualmente appoggiati. Predisse che l’Attrazione, la qual in oggi a tanti Difenditori, ricaderebbe un giorno nello spregio stesso, donde testè ne fu tratta. I nuovi Sistemi sopra la Natura, non sono, soggiunse egli, che nuove mode, che cangeranno di tempo in tempo; e que’medesimi che si presume di dimostrare Matematicamente, non goderanno d’un Regnò sì lungo, come pare che i lor Partigani si vantino di lor promettere.

Cinque giorni furono da me impiegati in trattenermi con molti altri Saggj dell’Antichità. Vidi la maggior parte degl’Imperadori Romani. Scongiurò il Principe, a mia sollecitazione, i Cucinieri d’Eliogabalo, perchè essi imbandissero il desinare: ma per mancanza di materiali, non fummo troppo paghi delle pruove di loro abilità. Un Cuoco d’Agesilao ci compose una minestra alla Lacedemonica; ma di mandarne abbasso una seconda cucchiajata non bastommi l’animo.

Alcuni affari ch’esigevano la presenza de’due miei compagni di Viaggio, gli obbligarono di ritornarsene al lor Paese fra tre giorni, che io consumai in vedere diversi Morti moderni, i quali da due o tre secoli addietro, o nella mia Patria, o in altre Regioni dell’Europa, una brillante scena aveano rappresentata. Come sempre io era stato grand’Ammiratore di tutto ciò che Antiche ed Illustri Schiatte dinominasi, supplicai il Governatore di scongiurare una o due dozzine di Re cogli Antenati loro disposti in ordine dalle otto o nove Generazioni. Orribilmente restai deluso dalla mia espettazione; mercè che in luogo d’una lunga serie di Diademi, ravvisai in una Famiglia due Suonatori, tre Cortigiani in buona positura, e un Ecclesiastico. In un’altra, un Barbiere, un Abate, e due Ecclesiastici di prima sfera. Ed è troppo grande la mia venerazione per le Teste Coronate, perchè io insista sopra un argomento così spiacevole. Ma per quanto spetta a’Marchesi, a’Conti, e a’Duchi, io non sono sì scrupoloso; anzi confessar degigo, che gradj non poco di vedermi nel caso di poter distinguere il sentiere che calcato aveano certi Caratteri di Corpo e d’Anima, per intrudersi in una tale, o tale Famiglia. Con chiarezza potei discernere donde un tal Casatto ritraesse un mento aguzzo; e per qual ragione un tal altro, da due Generazioni in qua, non producesse che Furfanti, e che Pazzi da quattro: Quali fossero le cagioni giustificanti il Motto espresso da Polidoro, Virgilio in proposito d’una certa Razza: Nec Vir fortis, nec Fœmina casta. In qual modo la Crudeltà, la Furberia, e la Codardia, divenissero marchj caratteristici, co’quali certe Famiglie sì bene si distinguessero, come per l’Arme loro.

Tutto ciò che io scorgeva, rendevami disgustato della Moderna Storia; poichè avendo io disaminati, e consultati seriamente tutti coloro che da un secolo addietro occupati aveano i più eminenti posti nelle Corti de’Principi, trovai: Che miserabili Scrittori, con isfacciatezza, aveano ingannato il Mondo, attribuendo, più d’una volta, le più cospicue guerriere spedizioni a Pusillanimi; i più saggj Consiglj a Sciocchi; la più nobile sincerità ad Adulatori; una Virtù Romana a Traditori della loro Patria; della Pietà ad Ateisti, e della veracità a Querelanti: Che molti Uomini d’un merito il più depurato e il più distinto, erano stati messi a morte, o cacciati in esilio, per sentenza d’alcuni Giudici, o corrotti, o atterriti da un Primo Ministro: Che intriganti, o prostituite Femmine; che Ruffiani, che Parassiti, e che Buffoni, decidevano bene spesso gli affari delle Corti, de’Consiglj, e de’Senati più Augusti. Avea io già una pessima idea della prudenza, e dell’integrità degli Uomini; ma fu ben altra cosa quando restai informato de’motivi, l’quali i più strepitosi, imprendimenti, e le più stupende Rivoluzioni son debitrici della loro origine; e altresì degli accidenti spregevoli onde elleno sono tenute del loro successo.

Ebbi nel tempo stesso l’opportunità di convincermi della presunzione e dell’ignoranza di quegli Scrittori d’Anecdoti, i quali nelle loro Storie segrete attossicano quasi tutti i Re; ripetono parola per parola un discorso che un Principe tenne a quattr’occhj col suo Primo Ministro; an copie autentiche delle instruzioni più recondite degli Ambasciadori; e pure sono così sgraziati che sempre s’ingannano. Confessò un Generale, me presente, che un giorno avea egli guadagnata una vitoria a forza di spropositi e di poltronerie: e un Ammiraglio, che per non aver avute bastevoli strette intelligenze cogl’inimici, avea battuta la loro Armata, in tempo ch’egli stava meditando di dar loro nelle mani la sua. Mi protestarono tre Re, di non aver mai, per tutto il corso de’loro Regni, cooperato al vantaggio neppur di un sol uomo di merito, se pure non l’abbiamo fatto senza avvedersene, essendo abusati da qualche Ministro, in cui confidavano.

Mi prese la curiosità di sapere specificatamente, con quali mezzi si fossero elevati certi uomini a gran Titoli d’onore, ed acquistate avessero ricchezze immense, e questa mia curiosità non ebbe già per oggetti secoli troppo rimoti; comechè, da un altro canto, non risguardasse nè il mio Paese, nè i miei Compatriotti: verità, ond’io prego i miei Leggitori d’essere ben persuasi. Essendo dunque state scongiurate molte persone, che si trovavano nel caso di cui si tratta, non bisognovvi un grand’esame per iscoprire infamie d’una tal lega, che il ricordarmele tuttavia m’inorridisce. Lo spergiuro, l’oppressione, la frode, la suggestione, e il ruffianesimo, erano i mezzi più onesti, posti da loro in uso, e come eziandio ciò era una cosa assai vera, rinvenni che queste picciole indisposizioni erano assai scusabili. Ma quando alcuni confessarono di non dovere la propia grandezza, e la propia opulenza che a’più spaventevoli misfatti; gli uni alla prostituzione delle loro mogli, e delle loro figliuole; altri a’tradimenti praticati al loro Principe, o alla loro Patria; altri finalmente alla propia perizia nell’avvelenare li loro nemici, o in ruinar gl’innocenti; mi lufingo che non siasi per pigliar in mala parte, se scoperte di questa natura abbian fatta smarrire in me una gran porzione di quel rispetto profondo che naturalmente nodrisco per Personaggj d’un eminente carattere, e ch’è un tributo dovuto loro da gente della mia pasta. Sovente io aveva letto che non so quali importanti servigi erano stati renduti a de’Principi o a degli Stati, e quindi mi venne il capriccio di conoscer coloro, a’quali questi Stati e questi Principi avevano l’obbligazione. Dopo una diligente ricerca, mi fu detto che non erano delineati in verun Registro i loro nomi; se tuttavia si eccettui un picciol numero d’essi, che la Storia come infami, e come traditori ha rappresentati. Quanto agli altri; io non aveva inteso mai a parlarne. Comparver eglino cogli occhj bassi, e meschinissimamente vestiti; essendo, per la maggior parte, a quel che me ne dissero, morti in miseria, o lasciata avendo insù d’un palco la loro testa.

Vidi fra’primi un vecchio, la cui storia ha qualche cosa di singolare. Stava a’fianchi di lui un giovanotto a un di presso di diciott’anni d’età. Ei mi notificò, d’essere stato per anni molti, Comandante d’un Vascello, e che nella battaglia navale d’Aziò, avea avuta la buona sorte di gettar a frondo tre de’principali Vascelli nemici, e di prenderne un quarto; il che era stato la sola cagione della fuga d’Antonio, e della vittoria che funne una conseguenza: Che il giovane che io vedeva a lato di lui, e ch’era suo Figliuolo unico, era stato ucciso in tempo dell’Azione. Aggiunse, che terminata la guerra, se ne andò a Roma per sollecitare un Vascello più grande, il cui Capitano era restato morto; ma senza che si badasse alle sue pretensioni, il Vascello richiesto, stato era conceduto ad un Uuomo che non aveva veduto mai il mare; e il cui merito tutto, in essere Figliuolo di Libertina, Damigella d’una delle Innamorate d’Augusto, consisteva: Che in tempo ch’egli al suo bordo se ne ritornava, fu accusato di mancanza nel suo dovere; e il suo Vascello stesso fu dato ad un Paggio favorito di Poplicola il Viceammiraglio: che sopra ciò ei ritirossi a un picciolo podere assai lontano da Roma, ove finì i suoi giorni. Io avea tanta voglia di saper precisamente la verità di questa Storia, che dimandai che Agrippa, il qual era stato Ammiraglio in quel combattimento, fosse scongiurato. Ei venne, e mi certificò tutto il racconto; con questa differenza però, che fece un assai maggior elogio del Capitano; il qual, per la sua modestia, non avea renduta la necessaria giustizia al propio suo merito.

Stranamente restai sorpreso che la corruttela fatti avesse progressi sì rapidi in quell’Imperio, e ciò a cagion del lusso, che non vi si era intruso che molto tardi: il che produsse che non mi feci le gran maraviglie nel veder accadere somiglianti avventure in altri Paesi, ove i vizzi, di qualunque genere, an regnato d’assai più lungo tempo in qua.

Come ognun di coloro ch’erano stati scongiurati, ritenuta avea perfettamente la figura medesima sotto cui era apparuto nel mondo, con sensibilissimo crepacuore osservar dovetti, fin a qual segno la Razza Inglese da un secolo addietro avesse degenerato, e quali cangiamenti fra noi, la più infame di tutte le infermità prodotti avesse.

Affin di divertirmi da un spettacolo di tanta mortificazione, palesai il mio desiderio d’aver sotto gli occhi alcuni di quegl’Inglesi di Roca vecchia, sì famosi un tempo per la simplicità de’loro costumi, per l’esatta loro osservanza delle Leggi della Giustizia, pel saggio lor amore verso la Libertà, pel loro valore, e per l’inviolabile affezionata loro parzialità per la Patria. Non fu che con estremo commovimento che io paragonai gli vivi co’morti, e che vidi virtuosissimi Avoli disonorati da’Pronipoti, i quali, in vendendo i propj suffragj al Favore, o alla Speranza, si sono impeciati di tutti que’vizzi che contrar si possono in una Corte.

CAPITOLO IX.

Ritorna l’Autore a Maldonada, e fa vela pel Regno di Luggnagg. Vi è posto prigione, ed è poscia spedito alla Corte. Maniera con cui egli vi è ricevuto. Clemenza estrema del Re verso i suoi Sudditi.

SOpraggiunto il giorno di nostra partenza, presi congedo da Sua Altezza il Governatore di Glubbdubdribb, e rivenni co’miei due Compagni a Maldonada; ove, dopo una dimora di due settimane, trovammo un Vascello pronto a mettersi alla vela per Luggnagg. I miei due Amici ed altri diversi Signori, ebbero la generosità di tenermi provveduto del bisognevole, e d’accompagnarmi a bordo. Fu d’un mese il mio viaggio; e in cammin facendo; colseci una furiosa burrasca che ci costrinse a scorrere verso il Ponente, per profittare d’un vento stabile che soffia in que’Mari. Nel ventuno d’Aprile 1709. imboccammo la Riviera di Glumegnig, sulle cui sponde giace una Città del nome medesimo. A una lega da questa Città calammo l’ancora, e perchè ci fosse spedito un Piloto, segnali facemmo. In men di mezz’ora ne vennero due, i quali fra molti scoglj, che rendono assai pericoloso il passaggio, ci guidarono in un largo Bacino, ove un’Armata intera può starsene al coperto dalle più violente tempeste.

Alcuni de’nostri Marinaj, o per malizia, o per inavvertenza, informarono i Piloti che io era un Forastiere, e di più, un insigne Viaggiatore; il che questi riferirono ad un Uffiziale della Dogana; il qual, posto ch’ebbi piede a terra, a tutto rigore mi esaminò. Parlommi colui la favella di Balnibarbi, ch’è intesa poco men che da tutti gli Abitanti di quella Città, a cagione del gran commerzio ch’ella pratica cogli Abitanti di questo Regno. Gli feci una narrazione succinta, che al possibile procurai altresì di rendere verisimile; ma a proposito non giudicai di palesar la mia Patria, bensì Ollandese volli spacciarmi; perchè mia intenzione si era d’andar al Giapone, e perchè io sapeva che gli Ollandesi sono il solo Popolo dell’Europa, che vi sia ammesso. Con tal oggetto dissi all’Uffiziale, che io avendo fatto naufragio sulle spiagge di Balnibarbi, era stato ricevuto dentro Laputa, o Isola Volante, (di cui l’Uffiziale stesso più d’una volta inteso avea a parlarne,) e che allora io pensava di rendermi al Giapone; ove, di rinvenire qualche Vascello sù cui tornarmene potessi al mio Paese, io mi lusingava. Mi rispose l’Uffiziale, ch’era d’uopo che io me ne restassi prigioniero, finchè sul mio proposito avesse egli ricevuti ordini dalla Corte; che sul punto stesso egli andava a scrivervi, e che sperava d’averne in quindici giorni le risposte. Assegnommisi in carcere un Appartamento assai propio, con una sentinella alla mia porta; e non ostante aveva io la libertà di spasseggiare in un giardino assai vasto, essendo trattato con molta umanità, e spesato in tutto il frattempo dal Re. Un motivo di curiosità indusse molte persone ad invitarmi in loro Casa; essendo loro stato riferito che io veniva da molti lontanissimi Paesi; alcuni de’quali altresì, riuscivano loro onninamente incogniti.

Presi al mio servigio un giovane, il qual s’imbarcò con esso meco per valermi d’Interprete. Era lui nativo di Luggnagg; ma avea passati alcuni anni a Maldonada, e perfettamente bene gli eran congnite amendue le Lingue. Pel mezzo suo mi trovai in istato d’attaccare conversazioni con tutti coloro che venivano a visitarmi; ma questa conversazione non consisteva che in dimande dalla loro parte, e che in risposte dalla parte mia.

Verso il tempo appunto che speravamo, il desiderato Dispaccio arrivò dalla Corte. Ei conteneva un Ordine di condur me, e il mio seguito a Traldragdubb o Trildraogdrib, (poichè in due modi intesi a pronunziar questo termine,) con una scorta di dieci Cavalli. Altro non era il mio seguito che il Giovane, il qual facevami la funzione d’Interprete, e che io persuasi di mettersi al mio servigio, e non seguì che a forza di suppliche, che si accordò a cadaun di noi una Mula, per imprendere più comodamente il viaggio. Fu ingiunto ad un messaggiere di precederci d’alcuni giorni, per annunziare il nostro avvicinamento al Re, e per pregar Sua Maestà d’assegnare il giorno è l’ora onde potessimo aver l’onore di leccare la polvere ch’è innanzi alla predella de’piedi di lei. Si è questi lo stile della Corte; ed in fatti io provai che era molto figurata una cotal frase; mercè che due giorni dopo il mio arrivo accordatamisi l’udienza, fui comandato di strascicarmi carpone, e di leccar il solajo a misura del mio avanzarmi; ma per essere forestiere, si ebbe la cura di spazzarlo sì bene, che non ne ricevetti incomodo dalla polvere. E pure, era questa una grazia particolare, la qual si accordava a persone del primo carattere, quando il Re volea impartir loro l’onore della sua presenza. V’ha di più. Spargesi talvolta a bella posta della polvere sul pavimento; il che avviene allorchè colui che ammesso esser dee, ha in Corte nemici possenti. Vidi io stesso un gran Personaggio, la cui bocca n’era. sì piena, che quando strisciato ei si fu perfino al luogo che conveniva, fugli impossibile di profferire una sola parola. Il peggio si è, che non vi ha rimedio per una tale inconvenienza; imperocchè egli è un capitale delitto degli introdotti all’Udienza del Re lo sputare o il forbire la bocca in presenza di Sua Maestà. Evvi eziandio a quella Corte un’altra costumanza, che io approvar non saprei. Quando il Principe ha il disegno di far morire qualche gran Signore d’una morte dolce, e che abbia un so che d’obbligante, ordina di spargersi sopra il solajo una certa venenata polvere; che essendo leccata infallibilmente in venti e quattr’ore uccide: Ma per rendere giustizia all’estrema clemenza di Sua Maestà, e alle sollecitudini di tenerezza ch’ella ha per la vita de’suoi Suggetti, nel che sarebbe a desiderare che i Monarchi dell’Europa si compiacessero d’imitarla, è forza che io dica, che quando qualche Personaggio ha goduto del mortal onore di leccare un poco di questa polvere, ingiugne il Re gli ordini più precisi perchè il pavimento sia ben lavato: Che se i suoi Domestici non eseguiscono con esattezza i suoi ordini, sì espongono alla collera, e all’indignazione di lui. Io lo intesi, lui medesimo, a comandare che si scopasse un Paggio, a cui toccava d’avvertir coloro che dopo un’esecuzione il Solajo spazzar doveano, ma che per malizia l’avea trascurato: trascuranza che cagionò, che un giovane Signore di grand’espettazione, ammesso che fu all’Udienza restasse sgraziatamente attossicato; tutto che in quel tempo non avesse Sua Maestà il divisamento di farlo morire. Ma sì buono fu quel Monarca, che rimise al Paggio la pronunziata leggiera punizione, con la promessa che questi fece di guardarsi per altre volte da somiglianti sbagli, purchè non ne ricevesse un ordine preciso.

Lusingomi che un tratto sì singolare di clementissimo procedimento, obbligherà il Leggitore a menarmi buona una tal digressione.

Strisciato che mi ebbi perfino alla distanza di quattro verghe dal Trono, mi dirizzai ginocchione; e dopo d’aver battuta per sette volte colla mia fronte la terra, pronunziai le parole seguenti, tali che io aveale apprese la notte innanzi: Ickpling Glofftrobb squutserumm blhiop Mlashnalt, zvvin, tnodbalkguffh slhiophad Gurdlubb Asth. Questi si è il complimento prescritto dalle Leggi a tutti que’an l’onore di salutare il Re. Potrebbesi renderlo con questi termini Franzesi: Puisse Votre Majeste Celeste vivre plus long-temt que le Soleil, onze Lunes & demie; cioè: Possa Vostra Celeste Maestà sopravvivere al Sole per undici Lune e mezzo. Mi fece il Re una brieve risposta; alla quale, tutto che non ne comprendessi il senso, co’seguenti termini fattimisi imparar a memoria, io replicai: Flust drin Yalerick Dvvuldom prastrad mirpush; il che vuol dire: La mia lingua è nella bocca del mio Amico: e con ciò significar volli che io desiderava che il mio Interprete fosse introdotto. Se pe compiacque il Re; e pel mezzo di quest’Interprete, soddisfeci alle quistioni statemi proposte per lo spazio d’una buon’ora da Sua Maestà. Io parlava la favella di Balnibarbi, e il mio Interprete rendeva i miei discorsi in quella di Luggnagg. Non fu mediocre il piacere del Principe in questa spezie di conversazione; ed egli ordinò al suo Bliffmarklub, o gran Ciamberlano, d’aver cura che l’Interprete ed io fossimo alloggiati in Corte, e non mancassimo di cosa veruna.

Fu di tre mesi il mio soggiorno in quel Paese; e ciò per compiacenza pel Re, il qual mostrava di desiderare che mi fermassi per lungo tempo, e che mi fece le più onorevoli esibizioni per ritenermi. Ma io credei che fosse più conforme alle regole della prudenza e della giustizia, il passare il rimanente de’miei giorni con la mia moglie, e co’miei Figliuoli.

CAPITOLO X.

Elogio de Luggnaggiani. Particolar descrizione degli Strulbdruggs, con molte conversazioni fra l’Autore ed alcune persone del primo carattere, su questo suggetto.

NON vi ha Nazione più colta e generosa quanto quella deLuggnaggiani; e tutto che non sien eglino affatto esenti da quello spirito d’orgoglio che in quasi tutte l’Orientali Nazioni distinguesi; non ostante, generalmente parlando, non lasciano d’essere umanissimi a riguardo degli Stranieri, Buona sorte per me, che io godeva dell’intima amistà di molti Signori della Corte; cosicchè tenendo sempre al mio canto l’Interprete, non erano disaggradevoli i nostri trattenimenti.

Un giorno, in un’assai numerosa ragunanza, mi ricercò una persona di qualità se veduto avessi qualcuno de’loro Struldbruggs, o sieno Immortali. Le risposi che nò: e mostrai di desiderar di sapere in qual senso si potesse applicare a una mortal Creatura un somigliante titolo. Replicò quel Signore; che tal volta, comechè di rado, nascean fra loro de’pargoletti con un marchio rossigno, e d’una circolar figura sopra la fronte, direttamente al di sopra della sinistra palpebra, il che era un segno infallibile d’immortalità. Aggiunse; che da principio era picciolissima questa macchia, ma che a misura del crescere del bambino, ella ingrandiva, ed eziandio di color cangiava: che da’dodici perfino a’venti e cinque anni d’età, ella era verde, poscia cerulea oscura; e sugli anni quaranta e cinque, nera come carbone; dopo di che, più non pativa cangiamento di sorta. Son sì rari, ei proseguiva, cotali nascimenti, che non credo che per tutto il Regno siavi una maggior somma di mille e cento Struldbruggs dell’uno e dell’altro sesso: Che simili produzioni non erano peculiari di certe Famiglie, bensì un puro effetto dell’accidente; e che i figliuoli degli Struldbruggs erano suggetti al cessar dal vivere, del pari che gli altri Mortali. Confesso che un tal racconto cagionò in me un piacere che non può esprimersi; e come venivami fatto da persona che intendeva il linguaggio di Balnibarbi ond’io parlava assai bene, ritenermi non potei da diverse esclamazinni alquanto, forse, stravaganti. Come rapito fuor di me stesso mi messi a gridare: O beato Popolo, ove ciascun pargoletto potè, per lo meno, nascere Immortale. O Nazione beata, innanzi agli occhi di cui son posti in o ostra tanti vivi esempi dell’antica Virtù; e che strigne nel propio seno de’Maestri pronti ad instruirla nella saggezza di tutti i secoli! Ma o mille e mille volte più beati ancora questi ammirabili Struldbruggs, che nascono immuni dal più spaventevole di tutti mali; e le cui anime dall’orribile terror della morte non sono continuamente agitate! Diedi indizi di qualche mio stupore di non aver veduto veruno di quegli Illustri Personaggi alla Corte; mercè che un marchio nero sopra la fronte ha in se qualche cosa d’assai notabile, perchè immediate non me ne fossi avveduto; e immaginandomi, d’altra parte, ch’era impossibile che Sua Maestà, come giudiziosissimo Principe, non ne avesse scelto un buon numero, per servirle di Consiglieri. Ma, continuava io, può essere che questi venerabili Saggi respirar non vogliano un’aria così corrotta come quella della Corte; oppure, che troppo non si badi a’loro consigli; come fra noi veggonsi de’Giovanastri troppo vivaci e troppo poco docili, per lasciarsi reggere dalla prudenza di qualche Vecchio: Che ne fosse in tal proposito; poichè permettevami talvolta il Re d’inchinarlo, io era risoluto di dichiarargli con libertà e stesamente, a primo incontro, il mio sentimento, con l’assistenza del mio Interprete; e fosse ch’egli ne profittasse o no, stava io d’intenzione di risegnarmi alle replicate offerte di Sua Maestà, e di passar i giorni che mi restavano, nel Paese di lei, affin di divenir più saggio, e di migliorar pel commerzio de’suoi Esseri superiori, onde venivami data contezza, se pure si compiacesser eglino d’accordarmi la loro civil Società. Il Gentiluomo, al quale io avea indiritto questo discorso, (essendo che, come già l’avvertì, ei parlava la favella di Balnibarbi) mi disse con quella sorta di sorriso che cava a forza la compassione che si ha per l’ignoranza; ch’ei gioiva, perchè vi si rinvenisse qualche cosa che fosse valevole a ritenermi fra loro; e che mi pregava di permettergli ch’egli spiegasse alla Compagnia ciò che testè io gli avea detto. Ei lo fece: e que’Signori disputarono qualche tempo insieme in loro lingua, senza che io ne intendessi neppur parola, nè che accorgermi potessi qual impression sopra loro fatta avesse il mio ragionamento. Dopo un silenzio d’alcuni instanti, il Signor medesimo mi dichiarò, che i suoi Amici ed i miei (furon questi i precisi suoi termini) stavano incantati dalle giudiziose riflessioni che io avea fatte sopra gli avvantaggi d’una vita immortale; e che desideravano che io palesassi loro in un modo alquanto specifico, a qual metodo di vivere appigliato mi sarei, se avuta avessi la buona sorte di nascere Struldbrugg.

Io risposi, che non era cosa molto difficile d’essere eloquente sopra un sì bello, e sì ricco argomento; e in ispezieltà per me, che allo spesso mi era divertito in pensare cosa facessi, se fossi un Re, un generale, un gran Signore: Che quanto al caso proposto; più d’una volta io avea riflettuto sopra la maniera del passar il mio tempo se fossi assicurato di non aver a morire.

Che se avessi avuta la fortuna di nascere Struldbrugg, immediate che conosciuto avessi l’eccesso della mia felicità, mi sarei a prima giunta valuto di qualunque mezzo per acquistare ricchezze: Che a forza d’industria e d’applicazione avrei potuto in men di due secoli divenir uno de’più opulenti Particolari del Regno: In secondo luogo; che fin dalla più fresca mia giovinezza, procurato avrei di perfezionarmi in tutte le Scienze, affin di superare, un giorno, in abilità, e sapere tutti gli uomini del Mondo: Finalmente, che io registrerei in iscritto con tutta la diligenza cadaun ragguardevole avvenimento, della cui verità io instruito ne fossi: Che senz’alcuna ombra di parzialità delinearei gli Caratteri de’Principi, e de’più rinomati Ministri di Stato, di Successori in Successori: Che distinguerei esattamente i diversi cangiamenti che accadessero nelle costumanze, nel linguaggio, nelle mode, e ne’divertimenti del mio Paese, e che con questi mezzi io mi lusingherei di costituire me stesso come in tesoro vivente di conoscenze, e di saggezza; e altresì come l’Oracolo della mia Nazione.

Pervenuto che fossi a’sessant’anni d’età, diceva io in proseguendo il mio discorso, più non penserei ad ammogliarmi, ma praticherei, comechè con ritegno, le Leggi dell’Ospitalità.

Mi terrei occupato nel formare lo spirito e il cuore d’alcuni Giovani di grande speranza, convincendogli con le mie osservazioni e con numerosi esempi, dell’utilità, e dell’eccellenza della Virtù: Ma sceglierei in miei compagni perpetui, degli Immortali al pari di me, fra quali sarebbevi una dozzina de più Anziani, che vorrei Amici di tutta intrinsichezza: Se taluni di questi non si trovassero in uno stato opulento, gli alloggerei in mia casa, ed alcuni ne terrei continuamente alla mia mensa; alla quale non sarebbe ammesso che un picciol numero di voi altri Mortali, che io risguarderei con l’occhio medesimo, come un uomo nel suo giardino risguarda l’annual successione de’Tulipani e de’Garofani: i fiori ch’ei vede l’allettano, per qualche tempo, ma non fanno ch’ei si prenda fastidio di quegli dell’anno innanzi.

Gl’immortali miei Compagni ed io, cui comunicheremmo scambievolmente le nostre osservazioni, e studieremo sopra le differenti maniere con cui intrudesi nel Mondo la corruttela; affin di preservarne gli Uomini con sagge lezioni, e con l’Ascendente del nostro esempio; Rimedj, che, secondo tutte le apparenze, impedirebbono quella depravazione dell’umana Natura, di cui l’Età tutte, con tanto giusto motivo, si son querelate.

A ciò il diletto aggiugnete di ammirare le più stupende Rivoluzioni di Stato; Città antichissime discioglientisi in ruine: oscuri Vlllagj divenenti Capitali d’Imperi; famose Riviere cambiate in meschini Ruscelli; l’Oceano che lascia un Paese a secco per ricoprirne un altro con le sue onde: le Scienze fondando la loro Sede in certe Regioni, ed alcuni secoli dopo, mostrando d’averle abbandonate per sempre. Allora sì che potrei promettermi di veder il giorno, in cui si rinvenisse la Longitudine, il Moto Perpetuo, e la Medicina Universale, ed eziandio molti altri bellissimi ritrovamenti.

Quali magnifiche discoperte non sarebber le nostre in Astronomia, sopravvivendo alle più remote predizioni, ed osservando i periodici ritorni delle Comete, e tutto ciò che al movimento del Sole, della Luna, e delle Stelle, ha rapporto!

Ciò non fu che l’Esordio. Il mio amor per la vita rendè assai più lunga la continuazione del mio discorso. Finito ch’ebbi spiegati che furono miei sentimenti, come prima, al resto della Compagnia, parlò questa fra se qualche tempo, e parvemi che a mie spese ridesse alquanto. Finalmente, il Gentiluomo medesimo che mi avea servito d’interprete, disse ch’egli era incaricato dagli altri Signori di farmi ravvedere d’alcuni errori, in cui l’ordinaria debolezza della Natura umana aveami fatto incorrere: Che quella razza di Struldbruggs era particolare del lor paese, giacchè non aveavene nel Regno di Balnibarbi, nè nell’Imperio del Giapone, ov’egli goduto avea dell’onore d’essere Ambasciadore di Sua Maestà, e che avea trovati i Naturali dell’uno e dell’altro sesso di quelle Regioni così increduli sull’articolo degli Struldburggs, come io stesso l’avea paruto: Che ne’due mentovati Imperj, ove per molto tempo gli avea sogiornato, la brama di lungamente vivere, era una brama universale: Che chiunque teneva un piede nella tomba, procurava al possibile di ritirare l’altro: Che il più decrepito speravavi di vivere ancora un giorno, e risguardava la morte come la più atroce di tutte le miserie: ma che nell’Isola di Luggnagg il desiderio della vita non era sì ardente, perchè di continuo si aveva dinanzi agli occhj l’esempio degli Struldbruggs.

Che il propostomi metodo di vivere era ingiusto ed irragionevole, supponendo una eternità di giovinezza, di sanità e di vigore, che chi che sia, per quanto fosse pazzo, e stravagante in genere di voti, promettersi non saprebbe: Che per conseguenza, non si trattava di sapere se un uomo bramasse d’essere sempre giovane, e sempre felice; bensì com’egli passasse una vita senza fine, suggetta alle incomodità, che sono della vecchiaja il patrimonio ordinario. Mercè che, soggiugneva egli tutto che pochi uomini confessar volessero, che bramerebbero d’essere immortali anche a sì dure condizioni; osservai, non ostante, negl’lmperj di Balnibarbi, e del Giapone, che ognuno è sollecito di licenziare la morte per quanto tardi ella venga; e quasi mai non vidi esempj d’Uomini che morissero volontarj, se pure da eccessive afflizioni non vi sieno stati indotti. Ed io mi appello alla vostra coscienza, se ne’Paesi, ove viaggiato avete non vi sia accaduto di notare la cosa medesima.

Dopo questa prefazione, ei s’introdusse in uno specificato racconto in proposito agli Struldbruggs. Disse ch’essi operavano come gli altri Uomini perfino all’età di trent’anni; dopo di che si ravvisava in loro una spezie di tristezza che aumentava di giorno in giorno, perfino agli anni ottanta: Ch’egli ciò sapeva a confessione stessa di loro; imperciocchè, come ciascun secolo non nel produce che due o tre di questa spezie, non è sufficiente un tal numero per fare una generale osservazione: Passati che anno gli ottant’anni d’età, il che per gli altri Abitanti di quel Paese è l’ultimo termine, non solamente soggiaccino a tutte le follie, e a tutte l’infermità degli altri Vecchj, ma eziandio a certi diffetti che nascono dalla terribile certezza della loro Immortalità. Non solo sono vani, ostinati, avari, di cattivo umore, e chiacchieroni, ma altresì sono incapaci interamente d’amicizia. Invidia ed impotenti desiderj sono le loro ordinarie passioni. Ma gli oggetti, contra de’quali in ispezieltà scatenasi la lor gelosia, sono i vizj de’Giovani, e la morte de’Vecchj. Col riflettere sopra i primi, si trovano esclusi insino dalla possibilità di poter gustare in verun tempo d’alcun piacere; e quando scorgono un mortorio, si querelano che altri sieno entrati in un Porto, ove essi medesimi non potranno mai pervenire. Di niente più si rammentano che di ciò che anno osservato ed appreso in lor gioventù; e quest’anche molto imperfettamente. E per quello concerne la certezza, o le particolarità di qualche avvenimento, può farsi più fondo sulle comuni Tradizioni, che sopra le migliori loro Memorie. I men miserabili fra quegli eterni Vecchioni son que’che an la sorte d’essere vaneggianti, e assolutamente smemoriati; poichè più non essendo impeciati di quelle pessime qualità che rendono odiosi gli altri, più agevolmente inclinasi ad aver compassione di loro, e a recar loro soccorso.

Se uno Struldbrugg prende in isposa una Donna immortale come lui, non dee sussistere il maritaggio che perfino che il più giovane de’due sia pervenuto agli ottant’anni d’età, asserendo le nostre Leggi ch’è cosa giusta, che colui, il qual senza sua colpa e condannato alla pena di starsene eternamente sopra la terra, non sia costituito doppiamente sgraziato, per avere una moglie eterna.

Immediate che ottant’anni essi contano, la Legge gli reputa come morti; i loro Eredi metton le mani sopra i loro Beni, se si eccettui una leggiera porzione che riserbasi pel loro mantenimento; e i poveri fra loro restano a carico del Pubalico. Dopo questo periodo, sono incapaci d’esercitar verun Posto; e in una Causa o civile, o criminale, non si ammettono per testimonj.

Agli anni novanta, cascano loro gli capelli ed i denti; essi non saporano cosa veruna, ma mangiano e beono senz’appetito e senza gusto, e le loro ordinarie infermità camminano col solito passo senza crescere, nè sminuire. In parlando, dimenticano i nomi più comuni delle cose, del pari che quegli delle persone, quando pur queste fossero gli Amici loro più intimi, o i più prosimi loro Congiunti. Per la ragione medesima non potrebbono mai tenersi occupati nella lettura, perchè è sì poco ferma la loro memoria, che in una sola frase più non si ricordano del principio quando ne leggono il fine: Disgrazia, che dell’unico divertimento onde capaci sarebbono, gli tiene privi.

Essendo il Linguaggio molto suggetto al cangiamento, gli Struldbruggs d’un secolo non intendono que’d’un altro; e superata che anno l’età di dugent’anni, sono inabili legar conversazione co’Vicini loro, gli Mortali; il che lor inferisce il discapito d’essere come Stranieri nella propria Patria.

Fu questi per quanto posso rammentarmene, il racconto che il Gentiluomo mi fece in proposito agli Struldbruggs. Ne vidi poscia cinque o sei di differenti età, ma che il più giovane non era vecchio che di due secoli. Gustai pure di trattenermi alcune ore con due o tre di loro; ma tutto che si avesse lor detto che io era un gran Viaggiatore, e che io avea veduta la maggior parte della Terra, non ebber eglino la menoma curiosità di farmi quistione di sorta, e furon paghi di chiedermi uno Slum Kudask, o contrassegno di memoria il che è una onesta maniera di domandar la limosina, senza che la Legge, che il divieta, resti apertamente violata.

Ognuno gli odia e gli dispregia; e la nascita d’uno d’essi, spacciasi per un funesto presagio. Il miglior modo di sapere la loro età si è, d’interrogargli di qual Re, o di qual Personaggio illustre si ricordino, e dopo ciò di consultarne la Storia; imperciocchè egli è certo, che quand’essi avevano ottant’anni, l’ultimo Principe, di cui conservata aveano la rimembranza, non avea per anche cominciato a regnare.

Il loro aspetto è il più disgustoso di tutti gli spettacoli, e più che gli Uomini, recano orrore le loro Femmine. Oltra le difformità già troppo comuni a un’età decrepita, anno un non so che di particolar laidezza, che sempre aumenta cogli anni, e ch’è imposibile di descrivere. E a questo proposito vantar mi posso, che fra una mezza dozzina di Struldbruggs io distinsi a prima giunta il più vecchio, tutto che non vi fosse più che dugent’anni di differenza.

Assai facilmente crederà il Leggitore che ciò che io aveva inteso; scemasse di molto in me la brama di viver sempre. M’arrossì delle stravaganti visioni nelle quali io era incappato; e restai persuaso che il Tiranno più barbaro durerebbe fatica ad inventare un genere di morte, a cui non mi contentassi di soggiacere, per dar fine ad un somigliante vivere. Fu riferito al Re tutto ciò che si era passato fra me e gli Amici miei su quest’articolo. Compiacquesi il Principe di farmi l’onore di motteggiarmene, dimandandomi se io gradissi di trasportare nel mio Paese un pajo di Struldbruggs per armare i miei Compatriotti, contra il terror della morte; ma sembra che ciò si proibisca dalle Leggi fondamentali del Regno; che senza questo, assai volontieri fatta avrei la spesa del trasferirgli. A confessar fui costretto che le Leggi di quella Nazione, per quello spetta a gli Struldbruggs erano fondate sopra solidissime ragioni; e tali, che qual siasi altro Paese sarebbe obbligato di adottarle, se nel suo seno somiglianti Uomini nutricasse. Altrimenti, come l’Avarizia è una passione in qualche modo essenziale alla Vecchiezza, diverrebbero quegl’Immortali, col tempo, possessori di tutti i Beni della Nazione, ed usurperebbero tutta l’Autorità; donde ne avverrebbe, che mancando di talenti per far un buon uso del potere che avessero fra le mani; il Governo, ond’essi sarebbono gli sostegni, ben presto sopra le sue fondamenta crollerebbe.

CAPITOLO XI.

L’Autore lascia Luggnagg, e va al Giapone: donde sopra un Vascello Ollandese si restituisce ad Amsterdam, e d’Amsterdam in Inghilterra.

CRedei che questa narrazione degli Strulbdruggs, non fosse per riuscire spiacevole a’Leggitori, non rammentandomi di aver mai veduta qualche cosa di somigliante in alcun libro di Viaggj che siami caduto alle mani. Che se un tal tratto Storico non e sì nuovo per chi legge, come mel sono immaginato, trarrò la mia Apologia dalla necessità in cui si trovano que’Viaggiatori che descrivono un Paese medesimo, di raccontar le medesime particolarità, senza che per questo si possa accusargli d’essersi gli uni cogli altri ricopiati.

Fra gli Abitanti di questo Regno, e i Giaponesi, si pratica un perpetuo commerzio; ed è probabilissimo, che gli Autori del Gibone potuto avrebbono somministrarmi alcuni lumi concernenti gli Strulbdruggs; ma sì brieve fu il mio soggiorno in quell’Imperio, e sì poco mi era cognita quella favella, che di chiedere o di ricevere qualche rischiaramento, impossibile mi riuscì. Ma mi lusingo che la lettura del mio Libro inspirerà in qualche Ollandese la curiosità d’accrescere su quest’argomento le informazioni.

Il Re di Luggnagg, avendomi molte volte sollecitato d’accettar qualche impiego nella sua Corte, e trovandomi costantissimo nel disegno di ritornarmene alla mia Patria, mi accordò la partenza, e diedemi una Lettera di raccomandazione, scritta di suo propio pugno, per l’Imperador del Giapone. Mi regalò eziandio di quattro cento quaranta e quattro grosse monete d’oro, (amando assai quella Nazione i numeri pari,) e d’un Diamante che vendei in Inghilterra mille e Venti Ghinee.

Il sei di Maggio 1709. presi solennemente congedo da Sua Maestà, e da tutti gli Amici miei. Ebbe la bontà quel Principe di comandare che un distaccamento di sua Guardia scortassemi fin a Glanguenstald ch’è un porto di Mare situato al Libeccio dell’Isola. Sei giorni dopo il mio arrivo, fuvi un Vascello lesto a levar l’ancora pel Giapone, e in quindici giorni quel tragitto facemmo. Prendemmo terra a una picciola Città marittima nominata Xamoschi, e posta allo Scilocco. Mostrai immediate agli Uffiziali della Dogana la Lettera del Re di Luggnagg per Sua Imperial maestà.

Conoscevan eglino perfettamente bene il suggello di quel Monarca, ch’era della larghezza della palma della mia mano. Rappresentava questo suggello un Re che levava di terra un Povero storpiato. I Magistrati della Città instruiti che io avea una Lettera per l’Imperadore, mi riceverono come un Pubblico Ministro, e furon solleciti di provvedermi di Domestici per servirmi, e di Vetture pel trasporto del mio bagaglio a Yedo; ove fui introdotto all’udienza, e consegnai la mia Lettera, che con gran cerimonia si aprì, e spiegossi da un Interprete all’Imperadore, il qual Interprete mi disse per parte di Sua Maestà, che se io aveva ad umiliar qualche supplica, poteva io andar assicurato del buon accoglimento, in considerazione del Re di Luggnagg. Da molto tempo quest’Interprete era stato impiegato negli affari degli Ollandesi: facilmente ei si lasciò intendere che io era Europeo; e per tal ragione espresse in ollandese, ch’ei parlava a perfezione, ciò che l’Imperadore testè detto avea. Conformemente alla risoluzione che io ne avea presa, risposi d’essere un Mercatante d’Ollanda che avea fatto naufragio sulle spiagge d’un’assai rimota Regione; donde, in parte per Mare, e in parte per terra m’era renduto a Luggnagg, e quindi al Giapone, ove io sapeva, che i miei Nazionali spedivano sovente de’Vascelli; sopra un de’quali io avea sperato di ritornamene nell’Europa: Che per tal effetto umilissimamente io supplicava Sua Maestà di dar ordine che fossi condotto escortato fino a Nangesac: Che a questa grazia, per l’amore del Re di Luggnagg mio Signore, compiacessesi ella d’aggiugnerne un’altra; la qual era di dispensarmi dalla cerimonia imposta a’miei Compatriotti di calcare co’piedi la Croce; mercè che, non il disegno di fare qualche commerzio; bensì il mio infortunio, condotto aveami nel Paese di lei. Spiegata che fu quest’ultima richiesta all’Imperadore, ei parve alquanto sorpreso; e disse, che pensava che io fossi il primo de’miei Paesani, che in nessun tempo fatto abbia su quest’articolo qualche difficoltà; e che a dubitar cominciava che io fossi un Ollandese; ma che piuttosto io dava indizj, e sospetti d’essere un CRISTIANO. Che non ostante, per motivo delle mie allegate ragioni, e principalmente per amicizia pel Re di Luggnagg, egli si uniformerebbe alla singolarità del mio umore; ma che l’affare dovea essere maneggiato son gran destrezza, e che sarebbono comandati; suoi Uffiziali di lasciarmi passare come per inavvertenza. Colla voce del mio Interprete rendei mille grazie per un favore sì segnalato; e trovandosi allora in marcia per Nangesac alcune Truppe, l’Uffizial Comandante ebbe l’ordine di condurmivi, con alcune iastruzioni sopra l’affare della Croce.

Dopo un assai lungo, e altresì più incomodo Viaggio, pervenni li 9. Giugno 1709. a Nangesac. Guari non istetti a far conoscenza con alcuni Marinaj Olandesi d’un Vascello nominato Amboine, di quattrocento e cinquanta botti. Molto tempo io era vissuto in Olanda, proseguendo i miei studi a Leive, e parlava assai bene in Fiamingo. Furono i Marinaj ben presto instruiti donde ultimamente venissi, ed ebbero la curiosità di chiedermi la Storia della mia vita, e le circostanze de’miei Viaggi. Feci loro un compendiato, probabile e poco sincero racconto. M’eran note molte persone in Olanda; e disagevole non mi riuscì d’inventare Nomi supposti per miei parenti, che dissi esser poveruomini della Provincia di Gueldria. Di buona volontà dato avrei al Capitano (che dicevasi Teodoro Van Grult) tutto ciò ch’egli mi avesse dimandato pel mio trasporto in Ollanda; ma intesa ch’egli ebbe la mia professione di Chirurgo, si contentò della metà del consueto Nolo, con patto che gli servissi in tal qualità per tutto il corso del Viaggio. Avanti d’imbarcarci, alcuni della Ciurma mi chiesero sovente se la Cerimonia da me mentovata, adempiuta avessi? Scansaimi dalla quistione con vaghe risposte, dicendo che io avea eseguito tutto ciò che mi era stato ingiunto dall’Imperadore. Con tutto questo; un furbo briccone di Marinajo rivoltosi a un Uffiziale, e mostrandomi a dito, si lasciò intendere che io non avea per anche calcato il Crocefisso co’piedi: ma l’Uffiziale, a cui era stato ingiunto di non darmisi fastidio di sorta, regalò il furfante d’una buona dose di bastonate, e di là innanzi non restai più esposto a somiglianti quistioni.

Nulla accaddemi per tutto il Viaggio, che degno sia di veruna narrazione. Profitammo d’un buon vento in puppa perfino al Capo di Buona Speranza, dove d’acqua dolce ci provvedemmo. Ai sedici di Marzo 1710. calammo l’Ancora sani e salvi ad Amsterdam, non avendo perduti che tre Uomini di malattia, e un quarto, che vicino alle spiagge della Guinea era caduto in Mare dall’albero di Maestra. Dopo d’essermi fermato in Amsterdam alcuni giorni, m’imbarcai per Inghilterra sopra un picciolo Vascello che a questa Città apparteneva. A’dieci Aprile demmo a fondo alle Dunes. Il giorno dietro misi piede a terra, ed ebbi il piacere di riveder la mia Patria dopo un’assenza di cinqu’anni e mezzo. Fui in mia casa il giorno medesimo; e mia Moglie e i miei Figliuoli in buona consistenza ritrovai.

Fine della Terza Parte.

VIAGGIO

AL PAESE

DEGLI HOUYHNHNMS.

PARTE QUARTA.

CAPITOLO I.

In qualità di Capitano d’un Vascello imprendesi dall’Autore un Viaggio. La sua Ciurma cospira contra di lui; per qualche spazio di tempo, il tiene sequestrato nella di lui Camera, e il mette a terra in un Paese medesimo. Descrizione a’uno strano animale nominato Yahoo. Due Houyhnhnms sono riscontrati dall’Autore.

CInque mesi incirca soggiornai in mia casa con mia moglie, e co’miei figliuoli: e beato me, se saputo avessi far capitale della mia felicità: Lasciavi incinta la mia sposa, ed accettai un’offerta di mio gran vantaggio d’essere Capitano dell’Arrisicato, Vascello di Mercatanzia di trecento cinquanta botti; essendo che, io era molto perito nella navigazione: E perchè mi trovava assai infastidito dell’impiego di Chirurgo sul mare, (impiego tuttavia, onde io sì assolutamente non rinunziava che non fossi pronto a riassumerlo a tempo e luogo,) impegnai in questa figura un certo Roberto Curefoy, giovane di grande abilità nella sua Professione. Il secondo di Settembre 1710. mettemmo alla vela da Portsmouth, e il quattordici riscontrammo il Capitan Pocock indiritto al Porto di Campeche per tagliarvi legna del medesimo nome. Il sedici, una tempesta ci separò da lui, e al mio ritorno restai informato che’il suo Vascello era piombato a fondo; e che di tutta la sua Ciurma un solo mozzo dal naufragio scappò. Era un galantuomo e un bravo marinajo questo Capitano, ma un po troppo tenace nella sua opinione; ciò essendo stato l’unica cagione della perdita di lui, come il fu d’altri molti; posciacchè se egli avesse seguito il mio consiglio, a quest’ora forse il troverebbe, come me, sano, e salvo fra la sua famiglia.

Tanti uomini mi furon rapiti dalla malignità delle febbri, che fui costretto di poggiare alle Barbades, per praticarvi nuove reclute: ma ripentirmi dovei ben presto della mia scelta; giacchè quasi tutti coloro che presi sopra il mio bordo, erano perduta. In venti cinque marinaj consisteva tutta la mia Ciurma; e ingiugnevami le mie commissioni di trafficare cogl’Indiani del Mare d’Ostro, e di procurare qualche nuova scoperta. Quegli sciaurati subornarono il resto de’miei, e tutti insieme, il disegno d’impadronirsi del mio Vascello formarono: disegno, che un bei mattino mandarono ad effetto, gettandosi all’improvviso nella mia camera, e legandomi mani e piedi, con minaccia di lanciarmi in mare al menomo segno di mia resistenza. Dissi loro che mi risegnava in prigioniero, e che la più compiuta sommessione io lor prometteva. Vollero essi che col giuramento io ratificassi una tal protesta; dopo di che mi slegarono, ma non già un braccio, che con una catena appiccarono al mio letto, appostando sul mio uscio un Archibusiere, con ordine di far fuoco sopra di me se dessi indizio di volere sciormi. Mi tennero provveduto del mio alimento, e s’incaricarono del governo del Vascello. Lor intenzione si era di corseggiare contra gli Spagnoli; ma non si potea ciò eseguire se non con un rinforzo d’uomini. Prima però di nulla imprendere, disegnavan eglino di smaltire le Mercatanzie della Nave, e poscia d’indirizzar la prua a Madascar per farvi delle reclute; essendo morti alcuni di loro dopo che a starmene in camera mi costrignevano. Questa spezie di carcere durò alcune settimane; nel cui termine, fecero commerzio cogl’Indiani, senza che io sapessi quale corsa prendessero; essendo io strettamente custodito, ed aspettando ad ogni momento che mandassero ad effetto la minaccia d’uccidermi, che regolarmente mi veniva fatta otto o dieci volte al giorno.

Il 9. Maggio 1711. venne a vedermi un certo Jacopo Vvelch, e disse d’aver ordine di mettermi a terra. Tutto feci per muoverlo a compassione co’miei scongiuri; ma il tutto in vano; stendendo colui la sua barbarie persino a ricusarmi di palesar solamente il nome del nuovo lor Capitano. Eseguita ch’ebbe la sua commissione, egli e i suoi compagni mi forzarono di calarmi nel Caicco, permettendomi d’aver indosso il miglior vestito, di prender meco un picciolo fagotto di pannilini, ma non già arme di sorta, se eccettuisi la mia spada: furono eziandio così onesti che non visitarono le mie tasche, in cui tutto il mio dannajo, ed alcune altre cosuzze riposto io avea. Vogarono a un di presso per una lega, e di poi mi abbandonarono sulla spiaggia. Gli supplicai a mani giunte di dirmi in qual paese mi trovassi; ma mi protestarono tutti che sì poco il sapevano come me; ed aggiunsero, che il Capitano (com’essi il chiamavano) preso avea l’espediente, dopo d’essersi disbrigato delle merci, di mettermi a terra sul primolido che discoprissimo. Nel così dire, si staccarono da me, lasciandomi come per un addio l’avvertimento, che io non volea farmi sorprendere dalla marea, avrei fatto molto bene di non restarmene per lungo tempo in quel luogo.

In sì spaventole costituzione, l’alto della spiaggia guadagnai, ove mi assisi per riposarmi alquanto, e per riflettere sul partito che io dovea prendere. Dopo una matura deliberazione, risolvetti d’internarmi nel Paese, di risegnarmi a’primi Selvaggi, che riscontrassi, e di ricomprar la mia vita coll’esibir loro alcuni manigli, alcuni anelli di rame, ed alcuni lavori di vetro, bagattelluzze, onde sempre in Viaggi di questa sorla si sta provveduto, e di cui per buona fortuna io tenevan indosso alquante. Vidi sul mio cammino un gran numero d’alberi che mi sembrarono produzioni della Natura non ravvisandosi verun ordine nella loro disposizione, molte praterie, e alcuni campi di vena. Me ne andava con molta circonspezione, temendo non mi si scoccasse qualche saetta o pel di dietro, o pe’fianchi. Sboccai ad una strada maestra, ove mi caddero sotto l’occhio molte tracce d’Uomini, alcune di Vacche, ma un assai più considerabile numero di Cavalli. Finalmente osservai in un campo differenti animali, ed uno o due della medesima spezie assisi fra gli Alberi. Eran eglino d’una figura assai difforme e più che straordinaria. Ne restai sbigottito alquanto; e per meglio considerargli, dietro una macchia mi nascosi.

Avvicinatisi alcuni di loro al luogo ove io me ne stava ebbi l’opportunità di raffigurargli distintamente. Le loro teste, e i loro petti erano ricoperti di crini; avean essi le barbe a somiglianza de’Caproni; e il loro corpo, generalmente parlando, era del colore della pelle di bufalo. Io gli scorgeva a rampicarsi sopra grand’Alberi con tanta agilità, come potrebbe farlo uno scojattolo; mercè che aveano nerborute zampe che terminavano in uncinate punte. Facevano terribili salti, e correvano prodigiosamente veloci. Più che i maschj eran picciole le loro femmine; le cui poppe pendevan loro fra’piedi dinanzi, e incamminando radevan la terra. Di differenti colori erano i crini di quelle bestie d’amendue i fessi: bruni gli uni, rosi gli altri, quegli neri, gialli finalmente questi. A prender tutto, non so risovvenirmi d’aver veduto, in veruno de’miei Viaggj, Animali più nauseanti, nè più opposti al mio genio. Avendo dunque, anche troppo, soddisfatta la mia curiosità proseguì il mio cammino, lusingandomi che alla capanna di qualche Indiano ei mi guiderebbe. Tirati innanzi appena alcuni passi, diedi del naso in una di quelle creature or ora mentovate. Il sozzo mostro non aveami quasi scoperto, che misesi a fare molte morfie, in cui credei di figurare lo stupore di lui: ed accostatosi poscia a me, le sue zampe levò, senza che io sapessi se ciò egli facesse per malizia, o per semplice curiosità. Ma dubitando d’equivoco, die di mano alla spada, e lasciai gli andare una piattonata; imperocchè io non cercava di ferirlo, per timore che cotale violenta azione a riguardo d’una bestia che poteva lor appartenere, non irritasse gli Abitanti contra di me. Con tutto questo, riuscì il colpo non poco doloroso; perchè l’animale gettando strepitosi gridi prese la fuga, traendo fuori del vicino campo una quarantina di mostri della spezie stessa di lui, i quali d’assai mal occhio mi risguardarono. Temendo, non ostante, di qualche insulto, assicurai le spalle ad un albero, e mi feci largo con la mia spada; tutto che, per vero dire, non mi trovassi con l’intero mio comodo.

In un imbroglio di questa fatta, qual non fu il mio stordimento; quando vidi quegli animali a mettersi in salvo a tutte gambe, e a lasciarmi proseguir il Viaggio con libertà, senza che possibil mi fosse di comprendere la cagione di cangiamento così improvviso? Ma girato il capo a sinistra, ravvisai un Cavallo che a piccioli passi se ne stava spasseggiando nel Campo; ed era questo Cavallo, che prima di me avevan eglino veduto, quello il quale, per quanto dappoi ne seppi, era il motivo della loro fuga. Parvemi il Cavallo alquanto sbigottito in guardandomi, ma rimessosi immediate dal suo spavento, considerò il mio volto con indizj manifesti di maraviglia: contemplò attentamente le mie mani e i miei piedi, e d’intorno al mio corpo molte volte girò. Continuar io volea la mia strada; ma egli me la serrò in traversandola; tutto che per altro, non avesse l’aria minaccevole, e che mi paresse non intenzionato di praticarmi la menoma soperchieria. Per alcuni minuti ce ne ristemmo amendue in cotale situazione; alla fine fui sì ardito di stendere la mano sopra il suo collo, con intenzione di vezzeggiarlo, servendomi di quella sorta di fischio e di parole ond’usano i Cozzoni, quando maneggiar vogliono un Cavallo straniero. Ma quell’animale parve sdegnare i miei blandimenti: essendo che crollò la testa, increspò le ciglia, e con la dritta gamba del dinanzi allontanò leggermente il mio braccio: dopo di che tre o quattro volte annitrì, ma in un modo sì straordinario, che credetti ciò fosse una spezie di sua particolare favella.

In questo mentre sopraggiugne un secondo Cavallo, il qual accostossi all’altro con un’aria disinvolta e civile, gli annitrisce alcuni suoni, che mi parvero articolati, e ne riceve una risposta del genere medesimo. Si scostarono d’alcuni passi ambidui, come se avessero voluto conferir insieme, spasseggiando avanti indietro l’uno a fianco dell’altro nella guisa stessa che è praticata da chi vuol liberare sopra un negozio importante; ma girando sovente gli sguardi verso di me, come per impedirmi il suggirmene. Non saprei esprimere la mia sorpresa nel veder operare somiglianti cose ad Animali bruti, e ne conchiusi, che se gli Abitanti del Paese dotati fossero d’un grado di ragione proporzionato a quell’ordinaria superiorità che anno gli Uomini sopra i Cavalli, conveniva necessariamente che fossero il più saggio Popolo della Terra. Una tal riflessione m’incoraggiò ad avanzar cammino, e suggerirmi il disegno di più non fermarmi, se trovata non avessi qualche Abitazione, o alcun Villaggio; o per lo meno, qualcuno de’Naturali del Paese. Piano piano già mi andava sottraendo; allorchè il primo de’due Cavalli, il qual era un Leardo ruotato, guatando il mio scampo si mise ad annitrire dietro di me con un tuono sì assoluto, che di capire ciò ch’ei dir volesse m’immaginai, e perciò me ne rivenni per attendere gli ordini di lui. Il meglio che seppi dissimulai il mio spavento; poichè, senza che io il giuri, il Leggitore crederà facilmente, che non poca potesse essere la mia pena nell’incertezza del fine d’una somigliante Avventura.

Si fecero accosto di me i due Cavalli, risguardando con somma attenzione la mia faccia e le mie mani. Il Leardo, con l’unghia del piede dritto del dinanzi toccò il mio cappello da tutti i lati, e talmente lo scompose, che fui costretto di levarmelo per rassettarlo: Azione, che sembrommi gettar quel Cavallo, e il suo Compagno altresì (ch’era un bajo scuro) in un’ammirazione che non può esprimersi. Toccò quest’ultimo il lembo del mio vestito, e trovando ch’ei non faceva parte del mio corpo, palesò nuovi contrassegni di sua sorpresa. Le mie scarpe e le mie calze molto imbrogliarono entrambi, che aveanle esattissimamente disaminate, annitrendosi l’un con l’tro, e facendo molte gesta, che a quelle che fa un Filosofo, il qual procuri di spiegare qualche nuovo e difficile Fenomeno, non male rassomigliavano.

Per dir brieve; mi parvero sì sagge e sì piene d’intelligenza le maniere tutte di quegli Animali, che conchiusi, che conveniva necessariamente che fosser due Stregoni così trasformati, e che vedendo uno Straniere, formato avessero il disegno di ricrearsi a mie spese; o che forse realmente fossero trasecolati della vista d’un Uomo sì diverso in vestimenta e in figura dagli Abitanti d’un Paese così rimoto. Questo bello e ben fondato ragionamento mi rendè ardito per tener loro il seguente discorso.

Signori: se siete Stregoni, come è assai probabile, vi son congnite tutte le Lingue; e perciò prendomi la libertà di dire alle Signorie Vostre, che io sono uno sgraziato Inglese, gettato da’suoi infortunj sulle vostre spiagge. Priegovi per tanto di permettere che io monta sopra uno di voi due, come realmente fosse un Cavallo, e di portarmi a qualche abitazione, o a qualche Villaggio. Vi giuro che non obbligherete una persona ingrata; poichè regalerovvi di questo coltello e di questo braccialetto, (che in ciò dire tolsi dalla mia saccoccia.) Se ne stettero profondamente mutole nel frattempo che io parlava le due Creature, e manifestarono d’ascoltarmi con molta attenzione; e finito che io ebbi, l’una coll’altra parecchie volte annitrironsi; nè più nè meno, come se impegnate fossero in una seriosa conversazione. Osservai che il loro linguaggio esprimeva assai bene gli affetti; e che i termini si potevano ridurre in Alfabeto, più agevolmente che que’de’Chinesi.

Gli udì più fiate pronunziare la parola Yahoo; e comechè mi riuscisse impossibile d’indovinare ciò ch’ella significasse, pruovai, non ostante, in tempo che que’Signori se ne stavano in trattenimento, di profferirla ancor io. Subito che mi avvidi ch’essi tacevano, dissi ad alta voce Yahoo, imitando nel tempo stesso al possibile il nitrito d’un Cavallo; dal che non restarono ambidui mediocremente sorpresi; e il Leardo ripetè tre volte il vocabolo medesimo, come se avesse voluto instruirmi del vero accento; nel che lo imitai alla meglio, e trovai che ciascuna volta io pronunziava men male, non ostante che tuttavia fossi molto lontano dal punto di perfezione. Il Bajo scuro poscia saggiò la mia capacità a riguardo d’un secondo termine, la cui pronunziazione era molto disagevole; voglio dire quegli di Houyhnhnm. Non ci riuscì sì bene in questo come nell’altro; ma dopo due o tre esperimenti, la faccenda andò meglio, e i miei due Maestri parvero estremamente stupiti dell’abilità del loro Discepolo.

Dopo alcuni altri discorsi, che per quanto ne conghietturai risguardavano me, i due Amici presero congedo un dall’altro: il Leardo fecimi segno che io camminassi innanzi a lui: nel che giudicai a proposito d’ubbidirgli, finchè una miglior guida trovata avessi. Quand’io andava troppo lentamente, ei mi gridava Huhuum. Huhuum. Indovinai il suo pensiero, e gli diedi ad intendere che io era stanco, e che possibile non mi riusciva di progredire: egli ebbe la bontà d’arrestarsi alquanto, perchè avessi l’agio di riposarmi.

CAPITOLO II.

Un Huyhnhnm guida l’Autore alla sua Casa. Descrizione di questa Casa. Maniera con cui vi è ricevuto l’Autore. Nutritura degli Hoyhnhnms. E’l’Autore provveduto d’alimenti doppo d’aver temuto di mancarne. Suo modo di nutricarsi in quel Paese.

TRE miglia in circa fatte avevamo, allorchè pervennimo ad una lunga fabbrica di legname, il cui tetto era basso e coperto di paglia. Cominciai quell’instante ad incoraggiarmi, e trassi dalla mia tasca alcune di quelle cosuzze, che per ordinario i Viaggiatori an sempre con esso loro, per farne a poche spese regali magnifici agl’Indiani dell’America. Trassi, dissi, dalla mia tasca alcune di quelle cosuzze, con la speranza di conciliarmi, per tal mezzo, l’affetto degli Abitatori di quella Casa. Che io entrassi il primo fecimi segno il Cavallo. L’eseguj, e mi trovai in un’assai propia stalla, ove non mancava nè rastrello, nè greppia. Vi stavano tre Cavalli, e due Giumenti che non mangiavano, ma taluno di essi se la passava sedendo su’suoi garetti; il che recommi un’estrema maraviglia, e questa si rinforzò, quando vidi gli altri impegnati nell’esercizio stesso, che da’nostri Palafrenieri è praticato nelle nostre stalle. Un somigliante spettacolo mi rassodò nel primo pensiero, che un Popolo capace di render colti fin a un tal segno de’bruti, non potea non essere il più saggio, e il più abile Popolo della Terra. Il Leardo ruotato entrò allora, e prevenne qualche mal termine che avrebbono potuto farmi gli altri: Anitrì loro in diversi tempi con un tuono d’autorità, e sempre n’ebbe le dovute risposte.

Al di sopra di quella foggia d’Apartamento ove noi eravamo, aveavene altresì tre altri in un solo piano, a cui tre porte, l’une rimpetto all’altre, davan l’ingresso. Pel secondo Appartamento ci rendemmo alla porta del terzo, dove entrò solo il Caval Leardo, facendomi segno di quivi attenderlo. Ubbidj, e in aspettando, alestj i presenti pel padrone, e per la padrona della Casa. Consistevano questi presenti in due coltelli, in tre manigli di perle false, in un picciolo cannocchiale, e in un vezzo di vetro. Tre o quattro volte il Cavallo annitrì; ed io mi figurava d’intendere cadauna risposta pronunziata con voce umana; ma un nitrito altresì articolato, tutto che più sottile del suo, fu tutta la risposta ch’egli ebbe. Passavami per la mente che quell’abitazione appartenesse a qualche persona del primario carattere, giacchè vi voleano tante cerimonie per esservi ammesso: parendomi totalmente incredibile che un uomo di qualità da soli Cavalli servito fosse.

Temei per un instante che i miei infortunj, e i miei patimenti non mi avessero offuscato il cervello: guardai d’intorno a me nella stanza ove io era stato lasciato solo, e la trovai come la prima, tutto che d’alquanto maggior propietà. Stroppicciami gli occhj molte volte; ma costantemente furono essi colpiti dagli oggetti medesimi. Le braccia e le coste mi bezzicai per isvegliarmi, con la lusinga che fosse un sogno tutto ciò che io vedeva; dopo di che fui costretto d’attribuire ogni cosa alla Magia. Ma nel forte di somiglianti mie riflessioni interrotto fui dall’arrivo del Leardo, che mi accennò di seguirlo nel terzo Appartamento; ove vidi una gentilissima Cavalla con due puledri, tutti e tre assisi sopra stuoje di paglia assai ben lavorate, e dell’ultimo buon gusto.

Immediate che la Cavalla mia ravvisò levossi dalla sua stuoja, si mise accosto di me, e dal capo a’piedi disaminommi; esame, che terminò con una disprezzante occhiata, e rivoltasi poscia verso il Cavallo, intesi che sovente ripetevano entrambi il termine di Yahoo; termine, onde per anche io non ne comprendeva il significato, non ostante che fosse il primo che a pronunziare io appreso avessi; ma troppo non tardai a ben capirne il senso, avend’io pagata una tal cognizione con la più crudele di tutte le mortificazioni: Mercè che il Cavallo, facendomi cenno con la sua testa, e replicando il vocabolo Hhuum, Hhuum, nella guisa stessa che praticato avea in sul cammino; il che volea dire (come già lo spiegai) che seguirlo io dovessi; in una spezie di Corte, ove aveavi un’altra fabbrica in qualche distanza della Casa, mi condusse. In quella fabbrica dunque entrammo; e vi vidi tre di quelle detestabili Creature da me immediatamente riscontrate dopo il mio arrivo nel Paese, che si pascevano di radici, e della carne di alcuni Animali, che dappoi seppi ch’erano stati Asini, Cani, e Vacche morti di malattie. Con forti funi eran elleno legate tutte pel collo ad una trave, tenendo il lor mangiare fra l’ungie delle zampe d’innanzi.

Il Padron Cavallo commandò ad uno de’suoi domestici, ch’era un Cavallo sauro, disciogliere la più grande di quelle bestie, e di condurla nel cortile di dietro. Vi fui condotto ancor io, e ciò col disegno di paragonarci insieme: il che il Padrone ed il servidore effettuarono con molta esattezza, ripetendo ambidui molte volte la parola Yahoo. Non saprei esprimere l’orrore e lo spavento che presemi, quando mi avvidi che l’abbominevole mostro aveva sembiante umano. Per vero dire, era più largo il suo ceffo, più schiacciato il naso, le labbra più grosse, e più fessa la bocca, che non l’anno d’ordinario gli Europei: ma cotale difformità scorgonsi nella maggior parte delle Selvagge Nazioni. I piedi d’avanti del Yahoo in nulla differivano dalle mie mani, se eccettuinsi l’unghie ch’erano più lunghe: come più irsuti, e più bruni erano gli piedi stessi. Aveavi la conformità medesima, e la medesima differenza fra’nostri piedi: ma i Cavalli non se ne accorsero, perchè i miei dalle scarpe e dalle calze erano ricoperti.

La sola difficoltà che i due Cavalli tenea sospesi era, il vedere che il restante mio corpo non rassomigliasse per nulla affatto quello d’un Yahoo: disuguaglianza, onde io aveane la totale obbligazione a’miei vestiti, che per coloro riuscivano una cosa interamente nuova. Offrimmi il Sauro una radice, ch’ei teneva fra l’unghia del suo piede, e il suo pasturale: Io la presi: ma gustata avendola, con la più possibile civil maniera gliela rendei. Trasse egli dal canile del Yahoo un non so qual cibo che puzzava sì forte, che io girai la testa, facendo alquante sdegnose e nauseate morfie; il che appena egli osservò, che al Yahoo gettò il cibo, e fu questi con avidezza divorato da lui. Mi mostrò poscia un monticello di fieno, e un quartiere di biada; ma il capo crollai, manifestando che nè l’una, nè l’altra cosa servir mi potevano di nutritura. E per dirla schiettamente, cominciai allora a temere di morirmi di fame, se in alcuno della mia spezie non mi fossi abbattuto; Essendo che, per quello spetta a que’sozzi Yahoos, confessar deggio, che non ostante la cordial tenerezza che io professava allora alla Natura umana, non mi venne mai fatto di vedere un Essere, che per tutte le ragioni più mi disgustasse. Cosa più singolare si è, che tutto che ci avvezziamo a qualunque sorta d’animali, i soli Yahoos mi son paruti sempre più abbominevoli, a misura che più gli ho conosciuti. Il Padron Cavallo raffigurò abbastanza sulla mia faccia l’aversione che io aveva per quelle bestie; e per obbligarmi, rinviò il Yahoo nel suo canile. Dopo ciò: avvicinò alla sua bocca l’ungia del suo piede d’innanzi: dal che non ne restai mediocremente sorpreso, comechè il facesse in un modo assai agevole, e con un muovimento che mi sembrò perfettamente naturale. A questo primo segno ei ne aggiunse degli altri, affin di pregarmi di dargli a conoscere ciò che volentieri mangiato avrei; ma di fargli una risposta ch’ei potesse comprendere, totalmente impossibile mi riuscì. Standocene amendui in un tal imbroglio, passò una Vacca accosto accosto di noi. Io l’accennai col dito, e mostrai la voglia che io avea di mugnerla. Intesemi il Padron Cavallo; piochè ordinò ad una Cavalla, la qual era una delle fantesche dell’abitazione, di diserrar una stanza, ove aveavi molti vasi di terra, e di legno riempiuti di latte. Me ne offrii ella un buon boccaluzzo pieno, che in un solo fiato, e con un piacere indicibile, tracannai.

Verso il mezzo giorno, vidi sopraggiugnere alla nostra Casa una spezie di Vettura tirata da quattro Yahoos. Adagiavasi in questa Vettura un Vecchio Cavallo, che avea la portatura d’un non so che di qualificato. Nello scendere, mise prima a terra i suoi piedi di dietro, avendo qualche impedimento nel suo piede sinistro d’avanti. Veniva egli a pranzo col nostro Cavallo, che il ricevette con sonore rimostranze d’amicizia. Mangiarono essi nel più bello Appartamento, e di vena bollita nel latte fu il secondo loro servito. Erano le lor mangiatoje situate in circolo nel mezzo della Stanza, e divise in compartimenti eguali; davante a cui eran eglino tutti assisi, avendo ciascheduno un fastello di paglia che serviva gli di sedile, o di tappetto. Nella guisa stessa delle mangiatoje era diviso il rastrello, dal che provenivane che cadaun Cavallo, e cadaun Giumento mangiava il peculiare suo fieno, e la sua composizione di vena e di latte, con molta decenza, e con molta regolarità. Mi ordinò il Caval Leardo di starmene accanto di lui; e per molto tempo quistionò sul mio proposito col suo Amico, per quanto conghietturar ne potei delle frequenti occhiate onde mi onorava il Forestiere, e della sollecita repetizione della parola Yahoo.

Terminato il pranzo, il Padron Cavallo presemi in disparte; ed ora co’cenni, ed ora colle parole, chiaramente mi palesò la prima inquietudine, perchè io non avessi di mangiare. In loro lingua, Hlunnk significa vena. Due o tre fiate io pronunziai questo termine; imperocchè, non ostante che da principio non ne avessi voluto dopo una matura riflessione trovai che potea farne una spezie di pane; il qual rimescolato col latte, valuto mi avrebbe di nutrimento, finchè cogliessi l’opportunità di salvarmi in qualche Paese abitato da Uomini. Sul fatto stesso ordinò il Cavallo a una Giumenta bianca di recarmi in una sorta di tinozza una buona porzione di vena. Riscaldai al fuoco, il meglio che potei, questa vena, e ne strofinai le grana finattanto che la scorza, che procurai poscia di separarne, tolta ne fu: e susseguentemente la schiazziai fra due pietre; dal che formossene una spezie di pasta, che frammescolata coll’aqua, ed indi sectata al fuoco, mi tenne luogo di pane. A prima giunta mi parve insipido questo pane, tutto che in Europa sienvi molti Paesi, ove se ne mangia di somigliante. Ma poco a poco mi ci costumai; oltrechè, come non era questi il primo mio saggio di frugalità, non fu neppure il primo esperimento, onde mi rendei convinto che di poco la Natura si appaga. Ed è cosa assai notabile, che in tutto il tempo del mio soggiorno in quell’Isola, si mantenesse perfettissima, senza la menoma interruzione, la mia sanità. Veramente, procurai talvolta d’andar in busca di qualche Coniglio, o di prendere al laccio, fatto di crini di Yahoos, qualche uccello; e allo spesso rintracciai dell’erbe medicinali, che io facea bollire o che mangiava in insalata; e di tempo in tempo composi un poco di butiro, di cui poscia il siero io ne bevea. I primi giorni del mio arrivo mi sapeva male l’insipidezza, ma insensibilmente io mi avvezzai; osando di dire che l’uso frequente che noi ne facciamo ne’nostri pasti, è una corruttela del gusto, il qual dee la sua origine alla qualità che ha il sale di provocar al bere quegli medesimi che, senza questo, troppo berebbero; essendo che, non veggiamo, se eccettuisi l’Uomo, animale veruno che ne rimescoli ne’suoi alimenti: E per quanto tocca a me: lasciata ch’ebbi quelle Regione, vi volle un tempo assai considerabile, prima che potessi riaccostumarmivi. 

Ma eccone abbastanza sull’articolo della mia nutritura: articolo, su cui con ispecifica diffusione trattano quasi tutti gli Viaggiatori: come se chi gli legge fossevi personalmente interessato. Con tutto ciò: gli era necessità che parola ne facessi, per timore che non si pensasse, ch’era impossibile che per lo spazio di tre anni, in un tal Paese, e fra cotali Abitatori, alimenti trovar potessi.

Arrivata la sera, il Padron Cavallo ordinò il luogo del mio dormire. Una picciola stalletta fu la mia stanza, lontana per sei verghe dalla Casa, e disgiunta dal Canile degli Yahoos. Quivi mi corcai sopra un poco di paglia, con cui io avuta avea l’attenzione di formarmene una maniera di letto. Mi valsero di coperte le mie vestimenta, e asserir posso che dormì perfettamente bene. Ma poco tempo dopo vi fui adagiato meglio come il Leggitore resterà instrutto a suo luogo; cioè, quando della mia foggia di vivere distintamente il ragguaglierò.

CAPITOLO III.

Applicasi l’Autore ad apprendere la favella del Paese, e il suo Padrone, l’Houyhnhnms, gliene da delle lezioni. Descrizione di questa favella. Molti Houyhnhnms di qualità vanno a visitare l’Autore. Fu egli al suo Padrone un compendiato racconto del suo Viaggio.

PRimaria mia applicazione si era ad apprendere la Lingua, che il mio Padrone (che così il chiamerò da quì innanzi,) i Figlivoli di lui, ed altresì i Domestici tutti della Casa, egualmente solleciti, faticavansi d’insegnarmi, riputando eglino come un prodigio, che un animale bruto esibisse tanti apparenti contrassegni di ragione. Io mostrava qualunque cosa col dito, e ne chiedeva il nome, che poscia si scriveva da me nel mio taccuino, quando mi trovava solo. Quanto all’accento m’ingegnava d’acchiapparlo, pregando que’della Casa di ripetere molte volte i termini medesimi: nel che un Cavallo sauro, il qual non era che un famiglio di stalla, fummi molto fruttuoso.

Più che alcun’altra favella dell’Europa accostasi la favella loro alla Tedesca; ma l’è molto superiore in graziofità e in energia. L’Imperador Carlo V. fece la riflessione medesima allorchè disse; che se egli avesse dovuto parlare a’suoi Cavalli, non l’avrebbe fatto che in Tedesco.

Furono sì grandi la curiosità e l’impazienza del mio Padrone, che impiegò egli molte ore del giorno ad instruirmene. Era persuaso, come poscia mel dichiarò, che io fossi un Yahoo: Ma ciò che egli comprendere non potea, era la mia docilità, la mia aria civile, e la mia propietà; caratteri onde verun degli Yahoos del Paese, dotato non era. Un’altra maraviglia impossibile a concepirsi da lui erano i miei vestiti; mercè che egli s’immaginava che formassero parte del mio Corpo, avendo io l’attenzione di non ispogliarmene mai se tutta la famiglia non si fosse ritirata: e di rivestirmene la mattina innanzi che alcuno si fosse alzato. Moriva di voglia il mio Padrone di sapere donde io venissi, come avessi acquistate le apparenze di ragione ch’egli scopriva in tutte le mie azioni, e d’intenderne le Storia della viva mia voce: il che lusingavasi che ben presto io fossi in istato d’effettuare, attesi i gran progressi che io ne avea già fatti, apprendendo e pronunziando i loro termini, e le loro frasi. Per recar qualche ajuto alla mia memoria, m’avvertì di far registro di tutti i vocaboli che io imparava, con la loro traduzione accanto. Di sì gran soccorso mi riuscì questo metodo, che alla fine la presenza stessa del mio Padrone non mi tenne impedito dallo scrivere in carta alcuni termini, e alcune maniere di discorrere. Stentai molto in ispiegargli ciò che io faceva; non avendo gli Houyhnhnms la menoma idea di tutto ciò che Libri, oppure Scritture, noi chiamamo.

Nello spazio di dieci settimane fui capace d’intendere la maggior parte delle sue quistioni; e alcuni giorni dopo, di fargli passabilmente la risposta. Spasimava egli di brama che gli raccontassi da qual Regione distaccato mi fossi, e chi insegnato mi avesse ad imitare una Creatura ragionevole; a cagion che gli Yahoos (a’quali egli osservava che io esattamente era somigliante nella testa, nelle mani e nella faccia, ch’erano le sole parti del mio Corpo che visibili fossero,) eran fra loro’sempre passati per gli men disciplinabili di tutti gli Animali feroci. Risposigli, che io me ne veniva pel Mare da un assai rimoto luogo, con molte altre Creature della mia spezie, e in un gran Vascello incavato fatto di legne: Che i miei compagni mi aveano a forza messo su quella spiaggia, e mi vi aveano abbandonato. Non seguì che con estrema difficoltà, e con l’ajuto di molti segni che gli feci ciò comprendere. Ei ripigliò, che conveniva necessariamente che io m’ingannassi, o che gli dicessi la cosa che non è, (poichè in loro Lingua non anno termine di sorta per ispiegare ciò che noi chiamamo falsità o menzogna.) Io so, continuò egli, ch’è impossibile che siavi un Paese di là dal Mare, o che una truppa di bruti sia capace di condurre in sull’acqua un Vascello di legno: Niuno Houyhnhnm al Mondo ha il talento di costruire una somigliante vettura; e neppure è così imprudente per affidarne a degli Yahoos la direzione.

Il vocabolo Houyhnhnm significa in loro idioma un Cavallo, e nella sua etimologica origine, la perfezione della Natura. Dissi al mio Padrone che l’espressione m’imbrogliava; ma che a costo d’un fisso studio avrei procurato di superare in poco tempo questa difficoltà, lusingandomi di essere ben presto in istato di narrargli gran maraviglie. Compiacquesi egli di dire alla sua propia Cavalla, a’suoi due Puledri, e a tutti i Domestici di sua Casa, di non ommettere veruna opportunità d’ammaestrarmi, ed egli stesso per due o tre ore di cadaun giorno si prendeva questo fastidio. Molti Cavalli ed alcuni Giumenti qualificati del Vicinato, vennero alla nostra abitazione, sulla fama che si era sparsa, che aveavi un Yahoo che parlava come un Houyhnhnm; e nelle parole e nelle azioni di cui, scuoprivasi qualche barlume di ragione. Parve che molto gustassero que’Forestieri del mio trattenimento; praticate avendomi molte interrogazioni, alle quali secondo il mio possibile soddisfeci. Tanto ne profittai di tutti questi mezzi, che cinque mesi dopo il mio arrivo, io ben capiva tutto ciò che si diceva, ed lo stesso mi esprimeva passabilmente bene.

Gli Houyhnhnms che a visitar vennero il mio Padrone col disegno di vedermi e di discorrer meco; non diedero indizj d’essere persuasi che io fossi un vero Yahoo, perchè io era coperto diversamente da quel che il sono questi animali. Per fino allora mi era determinato di tacere in proposito a’miei vestiti, per distinguermi, per quanto fosse possibile, da quella maledetta razza di Yahoos; ma alcuni giorni dopo mutai parere; e credei un tratto di mia ingratitudine il farne per maggior tempo un arcano al mio Padrone. Oltre che, io meditava, che si sarebbero ben presto consumate le mie vestimenta e le mie scarpe, e che per necessità avrei dovuto farmene d’altre di pelle d’Yahoos, o qual altro animale si fosse; dal che si sarebbe manifestato tutto il misterio. Dissi dunque al Padrone, che nel Paese donde io veniva, que’della mia spezie coprivansi il corpo di pelo di certe bestie, industriosamente lavorato: e ciò per decenza, ed anche per guarentirsi dalle ingiurie dell’aria: Che se egli il volea, io offrivami di mostrargli in mia persona un saggio della verità di ciò che io avanzava; purchè egli mi permettesse d’occultar a’suoi occhj quelle parti che la Natura di tener nascosse c’insegna. Risposemi il Padrone, che sembravagli molto strano il mio ragionamento, ma spezialmente la conchiusione: Che non potea egli comprendere come la Natura c’insegssasse a nascondere la propia sua opera: Che nè egli, nè veruno di sua Famiglia arrossavasi di veruna parte de’loro Corpi; ma che io era l’Arbitro di far quel che volessi su quest’articolo. Cominciai allora dallo sfibbiare i bottoni dal Giubbone, e dal togliermelo d’indosso con la mia veste. Levai altresì le mie scarpe e le mie calze, e per compimento di soddisfazione della curiosità di lui, gli mostrai il mio petto e le mie braccia tutte ignude.

Con la più avida curiosità considerò il Padrone questi differenti oggetti. Prese, pezzo per pezzo, tutti i miei vestiti nel suo pasturale, e attentamente gli disamino; dopo di che, avendo con uno de’suoi piedi d’innanzi lisciate alcune parti del mio corpo, dissemi, che in sentenza sua io era un perfetto Yahoo: Che la sola differenza che passava tra me, ed il resto della mia spezie, consisteva in ciò che io avea la pelle più bianca, più dilicata e più morbida: e le unghie delle zampe del d’avanti e del di dietro più corte che gli Yahoos comuni; ed eziandio consisteva nell’affettazione di camminar sempre co’miei piedi di dietro. Aggiunse, che di più non volea vederne, e che come sembravagli che io avessi freddo, così io poteva riprendere i miei vestiti.

Gli espressi qualche mio rammarico perchè sì frequente avessemi dato il nome di Yahoo, il qual era un Animale odioso, da me al maggior segno dispregiato ed avuto in abbominazione. Il supplicai di non più valersi a mio riguardo d’un titolo sì oltraggioso; e di fare che que’della sua Famiglia e gli Amici, a’quali egli permetteva di venir a vedermi, avessero l’attenzione medesima. A questa grazia lo scongiurai d’aggiugnerne un’altra, cioè di non palesar a chi che fosse che ciò che scorgevasi non fosse il mio vero corpo; mercè che spacciati si avrebbe gli Abiti miei come una spezie d’artifizio, con cui persuader volessi che io non fossi un Yahoo.

In una maniera la più graziosa del Mondo soscrisse il Padrone alle mie instanze; e così il segreto restò custodito finchè le mie vestimenta cominciassero a logorarsi, ed obbligassermi ad aver ricorso a diversi espedienti per rappezzarle, come a suo luogo il dirò. Nel tempo stesso mi pregò d’impiegarmi con tutta la possibile diligenza ad instruirmi del Linguaggio del Paese; essendo che più rendevanlo attonito la mia intelligenza, e la mia facoltà di discorrere, che la figura del mio corpo, fusse egli coperto o no: aggiungendo che stava egli impazientissimo d’intendere le maraviglie che di narrargli io avea promesso.

Da quell’instante innanzi raddoppiò egli il suo fastidio per ammaestrarmi; mi volle con esso lui in tutte le ragunanze, e faceva che tutti gli Astanti mi trattassero con molta cortesia; imperocchè, come egli il diceva loro in quattr’occhj, ciò renduto mi avrebbe di buon umore e più conversevole.

Ciascun giorno che io andava a porgergli i miei saluti, alla briga ch’ei prendevasi d’instruirmi, egli univa delle quistioni in proposito di me medesimo; ed io procurava di supplirvi con tutto il mio potere; e con questo mezzo gli avea esposte alcune generali idee, tutto che imperfette.

Sarebbe cosa molto molesta il voler descrivere i differenti gradi, per gli quali passar dovei prima d’essere capace d’una conversazione alquanto continuata. Ecco la prima di quelle conversazioni. Per apaggare la curiosità del Padrone, che sin allora io non avea che eccitata con risposte mal espresse e peggio ancora intese, dissigli un giorno: Che io veniva da un Paese molto lontano, come io già aveva avuto l’onore di accennarglielo, in compagnia d’una cinquantina d’Animali della mia spezie: Che avevamo traversati molti Mari in un Vascello di legno, più grande che la casa di lui. E quì gli feci la più esatta descrizione che potei del Vascello; e procurai di dargli ad intendere con la comparazione del mio fazoletto spiegato, come questo Vascello era stato sospinto dal vento: Che i miei uomini, essendosi ribellati contra di me, mi aveano messo a terra su quella spiaggia, ove immediate io riscontrati avea quegli esecrabili Yahoos, dalla cui persecuzione aveami guarentito il di lui sopraggiugnere. Ei mi ricercò chi avesse costrutto il Vascello; e come possibil fosse che gli Houyhnhnms del mio Paese affidata ne avessero a Bruti la direzione? Io replicai, che non avrei l’animo di proseguire la mia relazione, se egli non s’impegnasse in parola d’onore di non aversene a male, e che a questo patto gli racconterei le maraviglie, onde sì spesso io gliene avea parlato. Ei mel promise; e quindi il mio ragionamento continuai: assicurandolo che il Vascello era stato fabbricato da Creature come me; le quali, in tutte le Regioni che io aveva scorse, ed altresì nella mia, erano i soli Animali di ragione dotati; e che al mio arrivo in quel Paese; io era rimasto tanto attonito di scorgere gli Houyhuhums ad operare come Esseri ragionevoli, quanto egli, o gli Amici suoi, l’avean potuto essere in iscoprendo caratteri d’intelligenza in una Creatura, che egli si compiaceva di confondere con gli Yahoos, a cui io non volea già negare di rassomigliarmi in alcune circostanze, ma non certamente nella ferocia e nella bestialità. Dissi di più, che se mai godessi della buona sorte di ritornamene alla mia Patria e di potervi narrare i miei viaggj, come n’era la mia intenzione, ognuno taccerebbemi di dire la cosa che non è; e che, malgrado il profondo rispetto che io avea per lui, per la sua Famiglia, per gli suoi Amici, asserirgli io poteva, che i miei Compatriotti durerebbono gran fatica a credere, che al Mondo fossevi un Paese, ove gli Yahoos fossero Bruti, e gli Houyhnhnms Creature ragionevoli.

CAPITOLO IV.

Intelligenza degli Houyhnhnms in proposito del vero e del falso. Discorso dell’Autore disapprovato dal suo Padrone. Introducesi l’Autore in un racconto più specificato di se medesmo, e degli avvenimenti del suo Viaggio.

AScoltò il mio Padrone ciò che testè io gli avea detto, con quell’aria d’imbroglio che palesasi quando ci vengono rappresentate cose che si dura fatica di comprendere, il che proveniva, perchè l’idee di Dubbio, e d’Incertezza a riguardo della verità d’un fatto, erano totalmente una novità per lui: E mi rammentò che in molti discorsi ch’ebbi con esso in materia degli Uomini in generale, essendo io sforzato di parlargli delle Menzogne ond’eglino si prevalgono per iscambievolmente ingannarsi, fu estrema la mia difficoltà per ottener l’intento di farmi intendere; tutto che, per altro, egli avesse il più lucido concepimento del mondo. Ecco com’egli ragionava. L’Uso della parola è instituito per farci intendere, e per informarci di ciò che non sappiamo: Ora se alcuno dice la cosa che non è, rovescia quest’instituto; perchè; a parlar propiamente, dir non potrei che io il capisco, e ben lunge dall’instruirmi di qualche cosa, gettami in una condizione peggiore dell’ignoranza; poichè che il Nero sia Bianco ei mi persuade. Ecco tutta l’intelligenza ch’egli avea della Facoltà di Mentire, che sì a perfezione posseggono gli Uomini.

Per rivenire al mio argomento; quand’ebbi detto, che gli Yahoos erano i soli Animali ragionevoli del mio Paese, dimandommi il Padrone se fra noi si trovassero Houyhnhnms, e qual impiego fosse il loro? Gli risposi che ne avevamo un gran numero: che in tempo di State pascolavano essi nelle campagne, e nell’Inverno si custodivano nelle Case, ove gli nutrivamo di fieno e di vena, ed ove Yahoos servidori, erano obbligati a pettinar loro il crinale, di nettar i loro piedi, di dar loro a mangiare, e di fare i letti loro. V’intendo, replicò il mio Padrone, e da quel che mi dite, concepisco che, qualunque sia la porzion di ragione che i vostri Yahoos presumono di avere, gli Houyhnhnms, non ostante, sono i padroni vostri. Qual piacere sarebbe il mio, che i nostri Yahoos fossero così sociabili! Il supplicai di permettermi di non dirne di vantaggio; imperocchè io stava perfettamente assicurato che lo scioglimento della da lui propostami difficoltà, non potrebbe non dispiacergli. Ma egli mi ordinò di parlar alla libera, e di non adirarsi diedemi parola. Accertato da tal promessa, gli dissi che i nostri Houyhnhnms, che nol chiamiamo Cavalli, erano i più begli e i più generosi di tutti gli Animali che avessimo: che in forza e in velocità era ne eccellenti che appartenendo a persone di qualità, non erano impiegati che a portare i loro Padroni, o a tirare de’Cochj; trattati, per altro, assai bene, se pure non si ammalassero, o non divenissero bolsi, mercè che in tal caso erano venduti, e più di essi non si faceva che un uso basso, perfino alla loro morte; dopo di che si scorticavano per trarne qualche vantaggio dalla loro pelle, e gittavasi il resto del loro corpo in pasto a’Cani o agli Uccelli di rapina. Ma, io continuai, i Cavalli ordinarj non sono sì felici; poichè son mal nodriti, e adoperati da Castaldi o da Carretaj in fatiche assai più penose. Gli descrissi; per quanto seppi, la nostra maniera d’andar a cavallo: e altresì la forma e l’uso delle nostre briglie, delle nostre selle, de’nostri sproni e delle nostre fruste. L’informai poscia, che al di sotto de’loro piedi inchiodavano certe piastrelle d’una dura sostanza chiamata Ferro, perche in camminando per sassosi sentieri, eglino non si facessero male.

Parve sdegnato del mio ragionamento il Padrone; con tutto questo si contentò di dirmi, ch’egli stupiva della nostra temerità di montare sopra la schiena d’un Houyhnhnm; essendo più che sicuro, che il più debole de’suoi domestici era capace di gettar a terra il più robusto Yahoo, ed eziandio di schiacciar questa bestia col solo rotolarsi insul dorso. Risposi, che noi avvezzavamo i nostri Cavalli fin dall’età di tre anni o quattro a’differenti servigi a quali gli destinavano: Che gli straordinariamente viziosi di loro, erano impiegati nelle vetture: Che in tempo di lor gioventù gastigavansi severamente, per correggerli di quella sorta di difetti, a cui gli gastighi servir possono di rimedio: Che per rendergli più docili e più trattabili, si castravano, per la maggior parte, all’età di due anni: Che conveniva confessare ch’erano sensibili alle pene e alle ricompense; ma ch’egli era certo, che la menoma tintura di ragione non possedevano.

Costretto sui di valermi di molte circonlocuzioni per imprimere nel mio Padrone aggiustate idee di quanto io gli aveva esposto; essendo che non abbonda i termini la loro favella: consistendo in assai più picciol numero delle nostre, le loro necessità e le loro passioni. Ma riescemi impossibile d’esprimere il nobile risentimento che l’idea del trattamento crudele che pratichiamnoi a molti de’nostri Houyhnms gl’inspirò: particolarmente dopo che spiegato gli ebbi il fine, che ci proponevamo da quella sanguinosa operazione; ciò è d’impedir loro la propagazione di loro spezie, e di rendergli più servili. Disse egli: che se possibil fosse che avessevi un Paese, ove gli Yahoos soli fossero dotati di Ragione, bisognava per necessaria conseguenza ch’essi vi fossero altresì i Padroni, imperocchè a lungo andare, la Ragione la vinceva sempre sopra una cieca e brutale forza. Ma, che riflettendo alla forma de’nostri corpi, e in ispezieltà del mio, sembravagli che Creatura niuna, d’egual volume, men propi fosse ne’comuni affari del vivere, a far uso di questa Ragione; sopra di che pregommi di dirgli, se i miei Compatriotti rassomigliassero a me, oppure agli Yahoos del suo Paese. Gli dichiarai che io era sì ben formato come la maggior parte degli Uomini di mia età; ma che i Giovani e le Femmine avean la pelle assai più dilicata; e che particolarmente quest’ultime, l‘aveano, per ordinario, così bianca come del latte. Vero è, mi soggiunse egli, che vi ha qualche differenza fra voi e gli altri Yahoos; perocchè voi siete molto più propio, e non del tutto così difforme. Ma quanto al fatto, ei continuava, di vantaggi reali, essi mi erano superiori: Che le mie unghie, tanto de’piedi d’innanzi che di que’di dietro, non mi servivano a nulla: che in riguardo a’primi, egli impropiamente assegnava loro un tal nome, non avendomi mai veduto a camminarvi sopra: che non era sì dura la loro pelle per poter calpestrare le pietre: che pel più del tempo io non gli copriva di cosa veruna, e che la coperta ond’io talvolta gl’involgeva non era della figura medesima, nè così solida come quella che a’piedi dietro io metteva: che bisognava per necessità che io sovente cadessi, poichè era impossibile che sempre potessi tenermi ritto, poggiando sopra due soli piedi. Cominciò allora a far la critica dell’altre parti del mio corpo, dicendo che il mio naso sporgeva troppo in fuori: ch’erano sì concentrati nella testa i miei occhi, che volendo guardar qualche oggetto che mi fosse a’fianchi, mi conveniva girarla: che senza avvicinare alla mia bocca l’un de’miei piedi d’avanti, non poteva io nutricarmi: che per difendere il mio corpo contra il caldo ed il freddo, io era costretto di ricorrere a vestimenta, che togliere o rimettere cadaun giorno io non poteva, senza una pensione di molto tempo e di molta fatica. E finalmente, ch’egli avea riflettuto che tutti gli Animali del suo Paese naturalmente aveano dell’orror per gli Yahoos: che i più deboli gli sfuggivano, i più forti lunge da se gli scacciavano. Donde conchiudeva, che col supporci dotati di ragione, men imbrogliato tuttavia non trovavasi, per sapere come potessimo recar rimedio a quella naturale antipatia, che tutte le Creature mostravano di avere contra di noi; nè per conseguenza come addomesticarle, e ritrarne servigi. Ma, proseguiva, io non voglio maggiormente internarmi in questa discussione, mercè che mi muojo di voglia d’essere instruito della vostra Storia, in qual Regione siate nato; e di tutto ciò che prima di qua venire vi sia accaduto di più importante.

Gli dissi, che avrei fatto tutto per rendere compiutamente appagata la sua curiosità, ma che io molto temeva non vi fossero molte cose, onde impossibile riuscissemi  d’imprimergli le necessarie idee, non vedendo io nulla nel suo Paese da poterne fare in qualche modo la comparazione: Che non ostante mi accigneva a contentarlo sopra tutti gl’indicati articoli, supplicandolo tuttavia d’ajutarmi, quando rinvenir non potessi le dovute espressioni; il che con bontà ei mi promise. Cominciai dunque: Che i miei Parenti erano buoni Borghesi, stabiliti in un’Isola che Inghilterra noma val, tanto lontana dal Paese di lui, quanto uno de’suoi servidori penerebbe molto ad arrivarvi in un anno, quando anche non traviasse dal suo diritto cammino: Che i miei Parenti stessi avean mi fatta apprendere la Cirugia; e vale a dire, l’Arte di risanare le piaghe, e le contusioni che succedono al Corpo: Che il mio Paese era governato da una Donna che noi chiamiamo Regina: Che io aveva lasciata la mia Patria per accumular ricchezze; pel cui mezzo potessi al mio ritorno vivere nell’opulenza con la mia Famiglia: Che nell’ultimo mio Viaggio io era Comandante del Vascello, e che avea sotto di me una cinquantina di Yahoos, i più de’quali erano morti in Mare; il che avea mi costretto di reclutargli con altri di differenti Nazioni: Che il nostro Vascello per due volte aveva scorso il pericolo d’abbissarsi; la prima, per una violenta burrasca; e per aver investito in uno scoglio la seconda. A questo passo interrupemi il Padrone, per dimandarmi, come mai persuader io potea Stranieri di diversi Paesi d’imbarcarsi con esso meco, se tanti risichi passati avea il mio Vascello, e se tanti Uomini mi erano morti? Gli risposi, ch’eran coloro canaglie di sacco e corda, obbligati d’abbandonare le loro Terre, a cagione de’loro misfatti, o o della lor povertà; Che le liti ne aveano ruinati alcuni; che altri si erano immersi nella miseria pel vino, per giuoco o per le Donne; che altri erano criminosi di tradimento; che un gran numero l’era altresì di omicidj, di furti, di veneni, di spergiuri, di moneta falsa, o di fuga; e che poco men che tutti si erano sottratti alle carceri: quindi provenendone che veruno d’essi non ardiva di rimettere il piede nella sua Patria, per timore d’essere appiccato pel collo, o di finir i suoi giorni nel sondo d’una tenebrosa prigione: e che perciò erano forzati di rintracciar il lor vivere in Regioni rimote.

Più d’una volta mi troncò il Padrone questo ragionamento, ed io mi era prevaluto di molte circonlocuzioni per fargli conoscere la natura de’differenti delitti, che la maggior parte della mia Ciurma ad abbandonare la propia Patria, indotta aveano. A forza di molte conversazioni finalmente compresemi, ma la necessità, o l’uso di questi delitti, era la cosa, ch’egli potea concepire il meno. Per rischiarare un tal punto, dovetti inserirgli alcune immagini della brama d’essere potente e ricco; ed eziandio de’terribili effetti dello Spirito di vendetta, di odio, di crudeltà, d’intemperanza, di voluttà. Perchè ei comprendesse somiglianti passioni, molti supposti, idonei ad inspirargli qualche intelligenza, formai. Dopo ciò: nella guisa stessa che un Uomo la cui immaginazione è colpita da un non so che ch’ei prima non avea ravvisato, e più a parlarne non avea inteso, con istordimento e con indignazione egli alzava i suoi sguardi. Possanza, Governo, Guerra, Leggi, Gastighi, e mille altre cose, non potevano essere espresse in quella favella per mancanza di termini: e quindi ne derivava il crudel mio imbarazzo di far concepire al Padrone ciò che dir io volea. Ma avendo egli una maravigliosa comprensione, finalmente arrivò a conoscere, se non perfettamente, per lo meno in gran parte, di che fra noi sia capace la Natura umana; e mi pregò d’entrar alquanto in una minuta narrazione degli Affari del Paese che io chiamava Europa, ma spezialmente di quegli della mia Patria.

CAPITOLO V.

Per ubbidire agli ordini del suo Padrone, lo informa l’Autore dello Stato dels’Inghilterra, ed altresì de’motivi della Guerra fra alcuni Potentati dell’Europa; e ad inspirargli qualche idea della Natura del Governo Inglese incomincia.

E’Pregato il Leggitore a risovvenirsi, che ciò che al presente io son per dire è un estratto di molte conversazioni che per lo spazio di due anni e più, ebbi col mio Padrone. A misura che io progrediva nella favella degli Houyhnhnms, ei mi proponeva nuove quistioni. M’interrogò sopra lo Stato dell’Europa, sopra il commerzio, sopra le Manifatture, l’Arte, le Scienze; e cadauna mia risposta era incentivo di nuove dimande. Ma io quì solo registrerò in sostanza i trattenimenti che avemmo sul proposito della mia Patria; e gli disporrò in un cert’ordine, senza riguardo nè de’tempi, nè delle circostanze, che la opportunità n’esibirono. La sola cosa che m’imbroglia è, che riuscirammi disagevolissimo di riferire con fedeltà gli argomenti, e l’espressioni del mio Padrone. Ma mi si lusingo nulladimeno, che a dispetto d’una barbara traduzione, non si lascerà di ravvisar la vaghezza e l’aggiustatezza dello spirito di lui.

Per ubbidir dunque a’suoi cenni, narraigli il celebre avvenimento conosciuto sotto il nome di Rivoluzione; la lunga Guerra cominciata allora dal Principe d’Oranges contro alla Francia, e rinfrescata dalla Regina Regnante; Guerra, in cui si sono impegnate quasi tutte le Potenze dell’Europa. A richiesta di lui, calcolai che pel corso di questa Guerra era stato ucciso un millione di Yahoos, che di cento Città erano state prese, e tre volte più, tanti Vascelli colati a fondo. Mi dimandò egli quali fossero, per ordinario, le cagioni, perchè una Nazione prendesse l’arme contra d’un’altra? Risposi, ch’erano infinite queste cagioni; ma che gliene farei l’enumerazione delle principali: Che talvolta era l’ambizione de’Principi, i quali s’immaginano sempre che i loro Popoli e le loro Terre non bastino al loro Dominio: Talvolta la corruttella di que’Ministri, che impegnano i Sovrani loro in una Guerra per rendersi necessarj, o perchè alla loro pessima amministrazione non si rifletta: Che in fatto d’opinioni, la discrepanza avea costata la vita a molti milioni d’Uomini. Non vi ha Guerra più crudele, o più sanguinosa, o di maggior durata, quanto quella ch’è accesa dalla diversità d’opinioni; principalmente quando questa diversità non risguarda che cose indifferenti.

Talvolta due Principi, insieme la rompono per sapere qual de’due scaccerà un Terzo dagli Stati suoi, su’quali niuno d’essi d’avere il menomo diritto presume. Allo spesso un Potentato dichiara la Guerra ad un altro, temendo che questi non il prevenga. Accendesi talvolta una Guerra, perchè l’Inimico è troppo forte, e talvolta perchè è troppo debole. An talvolta i nostri vicini certe cose onde noi manchiamo, e mancano di certe altre che noi abbiamo; e ci ammazziamo l’un l’altro, finattanto che essi piglino le nostre, o ci diano le loro. Puossi con giustizia far la Guerra a un Alleato possessore di alcune Fortezze che ci convengono; oppure d’un tratto di Paese, che se al nostro fosse unito, renderebbe la figura di questo più regolare. Se un Principe fa una spedizione di Truppe per un Paese, il cui Popolo sia povero ed ignorante, può egli legittimamente sterminare la metà degli Abitanti, e ridurre in ischiavitù l’altra metà, col disegno di renderla colta, e di correggere la ferocia de’suoi costumi. E’una communissima pratica, che un principe chiamato in ajuto d’un altro per iscacciare un Usurpatore, si renda poscia padrone del Paese, uccida, avveleni, o mandi in esilio il Principe soccorso. La parentella per nascimento o per maritaggio, è una sorgente feconda di querele fra due Potenze; e più che vi ha di prossimità di sangue, e più rinforzasi la disposizione del querelarsi: Le Nazioni povere son di cattivo umore, e le Nazioni ricche sono insolenti. Or chi non vede che l’insolenza, e il cattivo umore non si accorderanno mai? Tutte queste ragioni producono che il mestiere del Soldato spaccisi pel più onorevole di tutti gli mestieri: mercè che un Soldato è un Yahoo preso a nolo per accoppare a sangue freddo il maggior numero che può d’Animali di sua spezie, tutto che questi non gli abbiano inferito in verun tempo il menomo male.

Avvi pure in Europa un’altra sorta di Principi, i quali non si trovano in bastevole forze per far la guerra da se medesimi, ma che imprestano alle Nazioni ricche le loro Truppe a un tanto per giorno per ciascun Uomo; ed è questa una delle loro più fiorite e più oneste rendite.

Ciò che mi raccontate, dissemi il mio Padrone, in proposito della Guerra, mi presenta grand’Idee di quella Ragione, di cui vi presumete dotati: Con tutto ciò, egli è una spezie di felicità che la possanza di voi altri Yahoos non sia proporzionata alla vostra malizia; e che la Natura vi abbia costituiti poco men che assolutamente inabili a far del male.

Essendo che, non isporgendo in fuora le vostre bocche come quelle di molti Animali, è difficilissimo che vi mordiate l’un l’altro. Quanto a’vostri quattro piedi, son eglino così teneri, e a nuocere sì poco idonei, che uno de’nostri Yahoos ne assalirebbe una dozzina de’vostri. Così; quando voi sì alto montar faceste il numero di que’che in certe Guerre sono stati uccisi è forza necessariamente, che abbiate detta la cosa che non è.

Un tratto tale d’ignoranza fecemi sorridere: e perchè io non era affatto affatto novizio nel mestier della Guerra, gli descrissi i Cannoni, le Colubrine, i Moschetti, le Carabine, le Pistole, le Palle, la Polvere, le Spade, i Pugnali, gli Assedi, le Ritirate, gli Assalti, le Mine, le Contrammine, i Bombardamenti, e le Battaglie Navali. Aggiunsi, che in queste battaglie vi restavano talvolta estinti venti mila Uomini per cadauna parte, e che il fuoco continuo, lo strepito ed il fumo de’nostri Cannoni, ed eziandio i gridi de’feriti e de’moribondi, erano un non so che da non potersi esprimere: Che negli Abbattimenti di terra, i Vincitori si la va vano nel sangue, calpestavano sotto a’piedi de’loro Cavalli i Vinti, e lasciavano i loro cadaveri per servir di pasto a’Cani, a’Lupi, e agli Uccelli da rapina. E per esaltare il valore de’miei Compatriotti, gli protestai, che io gli avea veduti far saltar nell’aria, in un istante, un centinajo di nemici in un Assedio; e che i corpi morti erano ricaduti a terra in mille pezzi, con estremo divertimento degli Spettatori.

Io stava per internarmi in una più diffusa specificazione, allorchè il Padrone m’impose silenzio. Disse: Che chiunque conoscesse il naturale degli Yahoos, facilmente gli crederebbe capaci di tutte l’iniquità testè da me mentovate, se la forza loro fosse eguale alla loro ribalderia: Che il mio discorso non solo aumentata avea l’orribilità ch’egli nodriva per que’Mostri, ma ancora suscitata in lui una turbolenza non più saggiata: Che temeva che le sue orecchie non si avvezzassero ad intendere cose abbominevoli, e che l’indignazione onde allora si sentiva assalito, insensibilmente non iscemasse: Che non ostante ch’egli avesse in aversione gli Yahoos del suo Paese, gli biasimava, a cagione delle loro odiose maniere, così poco, che un Ennayh (sorta d’Uccello rapace) a cagion della sua crudeltà: Ma che quando una Creatura, la qual presume d’essere dotata di ragione, è capace di certe scelleratezze; la corruttela di questa facoltà sembravagli abbassarne gli Autori, fin a costituirgli inferiori alle Bestie brute.

Disse di più: ch’ei troppo ne avea inteso in proposito della Guerra; ma che per allora imbarazzavalo molto un altro articolo: Che io gli avea dichiarato che alcuni Uomini della mia Ciurma si erano staccati dalla loro Patria, perchè i litigj gli aveano messi in ruina: Che non poteva immaginarsi, che per aver qualche controversia con un altro, fosse d’uopo far grandi spese, acciocchè un Giudice qual de’due avesse il torto o la ragione decidesse.

Ripigliai: Che veramente io non mi trovava versato in tutto ciò che presso noi dicesi Processi, non avendo io, quasi mai, avuto che fare con persone di Foro, eccettuatane una sola volta che io aveva posti di mezzo alcuni Avvocati per chiedere risarcimento d’una ingiustizia che mi si era praticata, senza aver mai potuto vederne il fine: Che con tutto questo, avendo avuta l’occasione di strignere amistà con taluni che si erano ruinati per le liti, e che furono in conseguenza costretti d’abbandonarne la loro Patria, mi comprometteva di esibirgli su quest’argomento alcune idee, per lo meno, superficiali.

Gli dissi: Che coloro, i quali profession facevano di questa Scienza, uguagliavano in numero i Bruchi de’nostri Giardini; e che, tutto che in generale esercitassero il mestiere medesimo, aveavi nulladimeno qualche disparità nelle loro funzioni: Che la quantità prodigiosa di que’che a quest’Arte applicavansi, era la cagione che tutti non ne potessero sussistere in un modo onesto e legittimo, e che perciò era forza che molti avessero ricorso all’industria, e all’artifizio: Che fra questi ve n’erano alcuni che dalla loro più tenera giovinezza si erano applicati ad imparar la Scienza di provare chi il nero sia bianco, e il bianco sia nero: Che la temerità di costoro e l’audacia delle loro pretensioni erano sì grandi, che ingannavano il semplice Volgo, presso cui essi passavano per Uomini di consumata abilità; il che gli metteva più in voga che tutti gli altri loro Colleghi. Furono di questa pasta, io diceva proseguendo il mio ragionamento, que’co’quali io ebbi a fare nella lite che ho perduta: e non saprei meglio darvi ad intendere la lor maniera di trattar le Cause, che con un esempio.

Supponiamo che il mio Vicino s’intalenti di aver la mia Vacca; ei si provede d’uno di questi Avvocati per provare che la mia Vacca gli appartiene. E’forza allora che io mi proveda d’uno altro per difendere il mio diritto; poichè egli è contra tutte le Regole della Legge che un Uomo difenda la propia sua Causa. Ora in questo caso, io, a cui appartiene la Vacca, ho due gran discapiti. Primieramente; il mio Avvocato essendo avvezzo dalla sua giovinezza a difendere la falsità e l’ingiustizia, trovassi totalmente fuori del suo elemento, quando si tratta di parlare in favore dell’Equità, essendo che, come questa funzione gli riesce affatto nuova; senza dubbio ei vi si prenderà alla peggio, anche che volesse fare il suo meglio. Il secondo discapito è, che la natura del mio affare esigge che il mio Avvocato sia molto cauto; conciosiachè, come dall’impiego ditante persone dipende la loro sussistenza, se il mio Avvocato tratta la mia Causa in modo che l’affare resti immediate spedito, egli è certo d’attraersi, se non l’indignazione de’suoi Superiori, l’odio; per lo meno, de’suoi Confratelli, che lo risguarderanno come una spezie di serpente che si nutricano nel propio seno. Il caso in termini; io non ho che due metodi per conservar la mia Vacca. L’uno; di corrompere l’Avvocato della Parte avversaria, promettendogli duplicata mercede, e quest’artifizio naturalmente mi dee riuscire; poichè l’educazione, e il carattere del Personaggio onde si tratta, mi lascian l’adito di sperare ch’egli tradirà colui che d‘affidarsigli ebbe l’imprudenza. L’altro metodo è, che il mio Avvocato non insisti punto sopra la giustizia della mia Causa: anzi riconosca che la mia Vacca appartiene al mio Avversario; avendo l’evento mille volte dimostrato, che una gran prevenzione a favore del successo d’un litigio si è, quand’egli notoriamente è ingiusto.

E’una massima di questi tali, che tutto ciò che si è fatto per l’addietro, puossi far di nuovo legittimamente. Ecco perchè essi custodiscono in iscrittura con sommo scrupolo tutte le Sentenze già pronunziate; insino quelle che per ignoranza o per corruttella rovesciano le Regole più comuni dell’Equità e della Ragione. Tutte queste sentenze divengono in loro mani come tante Autorità, con le quali eglino procurano d’imbiancare i più neri deliti, e di giustificare le pretensioni più inique: E questa pratica lor riesce sì bene, che non e quasi possibile l’immaginare un Processo, in cui le due Parti, più d’una Decisione in propio favore ad allegare non abbiamo.

Nelle loro dispute, sfuggono con sommo studio di venir al fatto; ma in ricompensa, vorrebbono rinunziar piuttosto alla lor Professione, che ommettere la menoma Circostanza inutile. Per esempio; per ritornare al supposto da noi piantato, non s’informeranno già con qual diritto la mia Parte avversaria pretendi che la mia Vacca le appartenga; bensì se questa Vacca sia nera o bianca; se le sue corna sieno lunghe o corte; se il Prato in cui ella pascola sia tondo o quadro; a qual male ella sia suggetta, e così del resto; dopo il che consultano tutti i Decreti emanati in somigliante caso; intermettono a un altro tempo la decision della Causa, e d’intermissione in intermissione, venti o trent’anni dopo, dichiara il Giudice di chi sia la ragione o il torto.

E’d’uopo pur di riflettere che questi Signori anno un Gergo ch’è loro particolare; intelligibile per essi soli; e in questo Gergo sono scritte le loro Leggi. Principalmente per questo mezzo son riusciti in confondere il vero col falso, il giusto con l’ingiusto; e ne sono così eccellenti, che son capaci di disputare per trent’anni continui, per sapere se un Campo, il qual da sei generazioni ha appartenuto a’miei Bisavoli, sia di mia ragione o di quella d’uno Straniere, che d’esser mio parente non ha mai preteso.

Per ciò che spetta all’esame dagli Accusati di delitti di Stato, i processi non sono sì lunghi: imperocchè se que’che si trovano alla testa degli Affari ancora (come mai non mancano) di far appoggiare queste sorte di commissioni a persone di Legge, la cui compiacenza e l’abilità sono lor cognite; queste, immediate che comprendono le intenzioni de’lor Protettori, non differiscono di condannare o d’assolvere gli Accusati; e ciò senza inferire torto veruno ad alcuna delle forme prescritte dalla Legge.

M’interruppe a questo passo il Padrone per dirmi, ch’era ben un peccato, che Uomini tali, come questi Avvocati, che aveano tante conoscenze e tanti talenti, non si applicassero piuttosto a farne parte agli altri. Io risposi, che il loro mestiere rubava tutto il lor tempo, e che non aveano essi neppur il piacere di pensare a verun’altra cosa; Che ciò era sì vero, che fuori della lor Professione, erano ignoranti e stupidi più di quello che possa esprimersi: e che si avea riflettuto ch’erano nemici giurati di tutto ciò che conoscenza si appella, come se a scacciar la Ragione da tutte le Scienze dopo di averla bandita dal loro mestiere, determinati si fossero.

CAPITOLO VI.

Continuazione del discorso dell’Autore, sopra lo stato del suo Paese, sì ben govornato da una Regina, che vi si può far di meno d’un Primo Ministro, Ritratto d’un tal Ministro.

IL mio Padrone diede indizj di non prestar compiuta fede alle mie narrazioni, non potendo, come poscia il dichiaro, a verun patto comprendere per qual motivo gli Uomini di Legge si dessero mille fastidj, e formassero insieme una sorta di lega d’iniquità, non per altro che per conturbare gli Animali di loro spezie. Per vero dire, ei soggiunse, mi diceste ch’essi erano salariati a tal oggetto; ma somiglianti termini in me l’idea menoma non risvegliano. Per isciorre questa difficoltà, fui costretto di descrivergli l’uso della moneta, i materiali ond’ella lavoravasi, e il valor de’metalli. Dissigli, che quando un Yahoos aveva in sua propietà una gran somma di questi metalli preziosi, potea far acquisto di magnifiche vestimenta, di bei Cavalli, d’immense Terre, di squisite vivande, di graziose Femmine, di qualunque cosa di suo piacimento.

Che derivandone dal solo danajo sì maravigliosi effetti, i nostri Yahoos non credevano mai d’averne abbastanza per ispendere, o metter da parte, secondo che piegar gli facesse o alla profusione o all’avarizia la loro inclinazione: Che i Ricchi usufruttuavano degli stenti de’Poveri, e che questi eran mille contra uno, in comparazione di quegli: Che il grosso del nostro Popolo menava una vita miserabile, ed era obbligato di faticar tutto l’anno dalla mattina alla sera, per rendere provveduto un picciol numero d’Opulenti di tutto ciò che i loro capriccj, o la lor vanità lor suggerivano. Internaimi in una instruzione assai estesa su quest’argomento: Ma tanto e tanto il Padrone meglio non mi capì; essendosi intestato che tutti gli Animali fossero in possesso d’una sorta di diritto sopra le produzioni della Natura, e ben ispezialmente que’che agli altri presiedevano.

Cotal pregiudizio gl’inspirò la curiosità di sapere, in che consistessero quegli squisiti cibi che io aveva ricordati; e come potesse darsi che alcuno di noi ne restasse privo: E quì l’enumerazione gli feci di tutte quelle qualità che mi caddero sotto la memoria; del pari che delle differenti maniere di manipolargli; il che non potea eseguirsi senza la spedizione d’infiniti Vascelli per diverse parti del Mondo, affin di riportarne peregrine frutte, e liquori d’un gusto eccellente. Gli protestai, che conveniva far, per lo meno, tre volte il giro della nostra Terra, prima che una  delle nostre qualificate Femmine servita fosse d’una colezione che avesse tutti i suoi numeri. Ei disse, ch’esser dovea un assai sgraziato Paese quegli che nutricar non poteva i suoi Abitatori: Ma principalmente rendevalo attonito il riflettere, che una Regione, così estesa come la nostra, tanto penuriasse d’Acqua dolce, cosicchè il nostro Popolo a ritraere la sua bevanda per via di mare costretto fosse. Io replicai; che l’Inghilterra, mia diletta Patria, produceva tre volte più d’alimenti che i suoi Naturali confumarne potevano; che avea luogo la proporzione medesima a riguardo de’Liquori ond’essi si prevalevano per ispegnere la loro sete; e che questi liquori si componevano con la frutta di certi Alberi, riuscendo un’eccellente bevanda. Ma che per soddisfare all’intemperanza de’Maschj, e alla vanità delle Femmine, noi mandavamo in altri Paesi la maggior parte delle utili produzioni delle nostre Terre, per averne in concambio dello cose che non servivano che a procacciarci infermità, e che ad alimentare la nostra stravaganza e i nostri vizzi. Donde ne seguiva per necessità, che molti de’miei Compatriotti fossero sforzati di guadagnar la vita con infami o ingiusti mezzi; come sarebbe a dire, co’frutti, cogli spergiuri, con l’adulazione, col giuoco, con la menzogna, con l’arte di velenare, o con quella di pubblicar libelli. Non fu senza un grande stento, che mi riuscì di far comprendere al mio Padrone il senso di queste differenti espressioni.

Non è; continuava io, perchè ci manchino i liquori o l’acqua, ch’è portato il vino al nostro Paese; bensì, perchè questi è una bevanda che ci rallegra, che scaccia le nostre maninconie, aumenta le nostre speranze, scema i nostri spaventi, e ci priva per qualche tempo dell’uso d’una importuna Ragione; dopo di che non vi ha dubbio che non c’immergiamo in un sonno profondo; comechè confessar si deggia che quasi sempre ci risvegliamo malati; e che l’uso d’un tal liquore sia per noi una sorgente feconda d’incomodità, che accorciano la nostra vita, e la nostra sanità ruinano.

I più di nostra Nazione campano la vita somministrando alle persone ricche, e un generale a tutti que’che anno con che pagare le loro mercatanzie o i loro travaglj, somministrando, dico, tutte le cose che lor bisognano. Per esempio; quando io sono presso la mia Famiglia, ed abbigliato come essere il deggio, porto sopra il mio corpo gli stenti di più di cento Operaj; la struttura e l’adobbamento della mia Casa il doppio ne vogliono; e innanzi che mia Moglie sia guernita da’piedi infino al capo, non bastano mille.

Io stava per discorrergli d’un’altra foggia d’Uomini che si applicano a guarire i mali del corpo, giacchè ebbi l’occasione di dire a lui che molti de’miei Marinaj erano morti di malattia: Ma non può credersi la mia pena per farmi capire. Ei ben comprendeva, diceva egli, che un Houyhnhnm, alcuni giorni prima della sua morte diveniva debole o languido: ovvero per disgrazia in qualche modo piagavasi: Ma sembravagli impossibile che la Natura, la qual affettuosamente è sollecita per tutte le sue opere, generar possa ne’nostri Corpi tanti incomodi e tanti mali; e di spiegargli un sì singolare e sì bizzarro Fenomeno mi pregò. Gli replicai; che non era difficile lo scioglimento di questo problema, e che la sregolatezza del nostro vivere era la sola cagione delle nostre infermità: Che noi mangiamo quando non abbiamo fame, e che bejamo senza aver sete: Che passiam l’intere notti tracannando gagliardi liquori senza prendere cibo di sorta; il che appiccava al nostro corpo un incendio, e precipitava la degistione o l’impediva: Che Yahoos Femmine, dopo d’essersi prostituite per qualche tempo, contraevano certe dolorose malattie, ch’elleno comunicavano a que’che commerzio aveano con esso loro: Che queste e molte altre malattie trasfondevansi da Padre in Figliuolo; che se si avesse voluto, non si avrebbe mai composto un esatto Catalogo de’malori tutti onde il Corpo umano è suggetto; poichè non aveavi parte veruna che in sua spezieltà cinque o secento non ne annoverasse: Che l’intensa brama che abbiamo della nostra guarigione, moltiplicati avea fra noi gli Medici, e vale a dire, Uomini che si fanno un punto d’onore di risanare gl’Infermi. Per anni molti, soggiunsi, sono mi applicato a questa Scienza, la qual, per altro, ha qualche affinità con la mia Professione; e perciò posso dire senza vanità, che mi è noto il metodo tenuto da questi Signori nelle loro cure.

Loro gran principio si è: Che tutte le Malattie derivano da Ripienezza; donde conchiudon eglino, che per guarire le indisposizioni nella loro sorgente, conviene che il Corpo pratichi Evacuazioni, sieno pel passaggio naturale, o pel vomito. A tal effetto, si accingono a comporre di molte Erbe, di Minerali, di Gomme, d’Olj, di Conchiglie, di Sali, di Escrementi, di Corteccie d’Alberi, di Serpi, di Rospi, di Ranocchj, di Ragnoli e d’Ossa d’Uomini morti, il più abbominevole e nauseante estratto che lor sia possibile: Estratto, che sul fatto stesso è renduto dallo stomaco: e quest’è ciò ch’essi chiama Vomitivi: oppure a quest’ammirabile mischiamento aggiungono alcune attossicate Droghe, che che ce le fan prendere (secondo la fantasia del Medico) o pel di sopra o pel di sotto, e un tal rimedio sconvolge sì crudelmente gli budelli, che questi poco men che con la stessa pontualità dello stomaco, il restituiscono; e ciò in loro lingua una Purga o un Cristero si appella. Essendo che la Natura (come riflettono i Medici) ha destinata la bocca all’Intromissione del mangiare e del bere, e un’altra parte alla loro Ejezione: quindi conchiudono questi Signori con grande ingegno, che essendo la Natura in queste infermità fuori della sua Situazione, conviene, per rimetterla, curar il Corpo in un modo direttamente opposto all’instituto di lei; cioè, introdurre certi composti pel di sotto, e far uscire ciò che si ha negl’intestini, per la bocca.

Ma oltra le reali infermità, siam sottoposti a molte altre, che sono puramente immaginarie, e per le quali i Medici anno inventato rimedj del genere medesimo. An per tanto questi rimedj i loro nomi, perchè i mali ne anno altresì: ed è da questa sorta di mali che le nostre Yahoos femmine, sono assalite. Soprattutto sono eccellenti in pronostici i nostri Medici, e di rado lor succede che s’ingannino: poichè nelle malattie reali e alquanto maligne, predicono quasi sempre, che l’Infermo ne morrà, perchè il verificar il detto sta in loro arbitrio: laddove non è in poter loro la guarigione: Ed ecco perchè sempre si corre gran risico nelle loro mani, immediate che tanto an eglino fatto di pronunziare al fatal sentenza, non volendo essere mentori.

Son essi eziandio d’una grande utilità a que’Mariti, e a quelle Mogli che non si amano, a Primogeniti, a Ministri di Stato, e sovente a Principi.

Io avea già per l’addietro avute alcune conversazioni col mio Padrone sopra la natura del Governo in generale, e peculiarmente del nostro, ch’è l’oggetto dello Stupore e dell’Invidia di tutto l’Universo: Ma uscitomi a caso il vocabolo di Ministro di Stato, ei mi ordinò di dirgli quale specie di Yahoo io propiamente disegnava con questo termine.

Gli risposi, che la nostra Regina essendo esente d’ambizione, e non avendo il menomo prurito d’accrescere la sua possanza a spese de’suoi Vicini o a pregiudizio de’propj suoi Sudditi, era sì lontana dall’aver bisogno d’alcuni Ministri corrotti per eseguire o ricuoprire qualche sinistro disegno; che anzi, pel contrario, ogni suo disegno era diretto da lei a vantaggio del suo Popolo; e che ben lunge dall’affidar interamente a qualche Favorito o a qualche Ministro la sua autorità, sommetteva l’amministrazione de’suoi Ministri o de’suoi Favoriti al più severo esame del suo Maggiore Consiglio. Ma io aggiunsi, che sotto alcuni precedenti Regni, e attualmente in qualche Corte dell’Europa, aveavi qualche Principe inoffizioso, ma schiavo del proprio piacere; il qual trovando per esso lui troppo pesanti le redini del Governo, rimette vale nelle mani d’un Primo Ministro: di cui per quanto il potei conchiudere, non solamente dalle Azioni di coloro che sono stati onorati di quest’impiego, ma eziandio da molte Lettere, da molte memorie, e da molti Scritti pubblicati da essi medesimi e contro a’quali fin al presente chi che sia non ha protestato in contrario, eccone un fedele Ritratto.

Un Primo Ministro, (già s’intende d’un Primo Ministro di cattiva intenzione, non mancandone di buoni, anzi d’ottimi) è un Uomo affatto immune da Giocondità e da Maninconia, da Amore e da Odio, da Compassione e da Collera: tutte le sue passioni, in una insaziabile sete di possanza, di ricchezze e d’onori consistono. Servesi egli del talento, del discorso come gli altri Uomini, con questa picciola differenza pero, che non parla mai per dichiarar ciò che egli pensa: Non pronunzia mai una verità, che col secondo fine che voi la prendiate per una bugia: ne una bugia, che con l’intenzione che la spacciate per una verità. Quegli ond’ei mormora in loro assenza, son vicini a un avanzamento, e subito ch’ei comincia a lodarvi o sulla vostra faccia, o sull’altrui fate conto d’essere perduto nell’istante stesso. Il men equivoco contrassegno della propria disgrazia è, quando impegniti con esso voi in qualche promessa, e soprattutto quando questa promessa sia confermata dal giuramento: Mercè che in un tal caso un Uomo saggio si ritira, e alle sue speranze rinunzia.

Sonovi tre maniere, per le quali un Uomo d’indole pessima pervenir può al Posto di Primo Ministro. La prima: procurando che certe persone, o Moglie, o Figliuola, o Sorella, abbiano un onesto compiacimento per gli desideri del Principe: La seconda; tradendo, o intentando di soperchiare il suo Predecessore: e declamando con furioso zelo contra la corruttela della Corte nelle Pubbliche Ragunanze, la terza. Questi Ministri, spezialmente que’che sono dotati di quest’ultimo carattere, di tutti gl’Impieghi disponendo, anno una maravigliosa facilità in guadagnare il maggior numero de’suffragj in un Consiglio, e conservano con questo mezzo la propia Autorità; e alla peggio; un Atto di general indulto (ond’io ne descrissi la natura) gli mette a coperto da qualunque inquisizione: dopo di che prendono essi congedo dal Publico, carichi delle spoglie della Nazione.

Il Palazzo d’un Primo Ministro di depravato genio è un semenzajo, ove altri se ne formano: I Paggj, gli Stafieri ed il Portiere imitando il Padrone loro, divengono tanti Ministri di Stato ne’loro diversi Appartamenti, ed imparano a segnalarsi in tre cose: in insolenza; nell’Arte di mentire, e in quella di corrompere quegli ond’eglino pretendono di valersi per adempire i loro infami divisamenti. Molte persone di Carattere fanno regolarmente la loro Corte a questi Signori; i quali talvolta, a forza di destrezza e di sfaciataggine, anno la buona sorte di succedere al loro Padrone.

Per ordinario, un cattivo Primo Ministro è governato da una Vecchia Innamorata o da un Cameriere zerbino, e costoro sono i due canali per cui scorrono tutte le grazie, e che propiamente, i Supremi Reggenti del Regno, chiamar si potrebbono.

Disputando un giorno col mio Padrone sopra la Nobiltà del mio Paese, ei mi fece un complimento che io non aspettava. Son persuaso, mi disse, che voi siate uscito di qualche Famiglia Nobile; poichè in figura, in colore e in proprietà superate tutti gli Yahoos di nostra Nazione, tutto che lor cediate in forza e in agilità; il che attribuisco alla differenza che vi ha fra il vostro modo di vivere, e quello degli altri Bruti: ma vie più crescono le mie prevenzioni a favor vostro, scorgendo che siete dotato non solo dalla facoltà di parlare, ma altresì di alcuni principj di Ragione. Fra noi, continuò egli, gli Houyhnhnms bianchi, gli Sauri, i Bigj, non sono così ben fatti come i Baj, come i Leardi ruotati, e come i Neri, e neppure non nascono con tanti talenti d’Anima, nè con tanta capacità per approffitarsene; ed ecco perchè sieno destinati a servir agli altri senza aspirar giammai alla menoma Autorità; il che presso noi sarebbe un non so che di mostruoso.

Umilissimamente il ringraziai della buona opinione ch’egli aveva di me: ma rendeilo nello stesso tempo assicurato che tutt’altro che illustre era il mio nascimento, dovendo il viver mio ad onorati Borghesi, provveduti appena de’sufficienti mezzi per la passabile mia educazione: Ch’era altra cosa nel nostro Paese la Nobiltà, di quel che il fosse nel Paese di lui: Che i nostri Giovani di qualità erano allevati nell’infingardia e nel lusso: Che immediate pervenuti a un certo numero d’anni, consumavano il loro vigore, e pel commerzio di alcune prostituite donne, malori infami contraevano: Che avendo scialacquate poco men che tutte le loro sostanze, si ammogliavano con qualche femmina del comune, unicamente pel danajo di lei, senza aver mai per essa, nè prima, nè dopo il maritaggio, il più leggier sentimento di benevolenza o di stima: Che da questi disuguali accoppiamenti era prodotta una difforme e mal sana figliuolanza: donde ne veniva che quasi mai una Famiglia di somigliante razza, non toccasse la quarta generazione: se pure non avesse attenzione la Sposa di scegliere fra’suoi Vicini, o fra suoi Amici, un Padre di buona consistenza; il tutto per motivo della sanità della prole di lei: Che un corpo mal composto, un’aria infermiccia, e una faccia pallida e smunta, erano gli ordinarj contrassegni d’un Uomo del più sublime carattere; laddove una sanità d’Atleta in un Uomo qualificato, forma la più diffamante di tutte le presunzioni contra la saggezza di sua Madre.

CAPITOLO VII.

Amor dell’Autore per la sua Patria. Riflessioni del Padrone di sopra il Governo dell’Inghilterra, tale che avealo descritto l’Autore; con alcune comparazioni e con alcuni paralelli sopra il medesimo Argomento. Osservazioni dell’Houyhnhnm sopra la Natura umana.

STupiranno forse i miei Leggitori che io fossi così sincero sull’Articolo degli Uomini, parlandone a una Creatura, in cui la mia rassomiglianza cogli Yahoos del Paese, impressa già avea una pessima opinione della Natura umana. Ma ingenuamente confesserò loro, che le numerose virtù di quegli ammirabili Houyhnhnms, contrapposte a’vizzi nostri innumerevoli, aveanmi a un segno aperti gli occhi, che a ravvisar cominciai le Azioni e le Passioni degli Uomini in un modo totalmente nuovo, e a toccar con mano che l’onore della mia spezie il menomo risparmio più non meritava. Oltrechè impossibile riuscito mi sarebbe d’imporne a una persona di sì perspicace discernimento come il mio Padrone, il qual ogni giorno mi facea avvedere degli sbagli che io prendeva; sbagli che io non avea mai raffigurati, e che fra noi non si registrerebbono neppure nell’Indice delle umane fragilità. Aggiugnete, che l’esempio del mio Padrone stesso aveami inspirato un perfetto orrore per tutto ciò che falsità o dissimulazione dinominasi; e che mi sembrava sì amabile la Verita, che come fosse possibile che se le mancasse di fedeltà o di rispetto, io comprendere non poteva.

Ma aveavi, se ardisco di dirlo, un motivo di maggior forza, che mi spronava a un tal eccesso di candidezza. Dopo appena un mio soggiorno d’un anno nel Paese, concepì tanto amore e tanta venerazione per gli Abitatori, che risolutamente mi determinai di più non rivenire fra gli Uomini, e di passar il resto del mio vivere fra que’virtuosi Houyhnhnms; il cui esempio e il cui commerzio aveano di già prodotti sopra di me sì felicissimi effetti. Ma la fortuna, eterna mia nemica, a mio dispetto, fra gli Yahoos di mia spezie mi ricondusse. Con tutto ciò, egli è una sorta di mia presente consolazione, quando penso, che in ciò che dissi de’miei Compatriotti, scemai i difetti loro per quanto io osava sulla faccia d’un Uditore sì intelligente, e che a cadaun articolo diedi un tornio il più favorevole ch’egli poteva esigere: perocchè, per vero dire, io credo che al mondo Uomo non siavi interamente immune di parzialità a riguardo della sua Patria.

Ho riferite in sostanza le diverse conversazioni ch’ebbi col mio Padrone pel più del tempo che con mia gloria passai in servigio di lui: Conversazioni, che furono assai più lunghe, ma che quì non ne ho esteso che un solo compendio, per timore di recar tedio a chi legge.

Risposto ch’ebbi a tutte le sue Quistioni, e che parvemi pienamente soddisfatta la sua curiosità, mandò egli un giorno, di buon’mattino, a cercarmi; e dopo di avermi ordinato di sedere, (onore che fin allora ei non mi avea impartito) disse, di aver con attenzione riflettuto sopra tutta la mia Storia, per quanto aveva ella rapporto a me e al mio Paese: Ch’ei ci riputava come Animali, a cui, senza saperne il come, era toccata in retaggio una picciola porzion di Ragione, onde noi non ci serviamo che in aumento de’nostri vizzi Naturali, e in acquisto di nuovi, non impressici mai dalla Natura: Che noi ci svestiamo de’pochi talenti ch’ella ci avea accordati; ma che in ricompensa, a moltiplicar gli difetti e le nostre necessità, avevamo perfettamente riuscito: Che per quanto toccava a me, egli era un’evidenza che io non avea nè la forza, nè l’agilità d’un Yahoo comune: Che l’affettazione di camminare sopra i soli piedi di dietro, esponevami al risico di cadere ad ogni instante: Che io avea rinvenuta l’Arte di togliere il pelo dal mio mento che la Natura aveavi collocato per difendere quella parte contra il calore del Sole, e contra il rigore del freddo: Finalmente, che io non poteva nè correre velocemente, nè rampi carmi sugli Alberi come i miei Fratelli, (quest’è il nome ch’ei compiacquesi d’impor loro) gli Yahoos di quel Paese.

Che il nostro Governo e le nostre Leggi supponevano necessariamente in noi grandi sbagli di Ragione, e perciò anche di Virtù, mercè che per governare una Creatura ragionevole basta la sola Ragione; donde ne proveniva ad evidenza, che a gran torto ci arrogavamo noi il titolo d’Animali di ragione dotati; come si rilevava da tutto ciò che io stesso de’miei Compatriotti narrato avea; tutto che egli ben avesse osservato, che per conciliar loro la propia sua stima, io avea occultate molte particolarità che lor nuocevano, e sovente detta la cosa che non è.

L’aver egli riflettuto, che se da un canto io rassomigliava agli Yahoos per rapporto alla figura del Corpo, dall’altro questi Bruti aveano una gran conformità con noi a riguardo delle inclinazioni e delle qualità dell’Anima, lo stabilivano in un tal risentimento. Dissemi, ch’era una cosa più che costante che gli Yahoos fomentano maggior aversione gli uni per gli altri, che per alcuni Animali d’un’altra spezie; e che la ragion che rendevasi, si traeva dalla loro difformità, la qual da tutti era ravvisata negli altri, senza che il fosse in se medesimi: Che per questo motivo parevagli d’essere appagato del nostro ritrovamento di cuoprirci il corpo; essendo che, mercè un somigliante antivedimento, esibivamo agli altri minor incentivo di concepire contra di noi quella sorta d’odio ch’è cagionato dalla laidezza: Ma che al presente egli accorgevasi del propio inganno, e che le dissensioni di queste bestie nel suo Paese aveano la stessa origine che le nostre, secondo la mia rappresentazione. Imperocchè, disse egli, se voi gittate a cinque Yahoos tanto nutrimento che ne vuol per cinquanta; invece di mangiare in buona pace, si tireranno le orecchie, procurando ognuno d’essi d’aver ogni cosa per se solo; e che per questa ragione un servidore stava sempre presente quando gli Yahoos mangiavano ne’Campi; quando, per altro, dentro in casa, in una buona distanza gli uni dagli altri, legati si tenevano: Che se una Vacca, o per vecchiezza, o per accidente, veniva a morire; innanzi che un Houyhnhnm potesse farla trasferire alla sua abitazione per darla in pasto a’propj suoi Yahoos, correvano a truppe que’del Vicinato per divorarla; donde seguivane una zuffa, tale che io avea descritta; comechè di rado accadesse che si ammazzassero l’un l’altro; non già per mancanza di buona volontà, bensì di strumenti convenevoli: Che si sono talvolta gli Yahoos di confine diverso data battaglia, senza che veruna cagion visibile scoprir si potesse; guatando sempre que’d’un Distretto l’opportunità di sorprendere quegli d’un altro: Che se lor fallisce il progetto, se ne ritornano; e non avendo nemici a mordere, si mordono gli uni gli altri, e si sbranano.

Che in certi Campi del suo Paese vi erano lucenti Pietre di colori diversi, che gli Yahoos furiosamente amavano; e che come queste Pietre si sprofondavano talvolta in terra, passavan essi le intere giornate a scavare con le loro zampe per ritrarnele, e dappoi ne’loro canili le nascondevano; riputando come la massima di tutte le disgrazie, che alcuno di loro Camerate, fiutasse il soro tesoro. Aggiunse il mio Padrone: Che non eragli mai riuscito di trovar la ragione del loro amore per queste Pietre, nè di qual uso elleno esser potessero per un Yahoo; ma che cominciava a credere che ciò provenisse dal principio medesimo d’Avarizia, che io avea attribuito alla Natura Umana: Che un giorno, per modo di pruova, egli avea tolto un monticello di Pietre stesse da un luogo, ove uno de’suoi Yahoos le avea sotterrate; che alcune ore dopo quest’Animale, trovando il suo Tesoro asportato, si era messo a gettare spaventevoli gridi, e avea dati segni della più profonda tristezza; che non avea voluto nè mangiare, nè dormire, nè lavorare, finattanto che il Padrone ordinato avesse ad un servidore di rimettere segretamente nel loro luogo queste Pietre; il che eseguito appena il Mostro le ritrovò, e ritrovò con esse la giocondità sua primiera; ma fu sì cauto, che meglio le nascose, e da quel tempo innanzi egregiamente servì.

D’una cosa, in oltre, mi assicurò il Padrone, e che io stesso, ebbi l’incontro di confrontare ed è, che in que’Campi ove si produceva maggior quantità di queste lucenti Pietre, seguivano i più frequenti e i più crudeli conflitti.

Dissi; ch’era una cosa ordinaria, quando due Yahoos scoprivano una somigliante Pietra in un Campo e venivano alle mani per possederla, che un terzo si gettasse sul suggetto del contrasto, e per esso lui se l’asportasse; il che, per quanto pareva al mio padrone, mal non assomigliavano alla Spedizione de’nostri Processi: e per verità non credei a proposito di contraddirgli; poichè il procedere del terzo Yahoo, era più giusto che molte sentenze de’nostri Giudici; essendo che al saldar de’Conti, cadauno de’due Yahoos non perdeva che la Pietra per cui battevansi; laddove nelle nostre Corti di Giustizia è forza di pagar il Giudizio, che delle nostre pretensioni ci priva.

Il Padrone proseguendo il suo ragionamento, si spiegò; che non aveavi cosa che rendesse gli Yahoos più abbominevoli, quanto quell’universale avidità, con la quale eglino divorano tutto ciò che cadeva loro fra l’ugne, o fosser erbe, o radici, o biada, o carne d’animale, oppure tutte queste cose confuse insieme: E che si avea osservato, come peculiare lor bizzarria, che amavan piuttosto di camminar alcune leghe per andar in busca d’un alimento mediocremente cattivo, che di averne un buono tutto lesto presso di se. Oltracciò, che sono insaziabili; e quando il possono, mangiano fin a crepare; masticando poscia una certa radice, che loro cagiona una generale evacuazione.

Vi è pure un’altra sorta di radice assai sugosa, ma che è assai difficile a ritrovarsi, per cui impazziscono gli Yahoos, e che succiano con infinito piacere, producendo in loro gli effetti medesimi che il Vino in noi; e vale a dire che si abbracciano, che si dan bastonate, che urlano, chiacchierano, per terra dimenansi, e di poi si addormentano nel fango.

Notai io medesimo che gli Yahoos sono i soli Animali del Paese che sien suggetti ad alcune infermità; le quali, non ostante, sono in assai minor numero di quelle de’nostri Cavalli, e non derivano punto dal pessimo trattamento che lor si pratica, bensì dalla loro immondezza e dalla loro ghiottoneria.

Per quello spetta alle Scienze, alle Leggi, all’Arti, alle Manifatture, e a molte altre cose di simil genere, confessò il mio Padrone che non rinveniva quasi conformità veruna fra gli Yahoos del suo Paese ed i nostri; ma che in ricompenza trovava una perfetta rassomigliansa nelle nostre inclinazioni. Per vero dire, diceva, avea egli inteso da alcuni Houyhnhnms, ch’essi aveano osservato che molte Truppe di Yahoos erano provvedute d’una spezie di Comandante, assai agevole a distinguersi dagli altri, perchè sempre egli era il più mal composto e il più tristo: Che per ordinario questo Comandante avea un Favorito il qual rassomigliavagli al possibile, e il cui impiego era di leccar i piedi, e il di dietro del suo Signore, e di condur Yahoos femmine nel canile di lui; il che di tempo in tempo fruttavagli qualche buon ritaglio di carne d’Asino. E’odiato questo Favorito da tutta la Truppa; ed ecco il perchè, affin di mettersi al coperto dal risentimento di lei, ei si tenga sempre il più che può, vicino alla persona del suo Comandante; il qual mantienlo nel suo posto, finchè abbia trovato un Favorito più sordido e più cattivo di lui: ma altresì nell’instante stesso gli da il congedo; e il successore, egualmente che tutti gli Yahoo; del Distretto, Giovani, Vecchj, Maschj e Femmine, vengono in corpo, e scaricarono sopra di lui, dalla testa infino a’piedi le loro lordure. Non è improbabile, aggiunse il mio Padrone, che ciò che or ora ho detto, possasi applicare, fin a un certo segno, alle vostre Corti, a’vostri Favoriti, e a’vostri Ministri di Stato: ma meglio di me voi giudicar ne potete.

Non ardj di batter becco sopra una sì maligna insinuazione, la qual costituiva l’umana intelligenza assai al di sotto della sagacità d’un Cane comune, che ha l’abilità di distinguere la voce del miglior Cane della Muta, senza ingannarsi mai.

Instruimmi il Padrone che negli Yahoos regnavano certe ragguardevoli qualità: ond’io non gliene avea fatta menzion di sorta; per lo meno, che io avea toccate assai di passaggio, in parlandogli degli Yahoos di mia spezie. Mi disse che questi Animali, come gli altri Bruti, aveano le femmine loro in comune; con questa differenza però, che la Yahoo femmina soffriva il maschio, finchè restasse incinta; e che i maschj combattevano con tanta perfidia contra le femmine, del pari che contra quegli del loro sesso: due cose ch’erano d’una brutalità senza esempio.

Un’altra odiosa singolarità ch’egli notata avea negli Yahoos era, l’eccessivo lor sucidume in tempo che tutti gli altri Animali sembravano animatori della pulitezza. Quanto alle due prime accuse, gradj molto di lasciarle passare senza risposta; perchè per altro io aveva nulla a dire. Ma per la terza, avrei ben potuto ripigliar facilmente, se nel Paese stato vi fosse un solo Porco, che non vi era per mia disgrazia: Essendo che, non ostante che quest’Animale sia per altro più amabile d’un Yahoo, sarebbevi, a parer mio, parzialità nell’asserire ch’ei fosse più pulito: del che il Padrone si sarebbe convinto egli medesimo, se veduto avesse tutto ciò che mangiano queste bestie, e con qual voluttà nel letame dimenarsi.

Accennò altresì il mio Padrone un altra qualità che i suoi domestici ravvisata aveano in molti Yahoos, e che parevagli inesplicabile. Disse, che talvolta saltava in capo ad un Yahoo di ritirarsi in un cantone, di mettersi ad urlare, e di dar de’colpi di piede a tutti quegli che se gli accostavano, tutto che fosse giovane, si portasse bene, e che avesse il suo bisogno di mangiare e di bere: Che non poteano immaginarsi i suoi servidori qual mosca l’avesse punto: E che il solo rimedio ch’essi sapevano, era di farlo ben lavorare; perchè riflettuto aveano che una fatica alquanto laboriosa, dissipava insensibilmente questa spezie di fantasie. La mia svisceratezza per l’Uman Genere quì m’impose il più profondo silenzio; comechè molto bene io distinguessi in ciò che io avea inteso, quelle sorte di capriccj, che produconsi dall’infingardia, dalla lussuria, e dalle ricchezze: Capriccj, ond’io mi comprometterei di guarire alcuni miei Compatriotti con la medesima Regola di governo.

Il Padrone avea eziandio osservato, che sovente qualche Yahoo femmina mettevasi dietro d’una motta di terra, overo dietro d’un cespo: che quando passavano certi giovani maschj, ella veder si faceva per metà, gli eccitava con morfie poi fingeva di nascondersi; e che allor quando un maschio si avanzava, ella piano piano ritiravasi volgendosi allo spesso al’indietro, e se ne suggiva con affettato spavento in qualche opportuno luogo, dove erale noto che il maschio l’avrebbe seguita.

Tal altra volta, se una femmina straniera capita presso loro, tre o quattro del suo lesso la circondano, la spiana da capo a piedi, civettansi l’une l’altre, e poscia con un’aria sdegnosa e di disprezzo ivi la piantano.

Può essere che in queste specolazioni del mio Padrone entrasse alquanto di sottigliezza Con tuttocciò, non fu senza una spezie di stordimento e altresì di rammarico, che io meditai che fosse forse un instinto delle femmine l’essere Invidiose, Vane, e Libertine.

Ad ogni instante stavami aspettando che il Padrone fosse per accusare gli Yahoos d’amendui i sessi di certi sregolati appetiti, che affatto affatto non sono incogniti fra noi. Ma di ciò nulla mi disse.

CAPITOLO VIII.

Particolarità concernenti gli Yahoos. Eccellenti qualità degli Houyhnhnms. Qual sia la loro educazione, e in quali esercizj nella lor giovinezza s’impieghino. Loro Assemblea generale.

COme naturalmente meglio che il mio Padrone doveva io conoscere la Natura umana, facile mi riusciva di applicarne a me medesimo e a’miei Compatriotti le lezioni. Per maggiormente instruirmi, il pregai di permettermi di passar alcuni giorni fra gli Yahoos del Vicinato; il che con bontà egli mi accordò; essendo bastevolmente persuaso che l’aversione che io nutriva per quelle bestie, non avrebbe lasciato impeciarmi del loro esempio, e oltracciò, ingiunse a uno de’suoi domestici, ch’era un Caval Sauro vigorosissimo, e d’un gregio naturale, di non abbandonarmi mai, e di guerentirmi dagl’insulti degli Yahoos; i qualli credendomi di loro spezie, mancato non avrebbono d’assaltarmi, pel principio medesimo che instiga le cornacchie di boscho a gettarsi sopra le domestiche, quando esse ne incontrano.

Fin dalla prima lor giovinezza sono agili prodigiosamente gli Yahoos; ma al dispetto d’una tal qualità, mi riuscì un giorno di mettere le mani addosso ad un giovane maschio di tre anni, e procurai con tutti i possibili contrassegni di amistà d’addomesticarlo: Ma il picciolo diavolo posesi ad urlare e a mordermi con tanta violenza, che fui costretto di lasciarlo andare; e n’era ben tempo; perciocchè il suo urla mento attratta avea tutta la Truppa de’vecchj, i quali, trovando che io non avea fatto male di sorta al giovane, e che il Caval Sauro era accosto accosto di me, nel loro dovere si tennero.

Per quanto ravvisar potei, mi son paruti gli Yahoos i più indocili di tutti gli Animali, e solo idonei a portare o a strascinare fardelli. Non ostante; io penso che un tal difetto provenga principalmente dalla loro ostinazione; che per lo resto, son eglino astuti, maliziosi, traditori e vendicativi. Sono forti e robusti, ma codardi; e per questa ragione medesima, insolenti, rampanti e crudeli. Si è osservato che que’di pelo rosso dell’uno e dell’altro sesso, son più lascivi e più mariuoli degli altri, e che gli superano eziandio in forza, e in agilità.

Gli Houyhnhnms tengono un certo numero di Yahoos dentro a capanne vicino alle loro Case, e ne ritraggono qualche servigio, in cui impiegar non vogliono i propj Domestici: Quanto agli altri, gli mandano in certi campi, ov’essi vanno in traccia di radici, d’erbaggj e di carogne per alimentarsi. E’grande altresì la destrezza loro nel cacciar donnole e Luhimuhs, (sorta di sorcio selvaggio,) ch’essi divorano con una golosità che non può esprimersi. Gli ha ammaestrati la Natura a scavarsi in terra delle buche di tal ampiezza, che la maggior parte può contenere il maschio, la femmina, e tre o quattro de’loro figliuoli.

Dalla loro infanzia nuotano come tanti ranocchj, e per molto tempo possono stare sott’acqua; il che reca loro il modo di prendere sovente de’pesci, che le femmine portano a’loro piccini: E su questo proposito un’Avventura assai piacevole mi accadde.

Un giorno che col mio Protettore, il Cavallo Sauro, trovavami fuori, e che faceva un gran caldo, il pregai che mi permettesse di lasciarmi bagnare in una riviera, presso cui noi eravamo. Ei se ne compiacque, e allora mi spogliai e mi gettai a nuoto. Per mia disgrazia una giovane Yahoo, che tenevasi occultata dietro un’eminenza, vide tutto ciò che io faceva, e infiammata da un non so qual prurito, per quel che conghietturammo il Sauro ed io, venne nuotando verso il luogo ove io mi bagnava. Non ebbi mai per tutta la mia vita un somigliante spavento, e il mio Difenditore quindi stavasene in qualche distanza, non sospettando neppure la possibilità d’un infortunio di questa fatta. Ella abbracciommi con un modo assai significativo; ed io mi messi a gridare sì orribilmente, che il mio Protettor mi sentì, e venne di galoppo alla nostra volta: del che ella appena se ne avvide, che mi lasciò, tutto che con l’ultima ripugnanza, e si adagiò sull’eminenza opposta, urlando per tutto il tempo che mi riabbigliai. Fu questi un suggetto di divertimento pel mio Padrone e per tutta la sua Famiglia, del pari che di mortificazione per me: Essendo che io più negar non poteva d’essere un vero e reale Yahoo, giacchè le femmine aveano per me una propension naturale, come per uno di loro spezie. Ed è cosa vie più notabile, che colei onde io parlo, non era di rosso pelo, (il che scusar potrebbe un alquanto irregolare appetito,) bensì di pelo nero, e neppure sì affatto spaventevole come le altre femmine di sua razza; credendo io che’ella gli anni undici di età non eccedesse.

Avendo io soggiornato trenta e sei mesi in quella Regione, è giusto che ad esempio degli altri Viaggiatori, instruisca chi legge delle maniere e delle costumanze di quegli Abitanti, alla conoscenza di cui particolarmente mi sono applicato. Come per natura gli Houyhnhnms sono inclinati alla pratica di tutte le virtù che convenir possono a una ragionevole Creatura, loro gran principio si è, ch’è d’uopo coltivar la Ragione, e non lasciarsi governar che da lei. Presso loro non è mai la Ragione una casa problematica, sopra la quale si abbia campo d’allegare plausibili argomenti d’ambe le parti, bensì sempre le colpisce con la sua evidenza; e ciò ella dee naturalmente fare, quando il suo lume, o dalle passioni, o dall’interesse non sia oscurato. E mi ricordo a questo proposito, che con estrema difficoltà ottenni di far comprendere al mio Padrone il senso del termine Opinione; o come un punto essere potesse disputativo, insegnandoci la Ragione a non affermare o a non niegare se non ciò di che siamo certificati. Ora, immediate che non vi ha certezza di sorta, esservi non potrebbe nè affermazione, nè negazione: Cosicchè le controversie, le dispute, e il tuono decisivo sopra false o dubbiose proposizioni, sono fra gli Houyhnhnms mali incogniti.

Similmente quand’io spiega vagli i nostri differenti sistemi di Filosofia Naturale, ei si metteva a ridere, perchè una Creatura, la qual si arrogava; il titolo di Ragionevole, si facesse gloria di sapere le conghietture dell’altre, e ciò in cose, in cui questo sapere, quando pur fosse di buona lega, non poteva servire a nulla. E in questo egli entrava totalmente ne’sentimenti di Socrate, tali che da Platone ci son riferiti: il che io registro come un tratto d’Elogio per quel Principe de’Filosofi: Considerai dappoi molte volte, qual infinito torto inferirebbe questa massima a’Libraj dell’Europa, e altresì al concetto di molti Letterati.

L’Amicizia, e la Benevolenza sono le due Virtù primarie degli Houyhnhnms: e non sono già ristrette in alcuni particolari oggetti queste Virtù, ma sopra tutti gli individui della Razza diffondonsi. Il più straniero Cavallo vi è trattato nel modo stesso come il più prossimo Vicino, e ovunque ei vada, e sempre come in sua propia Casa. Con la più esatta precisione osservan essi le Leggi della Decenza e della Civiltà; ma assolutamente non capiscono ciò che presso noi dicesi Complimento. Non anno tenerezza di cuore per gli loro Puledri; e la cura che prendono di loro educazione, è unicamente della loro Ragione un effetto. E io vidi il mio Padrone palesare per gli Puledri del suo Vicino l’affetto medesimo ch’egli aveva per gli suoi propj. Pretendono che la Natura insegni loro ad amare in generale tutta la spezie, e che la Ragione non sappia distinguere gli Uomini, gli uni dagli altri, se non quando essi si sappiano far distinguere nell’esercizio delle Virtù.

Allorchè le Mogli delli Houyhnhnms an dato alla luce due Puledri, cioè uno dell’uno, e uno dell’altro sesso, non anno più commerzio co’loro Mariti, purchè lor non avenga di perdere uno de’loro figliuoli, il che assai di rado succede: Ma in questo caso elleno si riuniscono; oppure, se l’accidente avviene a un Houyhnhnms la cui Moglie non sia per istato di fecondità, qualche Amico gli fa regalo d’uno de’suoi figliuoli, e travaglia poscia a riparare questa perdita volontaria. E’necessario un tal avvedimento per impedire che il Paese non troppo sia popolato. Ma questa regola non risguarda già gli Houyhnhnms d’una razza inferiore; essendo lor permesso di procreare tre Puledri di cadaun sesso, per servir di Domestici nelle Famiglie Nobili. 

Ne’Maritaggj son eglino attenti che i colori de’due partiti non facciano un’ingrata mischianza nella loro posterità. La forza è il carattere che più pregiasi nel maschio, e la bellezza nella femmina: non mai per un principio d’Amore bensì affine d’impedir che la Razza degeneri; con ciò sia che se sia che una femmina superi in forza, se le sceglie uno sposo distinto per la tua bellezza. Galanteria, Amore, Presenti, Dote, sono cose ond’essi non anno la menoma idea, e per cui mancano insino di termini nella loro favella. Per altro verun motivo non si sposano i Giovani, se non perchè i loro Parenti e i loro Amici così vogliono: è questa una cosa che veggon fare tutto giorno, e che risguardano come una delle azioni necessarie d’un Essere ragionevole. Ma la violazione d’un tal Contratto è assolutamente una reità inudita.

Nell’educazione della lor Gioventù d’amendue i sessi, è ammirabile e degnissimo perchè l’imitiamo, il loro metodo. Voglion essi che i loro Figliuoli sieno pervenuti agli anni diciotto d’età, anzi che sia lor permesso di mangiar vena, se certi giorni si eccettuino: E un tal esempio, purchè vi si praticassero alcuni leggieri cangiamenti, potrebbe essere d’un grand’uso fra noi.

La Temperanza, l’Industria, l’Esercizio, e la Pulitezza, sono cose egualmente prescritte a’Giovani de’due sessi: E dissemi più d’una volta il Padrone, che noi eravamo pazzi di dar alle femmine un’altra educazione che a’maschj: eccettuatisi tuttavia alcuni articoli che concernono la regola dell’Economia; per lo che com’ei giudiziosissimamente il rifletteva, noi facciamo che la metà delle nostra Gioventù non sia buona che a metter al Mondo de’Figliuoli: e come non bastasse questo primo tratto di pazzia, continuava egli, ne commettete un secondo vie più maggiore, confidando l’educazione della vostra prole ad Animali, ad allevarla sì poco idonei.

Ma fin dalla prima lor giovinezza avvezzano gli Houyhnhnms i lor discendenti alla corsa, alla fatica, e all’indurarsi negli stenti e nelle incomodità: Per tal effetto alcune volte fan lor mutar di galoppo dell’erte colline, ovvero ingiungon loro di correre sopra sassosi sentieri, e poscia di getarsi tutti sudore in un qualche stagno. Quattro volte in un anno la Gioventù d’un tal Distretto si raguna in un assegnato luogo, per distinguere colui che avrà fatto maggior progresso in velocità, in forza, o in agilità: e n’è ricompensato il Vincitore con una Canzone composta in onore di lui, la qual è come una spezie di monumento di sua vittoria. Il giorno di questa Festa an cura alcuni Domestici di far recare da una Truppa di Yahoos il fieno, la vena, ed il latte ch’è necessario per lo pasto degli Houyhnhnms; dopo di che incontanente sono rispediti que’mostri, perchè non ne resti incomodata la Compagnia.

Ogni quattr’anni verso l’Equinozio di Primavera, un Consiglio, il qual rappresenta tutta la Nazione, assembiasi in una pianura situata a venti miglia dalla nostra Casa; e dura cinque o sei giorni quest’Assemblea. Vi si esamina lo stato e il bisogno de’differenti Distretti; se essi abbondino in fieno, in vena, in Vacche, e in Yahoos, oppure se in alcuna di queste cose penurino. Che se si rinviene, il che è molto di rado, che alcuni Distretti manchino di queste bestie, o di queste produzioni della terra, ne son eglino provveduti per unanime consentimento e per una generale contribuzione di tutta l’Assemblea. Ivi si regola il cambio e il dono de’figliuoli. Per esempio; se un Houyhnhnm ha due maschj; egli un ne baratta con un altro, che ha due femmine: E quando muore un figliuolo la cui madre non è più in età di averne vi si determina la Famiglia, da cui de v’essere riparata questa perdita.

CAPITOLO IX.

Gran dibattimento nell’Assemblea generale degli Houyhnhnms, e in qual modo terminò. Scienze che anno corso fra loro. Loro Edifizj. Maniera con la quale essi seppelliscono i loro Morti. Imperfezione del loro Linguaggio.

A Tempo mio, tre mesi a un di presso innanzi la mia partenza, si tenne una di queste grandi Assemblee, e fuvvi mandato il mio Padrone per rappresentarvi il nostro Distretto. In questo Senato, rimesso fu sul tappeto l’antico loro contrasto; è per vero dire, l’unico, che in quel Paese venuto sia alle mie orecchie.

Consisteva questo contrasto (a quel che al suo ritorno me ne disse il Padrone) in sapere se gli Yahoos esser dovessero starminati dalla faccia della Terra, o nò? Un de’Membri, il qual era per l’affermativa; allegò diversi Argomenti di gran peso con dire: Che erano gli Yahoos non solamente le più succide, e le più brutte bestie state mai prodotte dalla Natura; ma altresì le più indocili, le più ostinate, e le più maliziose: Che di nascosto succiavan le poppe delle Vacche che appartenevano agli Houyhnhnms, uccidevano e mangiavano i loro Gatti, calpestavano sotto a’piedi i loro erbaggj e la loro vena, e che commesse avrebbono ancora mille altre stravaganze, se non vi si avesse invigilato. Menzione fece d’una general tradizione, la qual diceva: Che nel Paese non erano stati sempre Yahoos; bensì che aveavi alcuni secoli che due di questi Bruti comparvero insù d’un monte; e ch’era cosa incerta se il calor del Sole, di corrotto fango, o della spuma marina formati gli avesse: Che questi Yahoos ebbero de’figliuoli; e che in poco tempo divenne sì numerosa la loro razza, che tutto il Paese ne restò infettato: Che per rimediare ad un tal male si ragunarono tutti gli Houyhnhnms, assalirono gli Yahoos, e gli sforzarono a ritirarsi in un luogo, ove gli circondarono, d’ogni intorno; distrussero i vecchj, e presero, cadaun d’essi, due giovani in propia casa: Che tanto gli addomesticarono, quanto Animali, sì naturalmente salvatici, eran capaci di dimesticamento, servendosene per portare e per istrascinare fardelli: Che una tal tradizione avea una grand’aria di probabilità; e che somiglianti Creature, Hinhniamshy (cioè naturali del Paese) essere non potevano, atteso l’orrido abborrimento che gli Houyhnhnms, del pari che gli altri Animali, aveano, loro; abbonimento, per vero dire, alle pessime lor qualita dovuto, ma che non ostante non sarebbe così eccessivo, se fosser elleno originarie di quella Terra: Che il capriccio saltato in capo agli Houyhnhnms di prevalersi di Yahoos imprudentemente lor avea fatta trascurare la razza degli Asini, che sono Animali bellissimi, assai più facili ad addomesticarsi, e molto più pulitti che gli Yahoos; e d’altra parte, assai robusti per risistere alla fatica, comechè, per altro, a questi in agilità cedessero: Che se non erano aggradevoli i loro ragghj, il suono, nulla dimeno, non n’era così orribile come quello degli urlamenti degli Yahoos. Molti altri dissero il loro parere sopra l’argomento medesimo; ma il più ragguardevole di tutti fu quegli del mio Padrone, comechè io possa asserire senza vanità, che a me solo, egli debba l’obbligo del maraviglioso espediente alla Ragunanza da lui proposta. Approvò egli la tradizione testè mentovata; e affermò che i due primi Yahoos siensi veduti nel Paese, vi erano capitati per la via di mare: Che mettendo piede a terra, ed essendo abbandonati da’loro Compagni, si erano ritrati nelle Montagne, ove a poco a poco degenerato avendo, col cader del tempo erano divenuti assai più selvaggj che que’di loro spezie nella Regione dond’erano venuti. Fondava la sua asserzione sull’aver egli attualmente in sua Casa un maraviglioso Yahoo, (era questi io,) di cui la maggior parte di essi inteso avea a parlare, e che molti veduto aveano. Lor narrò in qual modo ei avessemi ritrovato: Che il mio Corpo era coperto di cuojo d’Animali, o de’peli di loro, assai industriosamente accomodati: Che io parlava un linguaggio mio particolare, ed aveva a perfezione imparato il loro: Che io gli avea raccontati i diversi avvenimenti che tratto aveanmi in quel Paese; Che quando io mi svestiva, a un Yahoo appunto rassomigliava; con la differenza però che io era più bianco, men peloso, e ch’erano più corte le mie zampe. Aggiunse: Che io avea procurato di persuadergli che nel mio Paese, ed eziandio in molti altri, gli Yahoos erano Animali ragionevoli, che ritenevano gli Houyhnhnms come schiavi: Che avea osservate in me tutte le qualità d’un Yahoo, fuorchè alquanto io era più colto, e che io avea qualche tintura di Ragione, benchè in questo proposito gli Houyhnhnms avessero tanta superiorità sopra di me quanta io ne aveva sopra gli Yahoos loro: Che, fra l’altre cose, aveva io fatta menzione d’una nostra costumanza di castrare gli Houyhnhnms quand’erano giovani affin di rendergli più dimestici; ch’era agevole e sicura l’operazione; ch’ei punto non arrossiva nell’apprendere certe cose da’Bruti, giacchè la Formica dava lezioni d’industria agli Houyhnhnms; e che l’Arte del fabbricare era lor insegnata dalla Rondine, (poichè io così traduco il termine di Lyhauuh; non ostante che quest’Uccello sia assai più grande delle nostre Rondini:) che si potrebbe metter in uso una tale invenzione a riguardo de’giovani Yahoos; il che renderebbegli non solo più mansueti e più docili, ma altresì n’estinguerebbe ben presto la razza, senza essere necessitati di ricorrere a rimedj violenti: Che nel tempo stesso gli Houyhnhnms sarebbero esortati a coltivare la razza degli Asini, che sono Animali, non che a preferirsi in tutte le circostanze agli Yahoos, ma anche superiori loro nell’avvantaggio d’essere capaci di recar servigio dall’età di cinqu’anni; laddove gli Yahoos prestar non ne possono che dalli dodici.

Ecco tutto ciò che il mio Padrone giudicò allora a proposito di raccontarmi, di quanto si era discusso nel Gran Consiglio. Ma occulta mi tenne una particolarità, che personalmente mi risguardava, ond’io guari non istetti a risentire le funeste conseguenze, come a suo luogo ne renderò informati i miei Leggitori; ed è appunto da questo momento che io comincio a registrare gl’infortuni del rimanente mio vivere.

Non anno Lettere gli Houyhnhnms, e conseguentemente non conoscono nulla che per tradizione. Ma come accadono poche cose di gran momento fra un Popolo di sì buona società, inclinato alla’pratica di tutte le Virtù governato unicamente dalla Ragione, e separato da tutte l’altre Nazioni, non è carica d’una gran massa di fatti la loro Storia. Ho già avvertito che non sono eglino suggetti a malattie di sorta; donde ne siegue che i Medici sono loro soverchj. Con tutto ciò, son provveduti di eccellenti rimedj composti di diversi semplici, per guarir le ferite delle pietre aguzze onde possono restar piagati gl’pasturali loro; e altresì le contusioni accidentali de’loro Corpi.

Contano gl’anni per la Rivoluzione del Sole e della Luna, ma non fanno suddivisione veruna di settimane: Sono loro ben cogniti i muovimenti di questi due Astri, e comprendono la natura dell’Ecclissi; ma ciò è tutto in proposito della loro Astronomia. Per l’aggiustatezza delle loro comparazioni, e per la vaghezza e l’esattezza delle descrizioni loro superano in Poesia tutti i Morali. Sono assai abbondanti nell’una e nell’altra di queste cose i loro Versi, e per ordinario vertono sopra l’eccellenza dell’Amicizia, o sopra le lodi de’Vincitori nelle Corse, o in altri corporali esercizj. Le loro fabbriche, tutto che semplicissime, sono assai comode, e interamente al coperto da tutte le ingiurie dell’Aria gli mettono.

Servonsi gli Houyhnhnms di quella parte concava che vi ha fra il pasturale e l’ungia de’loro piedi d’innanzi, come noi fasciamo delle nostre mani, e ciò con una quasi incredibile desterità. Mungono le loro Vacche, ammuchiano la loro vena, e fanno in generale tutte quelle operazioni, per le quali delle nostre mani ci prevagliamo. Anno una sorta di focaje assai dure, che essi aguzzano con altre pietre, ed onde ne compongono strumenti che lor tengono luogo di zeppe, di scuri e di marteli. Di queste pietre medesime formano una spezie di falce, con cui segano il loro fieno, e la loro vena, che in certi Campi cresce da per se stessa: Gli Yahoos ne portano i fascj all’Abitazione, e i Domestici gli ripongono in molte coperte Capanne per toglierne il grano, ch’è poscia riservato ne’Magazzeni. Construiscono vasi di legno e di terra, ed espongono al Sole questi ultimi, perchè induriscano.

Se non avviene loro qualche straordinario accidente, invecchiano molto, e sono interrati nel più tenebroso luogo che possasi rinvenire, senza che i loro Parenti, nè i loro Amici diano contrassegno veruno di allegrezza o di tristezza per la loro morte. Essi medesimi quando si accorgono del propio fine, lasciano il Mondo con sì poco rincrescimento, come se si licenziassero da un Vicino che stato fosse visitato da loro. Mi rammento, che avendo un giorno il mio Padrone pregato uno degli Amici suoi di andare con la Famiglia di lui in sua Casa per dar sesto a qualche importante interesse, fuvvi la Moglie, nel giorno accennato, co’due figliuoli di lei, ma molto tardi, allegandone due ragioni: La prima; che la mattina stessa suo Marito era Shnuvvnh. E’molto espressivo in lor favella il termine, ed è difficilissimo a tradursi in Inglese: propiamente significa, ritornarsene alla prima sua madre. Era l’altra scusa; che essendo morto assai tardi la mattina suo Marito, aveale bisognato qualche tempo per regolare co’suoi servidori il luogo della sepoltura di lui: ed io notai ch’ella era tanto allegra quanto ogni altro della Compagnia.

Vivon essi generalmente infino a’settant’anni o settanta cinque, ma di rado fino agli ottanta. Alcuni giorni innanzi la loro morte, mancano a poco a poco, ma senza verun sentimento di dolore. In quel frattempo sono visitati da’loro Amici, mercè che uscir non potrebbono secondo il solito. Non ostante, dieci giorni prima del loro passagio, nel qual calcolo pochissime volte s’ingannano, restituiscono tutte le loro visite, essendo portati dagli Yahoos in una vettura, di cui prevalgonsi in altri incontri, come a dire, quando son vecchi, incomodati, o in Viaggio.

E’una cosa assai singolare che gli Houyhnhnms non abbiano verun altro termine che quello di Yahoo, per disegnare in generale tutto ciò ch’è cattivo. Così, quando spiegar vogliono la stupidezza d’un servidore, il mancamento che un ragazzo ha commesso, o un brutto tempo, aggiongono a cadauna di queste cose il vocabolo Yahoo, e chiamano, hhnm Yahoo, Vvhnaholm Yahoo, Ynlhmnh Vvthlma Yahoo; e una Casa mal fabbricata Yaholmhnmrohlnvv Yahoo.

Sarebbe un gran mio contento se potessi più stendermi sopra l’egregie qualità di quel Popolo maraviglioso: Ma come ho l’intenzione di pubblicare fra poco tempo un Volume che unicamente verserà su quest’argomento, ivi rimetto i miei Leggitori; a’quali son ora per render conto della catastrofe più funesta che mai siami accaduta per tutta la mia vita, e che attualmente eziandio attossica tutta la dolcezza de’giorni miei.

CAPITOLO X.

Qual beata vita menasse l’Autore fra gli Honyhnhnms. Progressi ch’egli fa nella Virtù conversando con esso loro. L’Autore è avvertito dal suo Padrone di dover abbandonar il Paese. Egli sviene per lo dolore, e dopo di aver ricuperati i suoi sensi, promette d’ubbidire. Riescegli di costruire una barchetta, e all’avventura in mare ei si mette.

AVeami assegnato il mio Padrone un Appartamento disgiunto per sei Verghe dalla Casa di lui, e che io avea accomodato e guernito a mia fantasia. In guisa di pavimento e di tappezzerie io avea poste stuoje di vinci lavorate da me medesimo. Cresce il canape in quel Paese senza essere seminato, e gli Abitanti punto non se ne servono; ma io il mi si in opera per fare una spezie di fodera; di cui, col mezzo di piume d’uccelli presi al laccio lavorato di capelli di Yahoos, molti guancili formai. Io avea fatti due sedili, per bontà del Cavallo Sauro che mi diede mano. Consumate ch’ebbi interamente le mie vestimenta, me ne feci di nuove con pelli di coniglio, e con quelle d’un certo animale ch’essi chiamano Hnuhnoh, e il cui corpo è ricoperto d’una fina peluria. Servimi altresì di queste farmene delle calze; e lavorai delle suole di legno che unì, alla meglio, al cuojo del di sopra; e logorato che fu questo cuojo, procurai di rimediarvi con pelli di Yahoos seccate al Sole. Ricrea va mi talvolta in rintracciar del mele nelle cavità degli Alberi, che io poscia rimescolava con l’acqua, o che col mio pane mangiava. Uomo allora non vi avea, che meglio di me intendesse l’aggiustatezza di queste due massime: Che la Natura si contenta di poco; e che la necessità è la madre dell’invenzione. Io godeva d’una sanità perfetta a riguardo del Corpo, e della più amabile tranquillità per rapporto all’Anima. Nè all’inconstanza d’un Amico, nè all’ingiurie d’un Nemico, o secreto o dichiarato, io non soggiaceva. Non mi correva l’obbligo di guadagnarmi il favore d’un Grande, o quello d’un suo Favorito a forza di adulazione e di viltà. Non mi bisognava l’esser difeso contra la frode o contra l’oppressione. In un si beato soggiorno non vi erano Medici che distruggessero il mio corpo, nè Uomini di Legge che la mia fortuna ruinassero i non Delatori per ispiare le mie azioni e le mie parole, o per manipolar accuse contra di me; non Importuni, non Maldicenti, non falsi Amici, non Assassini di strada, non Procuratori, non Ruffiani, non Buffoni, non Giuocatori, non begli Spiriti presupposti, non nojosi Ciarloni, non Litiganti, non Rapitori, non Omicidi, non Capi di Partito: Non Uomini, la cui seduzione o l’esempio incoraggissero gli altri al mal fare; non tenebrose Carceri, non manaje, non forche, non berline: Non impostura, non orgoglio o affettazione; non Isciocchi, non Isgherri, non Ebbri, non pubbliche Prostituite, e non infami malattie: Non Pedanti ignorantissimi e gonfi del loro sapere, non Briganti, non Insolenti, non Bestemmiatori: Non Canaglie che i vizzi an tratta dalla miseria, non Galantuomini che ve gli ha immersi una incorrotta virtù: Non Prepotenti, non Suonatori di violino, non Giudici, non Maestri di ballo.

Io avea la sorte d’essere ammesso alla conversazione di alcuni Houyhnhnms, che di tempo in tempo venivano a far visita, o a pranzare col mio Padrone. Egli, ed i suoi Amici si abbassavano talvolta infino ad intavolarmi delle quistioni, e ad ascoltare le mie risposte. Qualche volta pure io accompagnava il Padrone nelle visite ch’ei lor rendeva. Non mi prendeva mai la libertà di parlare, se non era per appagare qualche dimanda: il che tuttavia io faceva contra voglia, essendo che quegli era tempo tutto perduto, che meglio impiegato avrei in ascoltando. Osservano gli Houyhnhnms nelle loro conversazioni le regole più esatte della Decenza, senza che manifestino neppure il menomo indizio di saper ciò che noi Cerimonia chiamiamo. Quando si parlano, non s’interrompono mai, non si annojano, nè contraddicono. Intesi lor dire più d’una fiata, che il miglior mezzo di rianimare il ricreamento in una Ragunanza, era il tacere per alcuni instanti: del che più volte fui testimonio: mercè che nel frattempo di somiglianti picciole pause, io rifletteva che si risvegliavano nuove idee, le quali un nuovo fuoco alle loro conversazioni imprimevano. Versano, per ordinario, i loro ragionamenti sopra l’Amicizia, la Benevolenza e l’Economia: talvolta sopra l’opere della Natura, o sopra alcune tradizioni dell’Antichita: sopra le Leggi della Virtù, sopra i precetti invariabili della Ragione: oppure sopra qualche deliberazione che deesi prendere nella prossima Assemblea de’Deputati della Nazione, e sovente sopra le diverse vaghezze, e sopra l’eccellenza della Poesia. Posco aggiugnere senza vanità, che la mia presenza non di rado ha somministrata materia a’loro trattenimenti: perchè al mio padrone serviva di motivo di parlar a’suoi Amici della mia peculiare Storia, e di quella del mio Paese. Come ciò ch’essi dissero su quest’argomento non recava onore all’Umana Natura, penso che sarà in grado di chi legge il dispensarmi dalla narrazione.

Ingenuamente confesso, che il poco di conoscenza, qualunque ella sia, che io posseggo, da me è dovuto alle Lezioni che ho ricevute dal mio Padrone, e a’saggi ragionamenti che ho intesi dagli Amici di lui.

Io non potea supplire a’muovimenti di rispetto che gli avvantaggj del Corpo, e soprattutto le ammirabili qualità dell’Anima degli Houyhnhnms eccitavano in me. Per vero dire, da principio io non risentiva quella naturale venerazione che gli Yahoos, e gli altri Animali del Paese lor portavano, ma a saggiarla troppo non tardai, e ad aggiugnervi quella riconoscenza e quell’amore, onde la bontà con la qual essi mi distinguevano dal rimanente di mia spezie, sì degni rendevagli. Quand’io pensa va alla mia Famiglia, a’miei Amici, o a’miei Compatriotti, od anche agli Uomini in generale, gli considerava come se stati essi fossero in figura, e in inclinazione realmente Yahoos; con la sola differenza ch’erano alquanto più colti, che parlavano, e che aveano in retaggio una Ragione, di cui nulladimeno non si servivano che per moltiplicare i propj vizzi; de’quali, i loro fratelli, gli Yahoos di quel Paese, non avevano che quella sola porzione che stata in loro impressa dalla Natura. Quando mi accadeva di specchiarmi in un Lago o in una Fonte, mi trovava assalito da un non so qual orrore; e più sopportevole della mia mi riusciva la vista d’un Yahoo ordinario. Conversando con gli Houyhnhnms, e considerandogli con diletto, sonomi insensibilmente avvezzato a prendere qualche cosa dell’aria loro, e della loro andattura; e gli Amici miei assai sovente mi an fatta fare osservazione, che spasseggiando noi in un sentiero piano, io trottava come un Cavallo; il che sempre presi per un graziosissi no complimento.

Nel più forte delle mia felicità, e in tempo che io, senz’altro, stava sicuro di passare in quel Paese gli restanti miei giorni, il mio Padrone una mattina di più buon’ora del solito, mandò a chiamarmi. Mi avvidi di qualche di lui confusione, e ch’ei non sapeva da qual parte cominciare il suo discorso. Dopo un brieve silenzio, dissemi: Ch’eragli ignoto in qual senso io dovessi prendere ciò che egli stava per notificarmi: Che nell’ultima Assemblea, al passo della quistione in proposito degli Yahoos i Deputati di tutti gli altri Distretti dichiarato aveano: Che stupivan essi al segno maggiore ch’egli nella sua Famiglia trattasse un Yahoo (era io quel desso) anzi in Houyhnhnm che in Bruto: Che conversasse con esso meco, come se dal mio commerzio ritrar potesse qualche piacere: Ch’era inaudita una somigliante condotta: e oltracciò, egualmente opposta alla Natura e alla Ragione. Aggiunse il mio Padrone, che per tanto avealo esortato l’Assemblea d’impiegarmi come gli altri Animali di mia spezie; oppure d’ordinarmi di ritornarmene a nuoto al luogo, donde io era venuto: Che il primo di questi espedienti era stato unanimamente rigettato da tutti gli Houyhnhnms che mi aveano veduto o in di lui Casa, o in quelle di loro: Imperocchè, allegavan eglino, essendo io, con la natural malizia di quegli Animali, dotato di qualche principio di Ragione, doveasi temere che io non gli guidassi con esso meco nelle montagne, per quindi gittarci nottetempo sulle mandre degli Houyhnhnms; il che era tanto più probabile, quanto che noi tutti eravamo d’un rapace ed infingardo temperamento,

Dissemi di più il Padrone, che egli Houyhnhnms suoi Vicini lo stimolavano tutto giorno ad eseguire l’Esortazione dell’Assemblea, e ch’egli non ardiva di recarvi maggior indugio. Mi accertò di dubitare che possibile mi fosse di guadagnar nuotando un altro Paese, e che per tal effetto desiderava che io costruissi un Vascello; il qual in picciolo rassomigliasse a quegli onde io fatta avergliene la descrizione, e con cui staccarmi potessi da quelle lor Terre: Che per altro io non sarei solo ad intraprendere una tal opera, ma che i suoi Servidori, ed altresì i suoi Vicini mano mi porgerebbono. Quanto alla vostra persona, continuò, sarei stato molto contento di tenervi al mio servigio, giacchè ho trovato che corretto vi siete di molti difetti, col procurar d’imitare gli Houyhnhnms, per quanto un Essere d’una Classe inferiore n’è capace.

A questo passo far riflettere debbo a’miei Leggitori, che un decreto dell’Assemblea generale di quel Paese è significato col Vocabolo Hnhleayn che spiega un’Esortazione, ciò provenendo, perchè essi non concepiscono come una Creatura ragionevole possa essere forzata a qualche cosa, come si possa comandarlela; imperocchè non saprebbe ella disubbidire alla Ragione, senza rinunziare nel tempo stesso al titolo di Creatura ragionevole.

Gittommi in sì fatta disperazione il ragionamento del mio Padrone, che incapace di soffrire l’orribilità del mio stato, cadei svenuto a’piedi di lui. Ricuperati ch’ebbi i miei sensi, mi protestò egli che mi aveva creduto morto; non essendo quel Popolo a somiglianti deliqui suggetto. Risposi con fiacco tuono, che beato me se una morte improvvisa terminate avesse le mie sciagure! Che tutto che io non avessi a replicar cosa alcuna sopra l’Esortazione dell’Assemblea, nè sopra le instanze degli Amici di lui, mi sembrava, non ostante, alquanto men di rigore non avrebbe potuto disconvenire a quell’alta Ragione che appariva in tutti i loro giudizj: Che io non poteva far a nuoto neppur una lega: e che probabilmente avrei dovuto farne più di cento, anzi di approdare a qualche Paese; Che per fabricare un picciolo Vascello, bisognavami molti materiali ch’era lor impossibile di provvedermi, e che perciò io risguardar dovea loro Esortazione come una sentenza di morte contra di me pronunziata: Che una morte appunto violenta era il menomo de’mali che io temessi; ma che in modo veruno esprimere io non potea la mia afflizione pensando, che quando anche per una serie di miracoli di restituirmi sano e salvo alla mia Patria mi riuscisse, sarei obbligato di passar i miei giorni fra gli Yahoos, ed esposto a ricadere ne’vizj miei primieri, per mancanza di esempj, che sul dritto sentiero della Virtù mi tenessero: Che mi era pur troppo noto sopra quali stabili ragioni fondati fossero i Decreti degli Houyhnhnms, per presumere di fargli rivocare con gli argomenti d’un miserabile Yahoo come me. E perciò, dopo di averlo umilissimamente ringraziato dell’offerta fattami in proposito dell’assistenza de’suoi Domestici; e di averlo pregato ad accordarmi uno spazio di tempo proporzionato alla grandezza dell’opera, gli dissi che io mi accigneva a conservar la mia vita per quanto fosse ella miserabile; e che se mai ritornato fossi nell’Inghilterra, io non disperava d’essere di qualche uso a quegli di mia spezie, col propor loro i virtuosi e saggj Houyhnhnms in modelli.

Fecemi il Padrone un’assai obbligante risposta, e due mesi mi accordò per metter in ordine il mio Cajcco. Ordinò pure al Cavallo Sauro, mio intrinsechissimo, di seguire in tutto le mie instruzioni; posciachè io mi era espresso che il solo di lui ajuto bastato mi sarebbe.

La prima mia attenzione fu di portarmi a quel luogo della spiaggia, ove i miei Marinaj mi avevano messo a terra. Salì un eminenza; e riguardando da tutte le parti in mare, credei di scuoprire una picciola Isola al Greco-Levante. Diedi di mano al mio canocchiale; e vidi allora distintamente ch’essere ella dovea cinque leghe da me, per lo meno secondo il mio calcolo; comechè il mio compagno la spacciasse per una nuvola: e ciò poi non era una gran maraviglia; essendo che, come egli non conosceva altro Paese che il suo, era cosa naturale che distinguere non potesse oggetti situati in mezzo all’acqua, in tanta distanza così ben come me, a cui era sì familiare quest’elemento.

Fatta una tale scoperta, fui di ritorno all’Abitazione. Andai il giorno dietro col Caval Sauro in un bosco a una picciola mezza lega da noi, per tagliarvi le legna onde io bisognava per l’esecuzione del mio imprendimento. Non istancherò chi legge con una diffusa descrizione di tutto ciò che facemmo in questo proposito: lor basterà di sapere che nel termine di sei settimane, con l’ajuto del mio Compagno, venni a capo di costruire una maniera di barchetta Indiana, e quattro remi. Le funi di mio servigio eran lavorate di canape, e di pelli d’Yahoos la mia vela. Consistevano le mie provisioni in alcuni Coniglj, e in alcuni Uccelli bolliti, e in due vasi; l’uno di latte, d’acqua l’altro ripieni.

In uno stagno vicino alla Casa del mio Padrone, saggiai se la barchetta tenesse all’acqua, e procurai di otturare alcune picciole aperture: dopo di che transferirono gli Yahoos alla riva del mare il mio Vascello sotto gli auspizj del Caval Sauro, e d’un altro Domestico.

Lesta che fù ogni cosa, e giunto il giorno della mia partenza, presi congedo dal Padrone, dalla Padrona, e da tutta la sua Famiglia, con le lagrime agli occhj, e con la disperazione nel cuore. Ma il Padrone, per curiosità, e forse (se non vanamente ardisco di dirlo) per amicizia a riguardo mio, volle vedermi a mettermi in mare: e pregò alcuni de suoi Vicini d’accompagnarlo. Fui costretto d’aspettar più d’un ora prima che l’acqua cominciasse ad alzarsi; e dopo ciò, osservato avendo che il vento era buono per guadagnare l’Isola da me scoperta, per la seconda volta dal mio Padrone mi licenziai, ma nel tempo che io mi prostrava per baciar l’ungia del piede di lui, ei m’impartì l’onore di levarla, e d’accostarla galantissimamente alle mie labbra. Non mi sono ignote tutte le critiche che mi son tirate addosso per aver fatta menzione di quest’ultima circostanza. Essendo che i miei nemici si son preso il piacere di spargere, che non era probabile che un Personaggio sì illustre accordato avesse un sì strepitoso contrassegno di favore a una Creatura di tanta inferiorità. Ma senza giustificare la mia veracità su questo proposito con l’esempio di mille e mille Viaggiatori, che memoria fanno dell’onorevole accoglimento che an lor praticato i maggiori Monarchi; contenterommi di dire, che coloro che rivocano in dubbio un somigliante tratto di galanteria del mio Padrone, ignorano affatto sin a qual segno sieno civili ed obbliganti gli Houyhnhnms.

Feci una profonda riverenza agli Houyhnhnms che accompagnato aveano il mio Padrone; postomi poscia nella barchetta, dalla spiaggia mi allontanai.

CAPITOLO XI.

Quali pericoli asciugò l’Autore. Approda alla Nuova Olanda, sperando di fissarsi il suo soggiorno. E’ferito con un colpo di freccia da un Naturale del Paese, ed è trasportato sopra un Vascello di Portogallo. Gli usa gran cortesie il Capitano, e arriva in Inghilterra l’Autore.

IL quindici Febbrajo 1715. ad ore nove della mattina, intrapresi quest’infausto cammino. Era assai favorevole il vento; e pure da principio io non messi in opera che i miei remi; Ma riflettendo che stanco sarei ben presto, e che il vento cangiar potea, la mia picciola vela alzai, e in questo modo con l’ajuto della Marea: feci una lega e mezza per ora, per quanto mi sembrava.

Il Padrone e gli Amici suoi se ne restarono sul lido finchè interamente mi avessero perduto di vista: e molte volte il Caval Sauro intesi, (che per dir vero mi volea assai bene,) gridando con forte suono, Hnuy illa niha Majah Yahoo: vi auguro un buon viaggio, amabile Yahoo.

Mio disegno era di scuoprire, se stato fosse possibile, qualche picciola disabitata Isola, che somministrarmi avesse potuto quant’era necessario per la conservazion del mio vivere, affin di passarmi tranquillamente i restanti miei giorni: Sorte che io riputava assai superiore a qualunque più luminoso posto che occupar potessi in una delle prime Corti dell’Europa, sì spaventevole era l’idea che della società, e del governo degli Yahoos io mi formava: imperocchè io ravvisava un somigliante ritiramento come il solo soggiorno, ove consacrar potessi tutti i miei pensieri alla memoria delle virtù degl’inimitabili Houyhnhnms, senza essere esposto al funesto pericolo di ricadere in tutti que’vizj, pe’quali io aveva un orror sì sincero.

Non sarà dimentico forse il Leggitore che io narrato gli abbia, che coloro della mia Ciurma da’quali fui posto a terra, mi dissero d’ignorare in qual parte del Mondo noi allora fossimo. Con tutto questo io credetti di poter essere a dieci gradi all’Ostro del Capo di Buona Speranza, o a 45. gradi di Latitudine Meridionale, per quanto fummi lecito di conchiudere da certi loro ragionamenti, sopra il cammino che si dovea tenere per giugnere a Madaschar. Nulladimeno ciò che io udito avea, non mi esibiva che una debole conghiettura: ma come un tal indizio valeva più che nulla: stabilj di proseguir sempre all’Ostro, colla speranza di guadagnare la Costa Occidentale della Nuova Olanda, e di colà ritrovarvi forse qualche Isola, tale che io la bramava. Il vento era tutto al Ponente; e a sei ore della sera, avendo io fatte a un di presso diciotto leghe: una picciola Isola scoprii, lontana una mezza lega, o circa; che ben presto fu altresì da me superata. Nell’abbordarvi, vidi che non era che una spezie di roccia, con un picciolissimo Seno.

Entrai in questo Seno con la mia barchetta; e montato l’alto della roccia, vidi distintamente al Levante un Paese che dall’Ostro a Tramontana stendevasi. Passai la notte nel mio Vascello; e il giorno dietro di buon mattino continuato avendo il Viaggio, in sett’ore alla punta Meridionale della Nuova Ollanda pervenni; il che mi rassodò in un’antica mia opinione; cioè che le nostre Carte Geografiche delineano questo Paese tre gradi, per lo meno, più al Levante, ch’egli realmente non è. Già alcuni Anni comunicai il mio sentimento al buon Amico Signor Moli, e gli allegai le ragioni onde io mi fondava; ma ei vole piuttosto esser seguace di altre autorità.

Non mi cadde sotto l’occhio Abitatore veruno nel luogo ove approdai; e come mi mancavano l’arme, d’innoltrarmi non ardii nel Paese. Trovai sui lido alcuni pesci a conchiglia che mangiai crudi; non arrischiandomi d’accendere il fuoco per timore che i Paesani mi discoprissero. Per tre giorni continui d’Ostriche e di Muscoli mi cibai, per risparmiare le mie provvisioni; e per gran buona sorte rinvenni un ruscello d’un’acqua squisitissima, che mi reccò il più sensibile piacere.

Avanzatomi un pò troppo nel Paese il quarto giorno, vidi sopra un’eminenza venti o trenta persone, in distanza da me di circa cinquecento verghe. D’Uomini di Donne, e di Fanciulli che stavano d’intorno al fuoco totalmente ignudi, era composta quella Truppa. Fui ravvisato da uno di loro che ne avvertì gli altri; e immediate cinque di essi vennero alla mia volta. Mi affrettai di guadagnar il Lido: e gittatomi nella mia barchetta, a forza di remi mi allontanai. I Selvaggj scorgendo che io fuggiva, mi furono dietro: e innanzi che abbastanza potessi distaccarmi, mi scoccarono una saetta, che profondamente piagommi l’interior parte del ginocchio manco. Ne porto in oggi tuttavia il marchio. Temei che la freccia non fosse venenata: e questo timore mi suggerì di succiare la piaga subito che mi trovassi suori di portata de’loro tiri. Tanto eseguj, e faci olla poscia il meglio che fù possibile.

Io stava molto imbrogliato di me medesimo, non avendo l’ardire di ritornarmene al luogo ove io avea sbarcato, cosicchè fui costretto di rimettermi in Mare. Mentre io stava guattando qualche rifugio, vidi a Greco-Tramontana una Vela che teneva il suo cammino verso di me. Esitai molto se attendere dovessi, o no, quel Vascello: Ma finalmente sopra qual altro si fosse riguardo vinsela il mio orrore per la razza degli Yahoo, e a forza di voga fecemi riguadagnare quel picciolo Seno donde n’era partito la mattina: pago piuttosto di farmi uccidere da quei Barbari, che di vivere fra gli Yahoos dell’Europa. Per quanto potei, accostai alla Spiaggia la mia barchetta, e dietro un sasso, che non molto era lontano dal mentovato ruscello, mi nascosi.

A una mezza lega dal Seno diede a fondo il Vascello: il che concepir mi fece qualche lusinga di non essere stato discoperto: ma crudelmente m’ingannò la mia espettazione: essendo che nel tempo che io mi pasceva di tale speranza, il Capitano spedì con lo Schito alcuni Uomini di sua Ciurma per farvi dell’acqua. Ravvisarono coloro la mia barchetta, e conghietturarono che non troppo lunge esser dovesse il propietario di lei. Quattro di essi ben in arme mi fiutarono con ansietà, e ben presto mi ritrovarono. Notai, la loro sorpresa di vedermi vestito e calzato sì stranamente: quindi essi conchiudendo (a quel che poscia me ne dissero) che io non fossi uno de’Naturali del Paese, i quali van tutti ignudi. Un de’Marinaj mi pregò in Portoghese di alzarmi, e m’interrogò chi fossi? Io intendeva assai bene quella favella: ed essendomi levato, dissi che io era un povero Yahoo stato bandito da Paese degli Houyhnhnms, e che gli scongiurava a lasciarmi andare. Restarono attoniti nell’intendermi parlare il loro linguaggio, e si avvidero alla mia carnagione, e alla mia fisonomia che io era un Europeo: ma non capirono ciò che dir volessi per Yahoos, e per Houyhnhnms; e scopiaron di ridere nel sentir il tuono onde io pronunziava questi termini, che un non so che del nitrito de’Cavalli avea. Gli supplicai di nuovo di permettere che me ne andassi: e senza attendere il rescritto loro, già piano piano m’incamminava alla mia barchetta, allorchè ritennermi per domandarmi, qual Paese sì fosse il mio? e donde venissi? Dissi loro che io era nato in Inghilterra, daddove era seguita la mia partenza da cinque anni, o circa addietre, e che in quel tempo il loro Regno e il nostro stavano in pace: Che per questa ragione io mi lusingava che essi non mi tratterebbono da nemico, poichè io non avea fatto loro male di sorta: bensì io era un miserabile Yahoo che andava in traccia d’un Diserto, per passarvi il resto dello sgraziato mio vivere.

Quando eglino a parlar cominciarono, mi sorprese un impercettibile stordimento; parendomi ciò tanto stravagante, come se una Vacca parlato avesse in Inghilterra o un Yahoo nel Paese degli Houyhnhnms. Inferior alla mia non fu la maraviglia de’Portoghesi, vedendo i miei vestiti, e sentendo i miei ragionamenti: La maniera onde io profferiva le mie parole, riusciva per coloro qualche cosa di nuovo e d’incomprensibile; comechè per altro ben eglino capissero tutto ciò che in loro diceva. Mi parlarono con molta affabilità, e mi dissero d’essere persuasi che il lor Capitano si sarebbe fatto un piacere di trasferirmi a Lisbona, donde alla mia Patria ritornarmene avrei potuto; che due di loro si sarebbero restituiti al Vascello per informar il Capitano medesimo dell’Avventura, e per ricevere gli ordini di lui; che per altro, se io non avessi giurato loro di non fuggirmene, si sarebbono assicurati di me con la forza. Credei mio miglior partito il far loro una somigliante promessa. Morivano di voglia di saper la mia Storia, ma impefettissimamente rendei appagata la loro curiosità; e tutti conghietturarono che i miei infortunj alterata avessero la mia Ragione. Nel termine di due ore lo Schifo, il qual portato avea a bordo il Bottume ripieno d’acqua, se ne rivenne con ordine del Capitano di condurmisi al suo Vascello. A mani giunte e ginocchione scongiurai che mi si lasciasse la libertà: ma qualunque mia supplica fu infruttuosa. Fui legato, trasferito nello schifo, e abbordata che fu da noi la Nave, restai condotto nella Camera del Capitano.

Nomavasi egli Predo de Mendez, gran Galantuomo e generosissimo. Priegommi di dirgli se bisognassi di qualche cosa; che sarei stato trattato al pari di lui medesimo mi accertò. Non fu mediocre la mia sorpresa nel rinvenire in un Yahoo sì obbliganti maniere. Non ostante, tutta la mia risposta fu, che io il supplicava che a mangiar mi si desse qualche cosa di ciò che aveavi nella mia barchetta; ma egli recar mi fece un pollastro, e una bottiglia di squisito vino, dando ordine mi si allestisse un letto in un Camerino assai propio. Spogliarmi non volli; ma mi corcai sopra le coltri, col disegno, infin che pranzassero i Marinaj, di poter in un tratto guadagnar la coperta del Vascello, e di gettarmi in mare; volendo piuttosto espormi al furor de’flutti, che vivere fra gli Yahoos più lungo tempo. A mio dispetto me ne tenne impedito un della Ciurma, e datone l’avviso al Capitano, fui nel mio camerino messo alla catena.

Dopo desinare, venne a vedermi Don Pedro, e mi dimandò il motivo che instigato aveami sì funesta risoluzione. Mi protestò di essere disposto a rendermi qualunque possibile servigio, e in un modo parlommi di tanta compitezza, che finalmente fui forzato di trattar con esso lui come con un Animale non totalmente privo di Ragione. Gli feci un compendiato racconto del mio Viaggio, della cospirazione delle mie Genti, del Paese ove mi avean elleno abbandonato: e del mio soggiorno colà per tre anni continui. Ei prese per una visione, o per un sogno tutto ciò che gli narrai; il che offesemi a un segno che non so esprimere, avendo io perduta affatto la facoltà di mentire; e per la ragione stessa, la disposizione a sospettar altrui di menzogna. Loro interrogai, se al Paese di lui si praticasse di dire la cosa che non è? E gli dichiarai che io avea poco men che dimentico ciò ch’egli concepiva per Falsità; e che se fossi soggiornato mill’anni nelle Terre degli Houyhnhnms, non vi avrei intesa una sola bugia dal menomo de’loro Domestici, che mi era cosa indifferente se egli prestasse fede a quanto io aveagli asserito, o nò; che non ostante, per corrispondere alle civiltà di lui, io era pronto a sciorre tutte le obbiezioni ch’egli d’intavolarmi si compiacesse, e che di costrignerlo con un tal mezzo a rendere giustizia alla mia veracità, io mi lusingava.

Mendez, ch’era un Uomo di spirito, procurò con molte quistioni di convincermi come menzognero; ma vedendo che il tentativo non riuscivagli, cominciò ad aver miglior opinione della mia schiettezza, o del mio buon senso, Confessommi pure di essersi abbattuto in un Capitano di Vascello Olandese, il quale aveagli detto, che messo piede a terra in un’Isola, o in un Continente della Nuova Ollanda, avea veduto un Cavallo che cacciava dinanzi a se molti Animali somiglianti esattamente a que’che io avea descritti sotto il nome di Yahoos, con alcune altre particolarità che il Capitan Portogese diceva più non ricordarsi, avendole allora spacciate per solennissime bugie. Ma aggiunse; che poichè io facea professione d’essere inviolabilmente ben affetto alla Verità; io dovea impegnargli la mia parola d’onore, che per tutto il Viaggio non intenterei sopra la mia vita; oppure ch’egli si assicurerebbe di me, finchè a Lisbona capitati fossimo. Gliel promisi; protestando nel tempo stesso, che non aveavi così pessimi trattamenti, di soggiacer a’quali non mi contentassi, piuttosto che ritornarmene fra gli Yahoos.

Non ci accadde cosa di gran momento per tutto il nostro Viaggio. Per gratitudine verso il Capitano, io, cedea talvolta alle instanze di lui perchè il conversassi qualch’ora; ed io procurava d’occultare i miei sentimenti d’aversione, e di dispregio per gli Uomini: con tutto questo, di quando in quando gli lasciava uscire, ed egli facea sembiante di non badarvi. Io passava la maggior parte del giorno, solo, nel mio Camerino, affin di rispiarmiarmi la vista di qualcuno della Ciurma. Aveami sovente il Capitano sollecitato di gittare le mie selvagge vestimenta, o offerto di che abbigliarmi da capo a piedi; ma risolutamente ributtai l’esibizione, non volendo cuoprirmi con la menoma cosa che servito avesse per Un Yahoos. Il pregai bensì di prestarmi due camiscie nette; che essendo state ben lavate dopo che’egli portate le avea, non potevano, al mio credere, tanto contaminarmi. Di due in due giorni io mi metteva una di queste camiscie, ed io stesso nel frattempo lavava l’altra.

Arrivamo a Lisbona il 5. Novembre 1715. Quando fu d’uopo por piede a terra m’obbligò il Capitano a cuoprirmi col suo mantello, perchè la Canaglia non si affollasse d’intorno a me. Fui condotto alla Casa di lui, e a forza di permurose mie instanze, alloggiato fui nel più intimo Appartamento. Lo scongiurai di non raccontar a chi che fosse ciò che aveagli io detto in Proposito degli Houyhnhnms; mercè che una somigliante Storia attratto avrebbe, non solamente un numero infinito di persone in sua Casa per vedermi, ma eziandio avrebbemi esposto ad essere messo in carcere, o bruciato per ordine dell’Inquisizione. Ottenne da me il Capitano che io accettassi un compiuto fornimento di vestiti nuovi; ma permettere non volli mai che il Sarto mi prendesse la misura; nulladimeno assettavansi essi perfettamente al mio corpo, essendo Don Pedro a un di presso del mio medesimo taglio. Diedemi altresì molte altre robbe che mi bisognavano; ma prima d’usarle, per lo spazio di venti e quattr’ore ebbi la cura d’esporle all’aria.

Il Capitano non avea Moglie, bensì tre Domestici, niuno de’quali, per compiacermi, ci serviva in tavola. In una parola; erano sì obbliganti in ogni azione a mio riguardo le maniere di lui, ed egli stesso era sì ragionevole, per non essere dotato che d’una umana intelligenza, che per dirla schiettamente, la sua conversazione cominciava a parermi assai soffribile. Egli ebbe un grande ascendente sopra di me perchè mi persuadessi d’adagiarmi in un altro Appartamento, le cui finestre sulla strada riferivano. La prima volta che mi vi affacciai, tutto spavento girai la testa. In minore spazio d’una settimana ei mi trasse fin sulla porta della sua Abitazione, e trovai che a poco a poco lo spavento scemava, ma che l’odio mio e il mio disprezzo per gli Uomini andava vie più crescendo. Alla fine, divenni sì coraggioso, che spasseggiai con esso lui per la Città.

Don Pedro, a cui io aveva fatta una distinta narazione de’miei domestici affari, dissemi un giorno ch’er mi credea obbligato in coscienza e in pontualità di ritornarmente alla mia Patria, e di passar il resto de’miei giorni con mia Moglie e co’miei Figliuoli. Mi avvertì che aveavi nel Porto un Vascello Inglese pronto alla Vela, e mi assicurò che sarebbe cura di lui di tenermi provveduto di quanto al mio Viaggio fosse necessario. Non annojerò per la mia parte i Leggitori col ripeter loro gli argomenti di lui e le mie risposte. Si espresse egli ch’era impossibile di rinvenir un’Isola tale che io la volea; ma che in mia Casa sarei il Padrone, e che di vivervi in ritiramento sarebbe in mio arbitrio.

In somma mi risegnai, convinto ch’egli avea ragione. Partì di Lisbona li 24. Novembre sopra un Vascello Inglese di mercatanzia, il cui Capitano, almen che io il sappia, io non vidi mai, non essendomi mai degnato d’instruirmene, e standomene sempre nella mia Camera sotto pretesto d’indisposizione. Don Pedro mi accompagnò alla Nave, e mi prestò venti Ghinee. In licenziandosi da me mi strinse nelle sue braccia, e non fu che per un eccesso di gratitudine che un tal affettuoso complimento io tollerai. Alle ore nove della mattina del 5. Decembre 1715. arrivammo alle Dunes, e entrai in mia Casa a tre ore dopo mezzo giorno.

Mia Moglie e i miei Figliuoli furono sorpresi ed incantati in vedendomi, avendomi gia spacciato per morto; ma confessar deggio altresì che la loro vista non cagionò in me che aversione, che rabbia, e che dispreggio: Essendo che, dopo la mia partenza dal Paese degli Houyhnhnms, se io mi avea usato violenza infino a risguardare Yahoos, e infino a conversar con Don Pedro de Mendez, la mia memoria nulladimeno e la mia immaginazione erano sempre cariche dell’eccellenti qualità degli Houyhnhnms. E quando mi accadeva di riflettere che confidenze d’un tal qual genere con una Yahoos mi univano alla spezie con un vincolo di più, mi è impossibile d’esprimere la mia confusione e il mio orrore.

Videmi appenna la mia Sposa, che mi saltò al collo per abbracciarmi; ma come un Animale sì odioso non mi avea toccato da molti anni addietro, un tal contrasegno d’amore mi produsse uno svenimento che più d’un’ora durò. Nell’instante, in cui ciò scrivo, sono anni cinque che seguì il mio ritorno dall’ultimo mio Viaggio: Nel primo anno Poggetto di mia Moglie e de’miei Figliuoli mi era insopportevole, ed io non permetteva neppure ch’essi mangiassero nello stesso mio Appartamento: All’ora presente, non ardirebbono di toccar il mio pane, nè di bere fuori del mio bicchiere, e per anche non ho potuto violentarmi a far loro la grazia di prendermi per la mano. Il primo danajo che impiegai, servì a comprare due Cavalli non castrati, che io custodisco in una buona stalla, e l’Appartamento che ne l’è più vicino, e il più gradito, e il più da me abitato; poichè non vi ha esagerazione che spiegar possa fin a quel segno l’odor della Stalla mi ricrei. I miei Cavalli m’intendono passa bilmente bene: regolarmente io passo quattr’ore, per lo meno, ogni giorno con esso loro. Non ho mai fatto lor mettere nè sella, nè briglia; e l’affetto ch’essi anno per me, e altresì l’uno per l’altro, è un non so che di vezzoso che incanta.

CAPITOLO XII.

Veracità dell’Autore. Disegno ch’ei si è proposto in pubblicar quest’Opera. Ei censura que’Viaggiatori che non anno un inviolabile rispetto per la Verità. Confuta l’Autore l’accusa che forze potrebbesi addossargli di aver avuto qualche sinistro oggetto nello scrivere. Risposta a un’obbiezione. Metodo di piantar Colonie. Elogio del suo Paese. Ei pruova che l’Inghilterra possiede giusti titoli sopra  que’Paesi ond’egli ne ha fatta la descrizione. Difficoltà che si opporrebbe all’impadronirsene. L’Autore si licenzia da chi legge; dichiara in qual modo ei pretende di passare i rimanenti suoi giorni, da un buon consiglio, finisce.

ECCO, mio caro Leggitore, una narrazione sincera di quanto emmi accaduto ne’miei Viaggj per lo spazio di sedici anni e sette mesi: Narrazione, onde serve d’ornamento la sola verità. Stato sarebbe in mio arbitrio l’imitare quegli Scrittori che servonsi dell’incredibile e del maraviglioso per rendere attoniti que’che gli leggono; ma io volli piuttosto in una maniera semplice rapportar i fatti, essendo l’unico mio disegno d’instruirvi, non di ricrearvi.

Non è malagevole a noi che viaggiamo in Paesi lontani, che non son troppo frequentati dagli Inglesi o da altri Europei, di formare magnifiche descrizioni di molte maravigliose cose, di cui si è intesa mai parola: Laddove il principal intento d’un Viaggiatore esser dee di rendere gli Uomini migliorati e più Saggj, narrando loro cio che di buono e ci cattivo ha egli veduto nelle sue corse.

Bramerei con tutto il mio cuore che si fondasse una Legge, la qual obbligasse chiunque che viaggia, prima che permesso gli fosse di pubblicare le sue Avventure, la qual obbligasse, dissi, a giurare in presenza del Gran Cancelliere, che tutto ciò ch’egli ha intenzione di dar alle stampe, esattamente sia vero; perocchè il Pubblico allora abusato non sarebbe da una caterva di Scrittori che la sua credulità con insolenza ingannano. Lessi in mia giovinezza con gran piacere molti Libri di Viaggj, ma questi Libri an molto perduto di merito nella mia immaginazione, dopo ch’ebbi l’incontro di rilevarne cogli occhj propj le falsità. Ecco la ragione, giacchè i miei Amici an giudicato che il raccontò delle mie Avventure recar potrebbe qualche vantaggio a’miei Compatriotti, che mi sono imposta l’obligazione inviolabile d’essere sempre fedele alla Verità. Egli è certamente indubitato, che non potrei neppure partir la tentazione di violare questa spezie d’impegno, finchè conserverò la memoria delle Lezioni e degli Esempj del mio illustre Padrone e degli altri Houyhnhnms, di cui per sì lungo tempo ebbi la sorte d’essere l’umilissimo Uditore.

---- Nec si miserum Fortuna Sinonem Finxit, vanum etiam, mendacemque improba finget.

Ben mi è noto che non è un grande onore quel che acquistar si può con Iscritti che genio nè scienza non esigono, ma semplicemente un poco di memoria e di esattezza nel registrar in carta quanto si ha veduto. So altresì, che fan parte al Pubblico de’loro Viaggj, soggiacciono alla sorte medesima che i Facitori de’Dizionarj; e vale a dire, sono scancellati da’loro Successori: il che gl’impegna a mentire un meglio dell’altro, per preservarsi dall’obblivione. Ed è probabilissimo, che verrà un giorno in cui de’Viaggiatori visiteranno le Regioni che furono da me descritte, e che collo scuoprire i miei errori, (se pur ve ne sono) e coll’aggiugnere molte nuove discoperte, occuperanno il mio posto nel Tempio della Memoria, e faran dimenticare, insino, che io mai abbia iscritto. Non vi ha dubbio che sarebbe questa una gran mortificazione per me, se il solo Amore d’una vana Fama, renduto Autore mi avesse: Ma come non presi di mira che il pubblico vantaggio, è impossibile che in tutte le circostanze mi vada fallito il disegno.

Conciossiacosachè; chi mai può leggere ciò che ho scritto delle Virtù degli Houyhnhnms senza arrossire de’propi suoi vizzi, quand’ei si consideri come l’Animale del suo Paese a cui sien caduti in retaggio la Ragione e il Governo? Io nulla dirò di quelle rimote Nazioni, ove gli Yahoos presiedono; fra le quali la men corrotta è quella de’Brobdingnagiani, le cui sagge Massime in Morale e in Politica, se lor osservassimo, alla nostra felicità molto contribuerebbono. Ma temo d’impegnarmi in una maggiore specificazione; e voglio piuttosto lasciar al Leggitore la libertà di far quelle riflessioni che più gli saran convenevoli.

Egli è un grand’argomento di piacere per me, quando penso che è esente da qualunque censura la mia Opera: Mercè che; cosa asserir si può contro ad uno Scrittore, il qual rapporta semplicemente i Fatti accaduti in Paesi lontani, ove non abbiam noi che fare, o per interessi Politici, o in riguardo al Commerzio? Con esatta attenzione mi tenni netto da quali siensi sbagli, onde per ordinario sono tacciati i Componitori di Viaggi. Oltracciò; non mi son sacrificato a verun partito; serissi bensì senza passione, senza prevenzioni, e senza un fine di malignità contra chi che sia. In iscrivendo, mi son proposto il più nobile oggetto del Mondo, il qual è l’instruzione degli Uomini; nel che dir posso senza vanità, che il commerzio ch’ebbi cogli Houyhnhnms impartimmi un gran vantaggio sopra que’che nelle Opere loro il fine medesimo si propongono. Non ho scritto con la speranza di approfittarmi, o d’acquistar vane lodi. Non ho messo in carta neppur parola, che a inferir vaglia il menomo rammarico a’più sensitivi: Cosicchè con giustizia spacciar mi posso per un Autore perfettamente incolpevole, e contra cui i Facitori di Riflessioni, d’Osservazioni e di Considerazioni, non avranno il menomo giusto motivo di mettere in opera i loro talenti.

Non so negare che fummi detto in piena confidenza, che essendo io Inglese, avrei dovuto al mio arrivo presentarne una Memoria al Segretario di Stato; essendo che tutti i Paesi che sono scoperti da un Suddito alla Corona appartengono. Ma molto dubito se le nostre vittorie sopra gli Abitanti de’Paesi di cui parlai, riuscissero sì facili per quanto quelle che Fernando Cortez riportò sopra Affricani ignudi. A mio credere, i Lillipuziani non vagliono la pena che si armi una Flotta per soggiogargli; e temerei un pessimo riuscimento, se s’intentasse la cosa stessa a riguardo de’Brobdingnagiani: oppure che un’Armata Inglese non si trovasse in tutte le sue comodità se si vedesse l’Isola Volante sopra la sua testa. Vero è che gli Houyhnhnms non sono molto esperti nel mestier della Guerra, e che soprattutto sarebbono molto imbrogliati per guarentirsi da’colpi del nostro Cannone, e de’nostri Moschetti. Non ostante; anche che fossi un Ministro di Stato, non consiglierei giammai di praticarsi un’invasione nel loro Paese. L’intrepidezza loro, la loro prudenza, la loro unanimità, e l’inviolabile loro affetto per la Patria, terrebbono lor luogo d’esperienza nell’Arte militare. Ma in vece di formar progetti per debellar la Nazion magnanima degli Houyhnhnms, sarebbe a desiderarsi, che fosser eglino in istato e in disposizione di spedire un numero sufficiente di essi loro, per insegnar agli Europei i primi principj dell’Onore, della Giustizia, della Veracità, della Temperanza, della Grandezza d’Animo, della Castità, della Benevolenza, e dell’Amicizia. Virtù, di cui tuttavia ne conserviamo i nomi della nostra favella; come, se fosse d’uopo, co’Libri di molti nostri Scrittori potrei pruovarlo.

Ma evvi eziandio un’altra ragione, la qual moderarebbe la mia sollecitudine nel dilatare i Dominj di Sua Maestà, se capace fossi. Per vero dire, mi erano entrati alcuni piccioli scrupoli sopra la Giustizia distributiva in questa sorta d’occasioni. Per esempio; una Truppa di Pirati, senza saper dove, è sospinta da una una burrasca: Un Mozzo s’arrampica ad alto dell’Albero di Maestra e vede Terra; la Ciurma vi approda per praticarvi un saccomanno; vede un miserabile Popolo che la riceve con amistà e con piacevolezza; impone un nuovo nome a quella Regione, prendendone il possesso in buona forma pel Re; alza in guisa di Monumento una pietra o qualche marcina tavola: accoppa una trentina de’Naturali e ne asporta una mezza dozzina perchè serva di mostra; se ne ritorna al suo Paese e ottien la sua grazia. Qual felicità per un Monarca d’aver Sudditi così zelanti per far valere i giusti Diritti di lui: Non si lascian perciò dimentiche le utili loro scoperte. Con prima opportunità sono spediti Vascelli, i Natii del Paese sono scacciati o destrutti; i loro Principi messi alla tortura perchè palesino i loro Tesori, e sono autorizzati gli Atti tutti d’insolenza o d’inumanità. E quest’esecrabile brigata di carnefici messa in opera per una sì pia spedizione, si chiama una Colonia moderna, colà trasferitasi per convertire, e per rendere colto un Idolatra e barbaro popolo.

Ma è forza che io dica altresì, che una somigliante descrizione non conviene a patto veruno alla Nazione Inglese; la quale, nello stabilimento delle Colonie, ha sempre osservate le regole della più perfetta prudenza, e della più esatta equità; che in questa sorta di fondazioni proponesi in primario vantaggio l’avanzamento della Religione; che non vi spedisce che Pastori pii e capaci di predicare il Cristianesimo: che non affida le Cariche civili, che ad abilissimi e totalmente incorrutibili Uffiziali, e che, per tutto dire, fa sempre scelta di vigilanti e virtuosi Governatori, i quali non anno altra mira che la felicità del Popolo ch’è lor sommesso, e l’onor del Monarca loro Signore.

Come però da un canto, i Paesi da me descritti non sembrano aggevoli per praticarvisi incursioni; e che dall’altro non abbondano nè in oro, nè in argento, nè in zucchero, nè in tabacco; patisco la tentazione di credere che non sien questi oggetti convenevoli al nostro zelo, ai nostro valore, al nostro interesse. Che se è diversa l’opinione di quegli a cui ciò spettar potrebbe, io sono pronto ad attestare, quando giuridicamente ci sia eccitato: Che verun Europeo, prima di me non ha posto piede in quel Paese, per lo meno, se deggiasi prestar fede agli Abitatori. Puossi veramente trarre un’obbiezione da que’due Yahoos che si eran veduti già alcuni secoli sopra una Montagna delle Terre degli Houyhnhnms, e da’quali, ha riferto di questi Animali, la razza di quelle bestie era discesa. E’tanto più forte quest’obbiezione, quanto che osservai nella loro posterità alcuni delineamenti Inglesi, comechè non troppo distinti: Ma lascio a coloro che son versati nelle Leggi che risguardano le Colonie, il decidere fin a qual segno cotale mia osservazione fondi i nostri Diritti sopra quelle Regioni.

Quanto alla formalità di prender ne possesso a nome del mio Sovrano, ella non mi si è mai presentata all’idea; e quando pure riflettuto ci avessi, avrebbemi insegnato la prudenza di rimmettere a miglior opportunità una somigliante cerimonia.

Avendo io così risposto alla sola obbiezione che potrebbemi esser fatta come a Viaggiatore, prendo quì licenza da’cari Leggitori miei, e mi accingo, al presente, a ben valermi dell’eccellenti Lezioni che ho ricevuto dagli Houyhnhnms, ad instruire gli Yahoos di mia Famiglia per quanto potrà lor permettere la loro naturale indocilità: a considerar sovente in uno specchio la mia figura, affin d’avvezzarmi insensibilmente a soffrir la vista d’una Creatura umana: a compiagnere la stupidezza degli Houyhnhnms del mio Paese, ma non ostante a trattar con rispetto le loro persone, per l’amore dell’amabile mio Padrone, della sua Famiglia, e de’suoi Amici, a’quali i nostri Houyhnhnms an l’onore di rassomigliare per la figura; tutto che a riguardo dell’intelligenza, dal tutto al tutto ne differiscano.

La passata settimana permisi per la prima volta a mia Moglie di pranzare con esso meco, ma a condizione ch’ella adagiar si dovesse all’estremità più distante d’una lunga tavola. Non è già che io non mi ricorda che aveano il loro allettamento certe vecchie abitudini: ma fin a questo momento mi è riuscito impossibile d’accostarmi ad un Yahoo; senza temere le sue unghie e i suoi denti.

Ben più facilmente mi riconcilierei con la spezie degli Yahoos in generale, se impeciati essi non fossero che di que’vizzj e di quelle follie, che in qualche modo sono il patrimonio di lor Natura. Punto non mi sento commosso a sdegno se veggo un Avvocato, un Pazzo, un Giuocatore, un Gran Signore, un Ruffiano, un Medico, un Seduttore, o un Traditore: Tutti costoro rappresentano la loro scena naturalmente: Ma non mi posso più raffrenare, quando scorgo una massa di vizzi nell’Anima e di difetti nel Corpo, coronati dal più sciocco e dal più insolente Orgoglio. Ho il mio che fare a menditarci: non ci è maniera che vaglia a farmi comprendere come un un tal vizio regnare possa in un tal animale. I saggj Houyhnhnms, che son dotati di tutte le bella qualità, ond’essere può adorna una ragionevole Creatura, non an vocabolo per esprimere questo vizio in loro favella, perchè ne sono incapaci, e perchè non l’anno mai raffigurato ne’loro Yahoos. Ma io, a cui era più cognita la Natura umana, alcuni delineamenti in quelle bestie ne ho ravvisati.

Come professano gli Houyhnhnms di non ubbidire che alla Ragione e di non lasciarsi reggere che da lei, più non invaniscono per le buone qualità ch’essi posseggono, di quel che potrei io farlo per aver due braccia o due gambe: Avvantaggio, onde non vi ha persona così sciocca che se ne glorii, tutto che senza questo sia ella miserabile. Se un po troppo io insisto su quest’argomento, la ragion è che vorrei con tutto il mio cuore rendere, per lo men, sopportevole la società d’un Yahoo Inglese. Priego dunque que’che affatto non sono immuni da un vizio sì assurdo, di aver la discretezza di non presentarsi a’miei occhj.

IL FINE.


All books 24glo.com/book/

24glo.comContacts
Copyright © 24GLO LTD ® 2004-2024. All rights reserved.